Dicembre 2015

Mine | poesia

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Sempre gli stessi giochi.

Palline che rimbalzano conto i muri.

Tornano in mano solamente per scappare, come

gatti di plastica.

Ho criptato le mine un po’ per nasconderle e

un po’ per evitare che qualcuno possa calpestarle volontariamente.

Hanno usato la siepe, il mare, la vita. Materie, materie, materie.

Abbiamo materie per ogni concezione, anche per quelle che non riusciamo a concepire.

La tangenziale vorrebbe essere stuprata. Indossa la sua corazza di velluto e chiede venti a botta,

I.V.A. ignorata. Anche lei cripta qualcosa, forse le emozioni.

La matassa diventa incolore e trovarne il capo potrebbe diventare un esperimento cieco.

La siepe è stata accorciata da un giardiniere messicano. Lunghi baffi e naso grosso.

Così muore la poesia, sotto la falce di un professionista del settore.

Li senti? Sono i rintocchi del nostro monastero. Sono le luci del tempio in cui

i santi si scambiano le spade in segno pace, gettando due gocce di limone nei cucchiai.

Buon appetito mondo -Il pranzo è servito.

Quest’anno il grande OM uscirà da una ghetto blaster.

Napalm e poesia. Metrica e razionalizzazione.

Un giorno falceranno anche il server della nostra immaginazione.

 

 

Ferdinando de Martino.

The end of the tour | David Foster Wallace

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Ieri notte ho visto “The end of the tour” di James Ponsoldt, basato sul libro di David Lipsky “Come diventare se stessi”.

Ovviamente non posso esimermi dallo scrivere una mia opinione su questo film, dedicato a quello che da tempo è diventato il mio autore preferito, rubando la staffetta a Tolstoj.

L’avrei davvero odiato se fosse stato un film terribile, ma non lo è. Sicuramente non sarebbe piaciuto a Wallace e questo credo che sia del tutto comprensibile, ma il film in sé è un prodotto davvero interessante.

Senza soffermarci su fotografia e stronzate del genere (adoro la fotografia e tutte le varie sottigliezze cinematografiche, ma qui stiamo parlando di Wallace, quindi tanto vale soffermarci sulla sceneggiatura), potremmo passare direttamente al contenuto viscerale dei dialoghi.

Il film mette in luce una linearità di fondo che non credevo fosse possibile rappresentare in un contesto wallaciano. Probabilmente immaginavo di dovermi iscrivere a dei corsi propedeutici alla visione per vedere questo film senza strapparmi il cervello dalle tempie, invece il lungometraggio è riuscito in un intento molto particolare: mi ha dato una chiave di lettura estremamente semplice su David Foster Wallace e, in particolar modo, su “Infinite Jest”.

Durante la fine del tour promozionale di “Infinite jest”, David Lipsky ottiene la possibilità di seguire Wallace per un’intera settimana, per la realizzazione di un’intervista per il mensile Rolling-Stone. Wallace aveva appena partorito il suo romanzo fiume, destinato a diventare “l’Ulisse” della generazione x e il mondo guardava al suo talento con una punta di invidia e l’unico modo per concepire il suo genio era quello di svilire il personaggio, rendendolo un’icona alla Kurt Cobain.

Il motivo è molto semplice: le icone sono facili da capire, mentre “Infinite jest”, per quanto mi riguarda, è il libro più complicato della narrativa occidentale.

L’obbiettivo di fare di Wallace un martire, sfruttando le sue debolezze, in modo da trasformarlo in un prodotto da vendere ai più, non era una strategia di mercato, quanto più l’unico modo che gli americani hanno di relazionarsi al genio.

Quando ci si trova davanti ad “Infinite jest” si possono cogliere centinaia e centinaia di differenti interpretazioni e questo fa di quel libro un’opera estremamente complessa. Chiunque riesca a portare a termine la lettura di “Infinite jest” (e non è per niente semplice) non potrà che ricordare quel libro per il resto dei suoi giorni, come un capolavoro assoluto di empatia verso il concetto stesso di empatia.

Personalmente il libro in questione è il mio preferito e, quindi, posso sembrare di parte, ma credetemi quando dico che “Infinte jest” non finirà mai, almeno nella vostra testa.

Tornando al film. Due cose sono molto importanti all’interno del lungometraggio: il rapporto coi media e il peso delle parole.

Questi due fattori sono estremamente legati tra loro.

Quando si ascoltano i ragionamenti di persone del calibro di David Foster Wallace, si tende ad ascoltare in maniera superficiale ogni parola, cercando di collegare i pezzi dell’intero contesto. Questo è anche il motivo per cui in pochi riescono a portare a termine “Infinite jest”. In realtà le parole di Wallace, nelle interviste e nei libri, avevano un reale peso all’interno di un discorso. In pratica la gravità delle parole, rendevano realmente importante il concetto.

Un esempio azzeccato potrebbe essere la risposta di D.F.W. alla domanda -Hai la televisione?-, a cui l’autore risponde dicendo -No. Se ne avessi una non smetterei mai di guardarla o, semplicemente, rimarrebbe sempre accesa, come un sottofondo.

Si accolgono frasi del genere un po’ come se fossero delle massime gettate a caso, atte a costruire la retorica di un individuo e così è lo stesso Lipsky ad accogliere queste parole da inserire in un articolo.

Il colpo al cuore arriva quando ci si accorge che quella frase detta in una discussione svolazzante, corrisponde alla realtà. Ce ne accorgiamo quando vediamo per la prima volta Wallace davanti ad un televisore, totalmente incapace di staccarsi da quelle immagini così ammalianti nella loro dozzinale  concezione mediatica.

Capiamo allora che quello che abbiamo sentito corrisponde alla verità e finiamo per riflettere su tutto ciò che è stato detto durante il film, ma questa volta con una chiave di lettura diversa: Wallace non mente.

Avrà detto la verità anche sulla tecnologia e sul progredire di internet nel 1996? Forse tutto ciò è correlato col senso di solitudine e oppressione che si portava appresso?

Il colpo finale arriva quando Wallace pronuncia una frase molto particolare, dopo aver/ci ripetuto diverse volte all’interno del film -Tu non credi a quello che dico.-.

La frase in questione è -Da piccolo la mia dipendenza è stata la televisione. Lo so che ci sono dipendenze più seducenti, ma la mia è stata quella.

Questa cosa mi ha fatto riflettere su molte cose, dandomi finalmente una chiave di lettura molto intensa per capire meglio “Infinite jest”.

Wallace sembra entrare così bene nei suoi personaggi, perchè tutti i personaggi di quel libro sono spudoratamente David Foster Wallace.

Hal gioca a tennis, come molti dei personaggi e come il nostro Wallace. Joelle ha un velo, Wallace ha una bandana. James si suicida, Wallace si suicida. Tutti i personaggi che hanno guardato l’Intrattenimento, finiscono lobotomizzati dal teleputer, esattamente come Wallace nella realtà, quando la televisione riesce ad ipnotizzarlo.

È come se Wallace avesse cercato disperatamente di spiegare una dipendenza estremamente particolare, creando un intero universo basto sulle dipendenze stesse. Universo che riesce a controllare ogni dipendenza, eccezion fatta per l’Intrattenimento (trasposizione freudiana della dipendenza di Wallace).

Abbiamo poi un ulteriore richiamo wallaciano tra film e libro, ovvero quello in cui Wallace non ammette un problema di alcolismo, quanto più un’attitudine a bere ogni cosa. Questa malattia ha un nome ben preciso: dipsomania.

James soffriva di dipsomania in “Infinite jest”.

È come se l’uomo dietro le parole fosse una creatura dotata di una cultura onnivora, costruita per dare un nome più complesso a cose semplici e terrorizzanti.

-Continui a non credere alle mie parole.- ripete sempre Seghel (nel ruolo di Wallace) e questo ci aiuta a capire la profondità dell’autore che continua a dirci: guardate che parlo seriamente.

Gli attori sono stati molto bravi, ma davanti ad una sceneggiatura così interessante, non me la sento proprio di spendere giudizi sulle capacità degli interpreti.

Passo e chiudo.

 

 

Ferdinando de Martino.

Bar-sofia (filosofia da bar) | La delicata questione delle dipendenze | #4

La delicata questione delle dipendenze.

Il più grande talento dell’uomo è il sabotaggio.
Il mondo degli uomini, più di qualsiasi altro mondo animale è basato su di un solo concetto: la paura.
Può essere molto difficile da accettare, ma la natura dell’essere umano é tutto fuorché nobile. Probabilmente siamo la specie meno nobile di tutto il pianeta.
Questa mancanza di nobiltà è direttamente proporzionale alla quantità di paura che proviamo. Il rapporto paura-azione è il nostro tallone d’Achille.
Imparare a gestire la paura delle masse è lo stratagemma migliore per ottenere consensi in una dittatura, ad esempio.
Partiamo dal presupposto che ogni individuo è perfettamente in grado di mentire a tal punto a se stesso, da credersi l’uomo più intelligente del mondo. Molti storceranno il naso, leggendo un’affermazione del genere, perché essendo più intelligenti del sottoscritto, probabilmente la troveranno banale e questo va a dimostrare il fatto che l’uomo si sente da sempre, non solo l’animale più intelligente di tutte le altre specie, ma anche il più intelligente della sua stessa specie animale.
Siamo così maledettamente intelligenti da sostenere, addirittura, che ci sono milioni di differenze tra noi e gli animali a dimostrazione del fatto che il nostro intelletto reagisce in maniera totalmente diversa agli stimoli esterni, da quello degli animali.
Eppure, quando voglio far sedere il mio cane sul lato del divano coperto da un asciugamano da mare, per non fargli sporcare i cuscini, utilizzo la sua paura a mio piacimento. Sono perfettamente consapevole del fatto che un mio urlo o una mia alzata di mano (a simulare una possibile sberla) è in grado di generare in lui una quantità minima di paura atta a soggiogarlo.
Se fosse un bambino gli parlerei, ma essendo un cane e non parlando la mia lingua, sono costretto a veicolare le sue azioni usando la paura. Questo è un atteggiamento esclusivamente umano, vero? I cani da pastore, ad esempio, non utilizzano il ringhio per veicolare le azioni delle pecore, vero?
Ma al cane non interessa di per sé che cosa facciano o non facciano le pecore, tuttavia utilizza questo meccanismo di paura, solamente perché il nostro interesse ha utilizzato la paura del cane per veicolare le sue azioni a veicolare a loro volta le azioni delle pecore. La paura genera paura.
Quindi, quando in una pubblicità per la diarrea vediamo un uomo in fila alle poste, imbarazzato per i suoi disagi intestinali, ciò che la ditta ci sta vendendo non è il rimedio in pillole contro la diarrea, bensì la sicurezza che non proveremo mai più la paura di scoreggiare in pubblico.
Si poteva tranquillamente girare uno spot in cui un uomo, colto dalla diarrea, si alzava dal letto per andare in bagno, vittima della suddetta diarrea. In una situazione del genere, la paura gioca un ruolo minore e sapete perché?
Perché la paura di soffrire di diarrea in casa propria non vale tanto quanto quella del farsela sotto in pubblico?
Perché la seconda opzione smuove la paura atavica di non essere abbastanza in alto nella graduatoria del gruppo, o branco.
La paura riesce, addirittura, a modificare la percezione del mondo che ci circonda. Prendiamo lo sport, la sana competizione.
La paura di perdere porta gli atleti a prendere il doping, eppure il desiderio che sta alla base dello sport è la competizione, ovvero, la possibilità di allenare il proprio corpo per metterlo alla prova con un altro corpo ben allenato. Il senso stesso del meccanismo sportivo va a farsi fottere se un atleta prende il doping, ma la paura di perdere cancella in noi ogni significato significante.
Siamo l’unica specie vivente in grado di imbrogliare per arrivare ad uno scopo, perché la nostra percezione individuale del mondo riesce a rielaborare i concetti a suo piacimento.
Le paure ci spingono a fortificare le nostre mancanze con le dipendenze.
Non bisogna pensare alle dipendenze in termine di narcotici, quanto più ad un qualcosa da cui iniziamo a dipendere senza sentirne la reale necessità.
Adesso bisogna riflettere un attimo sul termine “necessario”. Siamo portati a credere che il “necessario” sia, esclusivamente, ciò che preserva la nostra singola esistenza: ossigeno, cibo, acqua e buttiamoci anche dentro dei vestiti per difenderci dal freddo.
Però, a queste necessità basilari, si vanno ad aggiungere delle “necessità morali”, necessità come la preservazione della specie, generando dei figli che saranno soggetti a loro volta alle nostre stesse necessità. Nutrire i propri figli non è necessario, nel senso stretto del termine, in quanto nessuno è mai morto per non aver nutrito un figlio. Quindi, la decisione di provvedere o non provvedere alle necessità della nostra prole è una questione del tutto morale.
Questo ci può servire da monito per farci capire che l’uomo è perfettamente in grado di creare nuove necessità in base al concetto di morale. Come sappiamo, la morale è estremamente soggettiva ed ognuno di noi esercita il proprio libero arbitrio seguendo una moralità che è tale solamente secondo la sua concezione di morale.
Per uno Jihadista, ad esempio, è moralmente accettabile che il proprio figlio si faccia esplodere in una sinagoga. In questo caso, però, la morale a cui è soggetto lo Jihadista non è una morale soggettiva, bensì una morale preconfezionata: la morale Jihadista.
Gruppi di persone che seguono una morale “quattro salti in padella Findus” perché non sono in grado di crearsene una. Essere cattolico, musulmano o ebreo, vuol dire firmare un contratto con una morale prestabilita; una morale che non cambierà col tempo.
Molto spesso le religioni sono semplicemente una scorciatoia per domande del tipo: è moralmente accettabile fare questa cosa?
Entrando a far parte di un gruppo religioso si rinuncia automaticamente alla possibilità di esprimere le proprie opinioni, in quanto la religione parla e pensa per noi. Per spiegare meglio questi due concetti, vi farò due esempi, uno in cui la religione pensa per voi e uno in cui la religione parla per voi.
Quando un cattolico si professa tale, è automaticamente contro l’aborto. Un cattolico non può sviluppare un proprio pensiero su questo argomento. È cattolico ed è contro l’aborto, punto.
In questo caso, la religione pensa per voi. I cattolici sono contrari alla ricerca sulle cellule staminali, ma provate a chiedere loro: cosa sono le cellule staminali?
Molto spesso, questi, ignoreranno totalmente il significato di “cellula staminale”, tuttavia, saranno contrari a priori. Quando un individuo inizia a professare ideali che non hanno nessun significato per lui, in quel momento, la religione sta pensando per lui.
Quando, invece, sentirete frasi come -Questo è un buon Papa-, la religione starà parlando per voi.
Rifletteteci un attimo. È possibile che un organizzazione come la Chiesa Cattolica, metta a capo del suo ordine un individuo che non serva esclusivamente come immagine idealizzante dell’intera struttura? È possibile che per far definire “buona” l’intera organizzazione, basti cambiare la figura del capo con cui tutti identificano la chiesa?
È possibile che quando pronunciate le parole -Questo è un buon Papa.- il sotto testo sia -C’è ancora speranza?
Constatato che l’uomo è l’unico essere capace di subappaltare il proprio libero arbitrio, utilizzando la morale di altri, laddove non si dimostra capace di svilupparne una propria, passiamo alle dipendenze rapportate al bar.
Nei bar si possono sviluppare diverse tipologie di dipendenza:

ALCOLISMO

Sappiamo che le paure sono in grado di veicolare le azioni dell’individuo e sappiamo, inoltre, che la morale è del tutto soggettiva, ma sappiamo anche che questa può tranquillamente omologarsi ad un intero sistema moralizzato da terzi, se un individuo è facilmente influenzabile.
Bere è una cosa che si può fare da soli o in compagnia. In casa possiamo bere da soli, mentre al bar, solitamente, beviamo con gli amici. Spesso, però, notiamo dei clienti intenti a bere da soli all’interno di un bar.
Abbiamo visto che la paura atavica di non essere accettati dal gruppo è superiore alla paura del dolore, a tal punto da farci comprare le pillole per prevenire la diarrea in coda alle poste, piuttosto che per curare i sintomi della diarrea stessa. Abbiamo visto che siamo perfettamente in grado di farci del male, con il doping, per paura di perdere una corsa. In pratica, riusciamo a farci del male, per praticare una cosa come lo sport che, a livello teorico dovremmo praticare per farci del bene.
Quindi, la paura di non essere accettati dal gruppo, può veicolare in noi l’assunzione di alcol per entrare a far parte di un gruppo di amici, anche se l’esagerata assunzione di alcol può nuocere alla nostra salute.
Ovviamente non possiamo definire alcolismo il bere con gli amici, esattamene come non possiamo definire tale il bere da soli, tuttavia, il ripetuto abuso di alcolici può portare ad una dipendenza da alcol.
Quando beviamo, il nostro cervello ne risente ed allora iniziamo ad abbassare la guardia, facendo uscire così il nostro carattere.
In questo preciso istante, esattamente mentre mi trovo davanti alla tastiera di questo fottutissimo computer a scrivere questo libro, non tocco un bicchiere d’alcol da circa due settimane. Ho preso questa decisione, non perché io sia un alcolista, piuttosto per vedere quanto il mio bere influisce sulla mia percezione del mondo e, soprattutto quanto ha influito in passato sulla mia vita.
Ci tengo a ripetere che chi scrive questo non è un alcolista, in quanto non soffre di una dipendenza da alcol a tal punto da dover ricorrere a terapie o cose del genere. Per me è molto difficile non bere, ma non reputo questa mia difficoltà alla stregua di una dipendenza estrema e questo posso asserirlo perché, in tema di dipendenze, me ne intendo parecchio.
Comunque, per non essere un alcolista, l’alcol ha influito abbastanza nella mia vita.
Mi è stata sospesa la patente per sei mesi, ad esempio, e ho dovuto prestare servizio come volontario per non pagare tredicimila euro di sanzione. Avrò guidato da ubriaco almeno un duecento volte e questo, credetemi, è un dato approssimato in difetto.
Nonostante ciò, non mi reputo uno stupido. Ho un Q.I. nella media (sebbene il test del Q.I. sia una stronzata di proporzioni bibliche), non soffro di ritardi mentali, gestivo un negozio (di alcolici) e scrivo libri; quindi non credo di essere un totale imbecille, eppure ho guidato da ubriaco un’infinità di volte e questa, senza dubbio, è una cosa da stupidi.
Perché l’ho fatto? Perché nella mia città i taxi costano troppo e gli autobus, dopo una certa ora, non ci sono.
Rileggendo queste righe mi sento un totale imbecille. Ho rischiato la mia vita e, soprattutto, quella degli altri, perché nella mia città i taxi costano troppo? Sono un coglione e sono coglioni praticamente tutti quelli che conosco.
Rammentate che chi scrive questo libro non soffre di una dipendenza da alcol, quindi, questo suo atteggiamento irresponsabile non scaturisce da una dipendenza, bensì da qualcos’altro. Che cosa? La paura.
Beviamo per la paura di non essere accettati dal nostro gruppo e, quando la solitudine s’impossessa di noi, finiamo a bere da soli, sperando che qualche altro gruppo ci accetti, almeno per una decina di minuti.
La paura ci veste, ci fa lavare i denti, ci mette in macchina, ci accompagna al bar, ci fa bere e, infine, ci fa tornare in auto a casa, ubriachi. Ma chi se ne frega… il gruppo ha accettato la nostra presenza. Poco importa se a farne le spesa sarà un disgraziato che portava il cane a spasso alle quattro di notte. Il gruppo ci ha accettato!

SESSO-DIPENDENZA AL BAR

Passiamo a qualcosa di più interessante: il sesso occasionale.
L’essere umano è vittima del suo appetito sessuale. Essendo animali, saremmo capaci di fare sesso con qualsiasi cosa, dai tubi di scappamento alle persone. Tuttavia, l’uomo, abituato a definire ogni cosa, ha coniato diversi termini per racchiudere gli atteggiamenti sessuali in categorie ben precise. Quello che a livello teorico è semplicemente sesso, diventa sesso eterosessuale, sesso lesbo, sesso gay, zoofilia e chi più ne ha più ne metta.
Il bar, in quanto luogo di ritrovo, è una piazza perfetta per fare nuove conoscenze e, quindi, costruire le basi per un eventuale rapporto sessuale.
Partiamo dal presupposto che la percezione dell’universo soggettiva, ergo, il mondo, la società e tutti i concetti che la dominano, sono da ricondurre alla propria e singolare visione del mondo. Ciò che per me è bello può risultare brutto a te e ciò che per me è giusto, per te può risultare sbagliato.
Rapportando questo concetto al bar, possiamo dedurre che ognuno di noi ha una singolare visione del bar e quindi della vita stessa.
Se chiedete a mia madre, ad esempio, cosa rappresenta per lei il bar, probabilmente la sua risposta sarà la seguente: il bar è quel posto in cui si prende il caffè la mattina e, di tanto in tanto, una coca cola con le amiche.
Se ponete la stessa domanda alla mia stretta cerchia di amici, questi vi risponderanno all’unisono: il bar è quel posto in cui ci si ubriaca.
Questa è stata a lungo, e forse lo è tuttora, la mia visione del bar. In pratica, è la nostra percezione dell’universo a far si che questo prenda delle connotazioni all’interno del nostro pensiero, esattamente come per il bar.
I primi giorni in cui ho deciso di smettere di bere, la mia prima domanda esistenziale è stata: riuscirò ancora a divertirmi, o vivrò il resto dei miei giorni in uno stato di apatia perenne?
Questo perché, sempre secondo la mia ottica distorta della vita, divertirsi senza stroncarsi i neuroni è praticamente impossibile. L’alcol è una gabbia in cui si entra volontariamente, ma molto spesso ciò che può sembrare un suicidio morale, può rappresentare una sorta di difesa; come a dire che le sbarre di una gabbia possono , da una parte, precluderti le bellezze del mondo mentre, al contempo, potrebbero risultare una protezione dalle brutture della vita al di fuori del proprio cancello di preconcetti.
Ci si rintana nell’alcol, esattamente come ci si rintana nell’eroina o nel crack: perché si arriva a pensare di aver scoperto il segreto del mondo.
Questa particolare attitudine, protratta nel tempo, porterà l’individuo a cercare di comunicare con il resto del mondo, solamente quando l’alcol inizierà a diffondere in lui la giusta dose di coraggio. Tutto ciò che gravita attorno alla vita dell’individuo, finirà per inciampare nelle pozzanghere alcoliche della sua esistenza.
Ad esempio, tutte le mie relazioni sono nate sotto il vischio dell’alcol. I miei approcci, le mie performance sessuali, i miei appuntamenti, insomma, tutto ciò che riguarda la sfera sentimentale, deve al dio alcol ogni possibile paternità.
Heidegger vedeva l’uomo come una sorta di proiettile, sparato verso l’avanti. La visione, soggettiva, dell’uomo proiettato verso una direzione, non ne fa, però, una creatura esclusivamente pragmatica, in quanto pur non restando intrappolati in quello che i latini chiamavano -hic et nunc – (il qui e ora), la nostra esistenza riguarda il qui e ora in cui agiamo. È nel qui e ora che noi riusciamo, non ad essere, ma ad “esser-ci”.
Proprio questo “ci” è ciò che lega l’Essere, temporalmente, nella storia.
Essendo perennemente proiettati in avanti, la nostra visione di noi stessi e le nostre ambizioni sono, anch’esse proiettate in avanti e questa condizione ci porta alla “cura”, ovvero, alla possibilità di poterci prendere cura di qualcosa, rapportando a questo meccanismo la nostra esistenza.
Nel nostro caso, la cura o la dedizione che diamo al bar, potrà proiettarci nel letto di una biondina allampanata o di una madre, vittima della crisi di mezza età.
Personalmente credo che questo continuo sfuggire dal qui e ora, ci renda vittime di questa proiezione continua, obbligando l’essere umano a prendersi cura delle proprie distrazioni, evitando di concentrarsi troppo sui meccanismi esistenziali. Alcol e sesso, sono due grandi compagni del non pensare.
Quando il bar, però, finisce per miscelare alcol e sesso, l’uomo rimane vittima di uno strano dualismo. Freud sosteneva che ogni scelta dell’uomo portasse, inconsciamente, verso due direzioni: amore e morte.
Da una parte la vita e dall’altra la distruzione. Ovviamente l’alcol rappresenta una scelta distruttiva, mentre il sesso rappresenta una scelta romantica e piena di vitalità.
Cosa succede, tuttavia, quando è l’alcol a generare le situazioni che portano al sesso? In questo caso si finisce in un paradosso esistenziale. Una scelta distruttiva che implica, però, una meta vitale.
Questa visione estremamente distorta è stata a lungo la mia visone dei rapporti interpersonali. Questo rapporto stretto tra scelte distruttive e scelte vitali, genera una nuova a tipologia di scelta: la malattia.
Si prende una scelta positiva, come può essere il sesso, e la si proietta verso il male, verso l’estremo, verso la continua ricerca di rapporti occasionali, atti inconsciamente a distruggere la vita, modificando il significato stesso di rapporto sessuale atto a generare vita.
Mio nonno semplificava questa teoria con un semplice -ogni eccesso è un difetto.- e devo dire che, certe volte, la semplicità aiuta ad esprimere un concetto in maniera più eloquente di molti libri di speculazione filosofica.

Le svastiche di carta | poesia

47

Confini ben delineati.

Orizzonte sgombro,

maggio.

Settembre, forse.

Non aprile.

Marchettare al di sotto dei fari della notte.

Piovono esplosioni. Nulla.

Non saremo mai alla loro altezza.

 

Rubare qualche immagine in movimento

al centro commerciale.

La festa dell’inadeguatezza.

Accendi/spegni/accendi/spegni.

 

Gennaio, febbraio, marzo.

Non luglio e nemmeno giugno.

Apriamo le svastiche di carta dei nostri sogni.

Ottobre.

Masticavi senza fare rumore. Stanze incendiate.

Maratone esistenziali.

 

 

 

Ferdinando de Martino.

 

A spasso | poesia

Edward_Hopper-Nighthawks-1942

Siamo andati a spasso

nel ghetto delle nostre coscienze,

ignorando il ticchettio dei tacchi

e tutte quelle cose che ci hanno sempre fatto impazzire.

Le ancore di piombo stagnano sull’asfalto.

La città è stesa. Dormiente.

Fede dice qualcosa a qualcuno,

come se le parole avessero più senso

se indirizzate verso un punto preciso.

Ho visto quegli occhi stanchi,

li ho visti milioni e milioni di volte

senza mai collegarli ad un volto.

Mi piace non collegare le cose.

Scollegare è un talento al contrario.

La bottiglia di gazzosa piange le sue gocce

mentre l’inverno si è rintanato da qualche parte,

lasciandoci orfani ancora e ancora.

Siamo andati a spasso molte volte.

 

 

Ferdinando de Martino.

Le vostre figlie stanno twerkando coi nostri sentimenti

2013 MTV Video Music Awards - Show

Per una volta uscire di casa si era dimostrata una cosa utile ed istruttiva.                                   Il mondo stava andando a rotoli e noi tutti non potevamo che fingere di essere delle pietre rotolanti, per citare Dylan.
Passavo molto tempo in biblioteca, in mezzo alla gente intenta a studiare, ansiosa di andare ad immettersi in quel meccanismo chiamato vita che non avrebbe fatto altro che deluderli, trattando le loro ambizioni e i loro sogni come carne da macello.
Avevano tutti una gran fretta e detta in tutta sincerità non riuscivo proprio a capirne il motivo.
Fretta di laurearsi, di scopare, di lasciarsi, di offrirsi gelati, di aspettare un bus sotto la pioggia, fretta di perdere qualche amicizia per colpa di una donna, fretta di tornare presto a casa per portare fuori il cane, fretta di truccarsi dentro e fuori e via dicendo.
Io non studiavo, anzi, avevo fatto del “non studiare” un “non lavoro” e mi trovavo in quel posto proprio per quello.
Lavoravo in mezzo a tutta quella gente perché ero un solitario e quello che non sapete dei solitari è che odiano la solitudine. Non si è mai soli per scelta, ma per assuefazione.
Quindi di tanto in tanto mi costringevo a guardare la gente, mentre lavoravo. Il lavoro che facevo era un po’ particolare, se non del tutto anomalo.
Proprio mentre un tizio a fianco a me studiava trigonometria e una ragazza ripassava la sua tesi, io scrivevo “Lo sterminatore anale”.
Sì, scrivevo porno. Nella mia vita si è sempre azionato un meccanismo di stranezza e tutto ciò che mi riguardava, finiva per essere risucchiato in un vortice di stranezze e cose del genere.
Ero impresentabile. Immaginate di vedere tutti quei ragazzi più giovani di me, impegnati a sputare sangue sui libri per ottenere qualcosa nella vita e poi, provate a visualizzare me, intento a scrivere “Lo sterminatore anale” sperando che la ragazza al mio fianco non sbirciasse lo schermo.
Ad onor di cronaca dovrei dire che il racconto a cui stavo lavorando si chiamava “Lo sterminatore anale” parte due, perché il primo risaliva alla settimana precedente.
Volevo mettermi in mezzo alla gente per non sembrare proprio un totale extraterrestre, ma come pretendevo di non risultare strano quando passavo la maggior parte della mia giornata a scrivere porcate inaudite per uno stipendio da fame? Quella roba ti entrava dentro fino al cervello e non potevi farci niente.
Parlavo con le persone e dicevo -Sì, sono uno scrittore.- e loro avevano una sorta di sguardo di ammirazione, ma poi quella vocina interiore mi diceva -Ricordati che scrivi di sterminatori anali e non sei Tolstoj.-.
Non ero Tolstoj, quello era poco ma sicuro. Forse con una barba lunga avrei potuto anche imitarlo, ma le similitudini si sarebbero limitate all’estetica.
Ad un certo punto notai che la ragazza al mio fianco aveva cambiato espressione. Iniziai ad auto convincermi che con lo sguardo fosse riuscita a rubare qualche capoverso dallo schermo del mio portatile.
Provai una vergogna inaudita. Non potevi nemmeno andare a studiare in biblioteca senza finire a fianco ad un pervertito che scriveva di sterminazioni anali.
Forse vi chiederete il perché del titolo e la risposta è molto semplice: in pratica il protagonista della saga era una spia che sterminava le donne potenti con degli orgasmi anali senza precedenti.
Poi viene quasi da chiedersi come mai le donne non volessero uscire col sottoscritto, eh?
Avevo completamente rinunciato a comprendere quel meraviglioso ed infernale enigma che tutti chiamavamo: donna.
Mi arrivò un messaggio sul telefono, ma non lo lessi, perché ero troppo risucchiato dalla trama del racconto che stavo scrivendo. Per quanto possa risultare ridicolo ho sempre messo molta dedizione nello scrivere e sinceramente non ne ho mai capito il motivo, perché mentre Follet viveva in una villa, io scrivevo pornografia in biblioteca e non potevo permettermi nemmeno di avere un motorino.
Mi si accusa di eccedere con la repressione nei miei libri e non si può muovere un accusa più concreta di questa, riguardo ai miei lavori. La repressione è l’unica cosa che conosco veramente a fondo.
So cosa si prova a non potere fare le cose, so cosa si prova a guardare gli altri vincere quando tu ti impegni dieci volte più di loro, ma non hai né le carte in regola, né le possibilità di competere con loro.
È tutta merda che conosco molto bene e non posso parlare d’altro, perché è proprio quando smetti di parlare delle cose che conosci, per descrivere mondi popolati da folletti e cazzate del genere che smetti di essere uno scrittore ed inizi ad essere un qualcosa che non voglio nemmeno prendermi la briga di definire.
Era proprio in quel posto che avevo trovato i mei primi amici. I personaggi di quei libri mi avevano sedotto, avevamo preso delle pinte assieme ed eravamo andati in posti che non avrei mai visitato, per via della mia paura di volare. Quei volumi impolverati mi avevano salvato la testa dalla pazzia, nonostante mi fossi ritrovato a scrivere “Lo sterminatore anale” a fianco ad una donna che non mi sarei mai portato a letto, perché credeva che fossi uno psicopatico.
Poco più tardi, sull’autobus, lessi il messaggio che mi era arrivato poco prima, quando mi trovavo ancora in biblioteca.

_Stasse DISCO_
Era un messaggio di un mio amico, atto ad invitarmi ad una serata in discoteca. Odio le serate e odio le discoteche, quindi il programma non mi allettava per niente, ma dovevo assolutamente fare qualcosa per il mio karma; quindi decisi di accettare il suo invito.
Cercai di vestirmi alla moda, accorgendomi di non immaginare nemmeno in che direzione andasse la moda e alla fine mi vestii come al solito.
Per descrivere il mio modo di vestire ho creato un neologismo: seattle-romantico.
Non è tanto una questione di capi d’abbigliamento, quanto più di attitudine; in pratica ogni cosa che indosso diventa automaticamente grunge.
Non so se questo sia un bene o un male e non mi interessa più di tanto avere un opinione a riguardo.
Fuori dalla discoteca eravamo in quattro, tutti pronti ad entrare in quel luogo che non ci apparteneva nemmeno un po’.
Erano tutti così belli e pettinati che mi veniva quasi da pensare che in qualche posto del mondo, per una sorta di bilanciamento cosmico, dovesse esserci una discoteca piena di gente sciatta e brutta.
Mi ero già pentito di essere uscito, ma quella era una cosa che mi succedeva praticamente ogni volta che mettevo il naso all’aria aperta.
Cambiai notevolmente opinione sull’intera serata, solamente dopo essere entrato in quel locale. C’era una quantità di ragazze imbarazzante.
Erano bellissime e giovanissime… che diavolo potevano mai avere a che spartire con uno che non era né bello e né tanto giovane, che guadagnava meno di quello che i loro genitori gli davano il sabato sera per andare a sculettare in quei locali.
Avevano la vita in pugno, mentre a me quella stessa vita non faceva che prendermi a pugni dal mattino alla sera. Ero un perdente, ma almeno avevo imparato a stare sul ring e quella non era una cosa da tutti.
Ad un certo punto, assieme ad un mio amico, iniziammo a ballare con due giovani ragazze. Probabilmente diciotto anni, per evitare denunce o cose del genere.
Adesso, urge una precisazione sul termine ballo.
In pratica, cari padri di famiglia, quando le vostre figlie diciassettenni vi dicono -Ciao, vado a ballare.- quello che in realtà intendono é -Ciao papà vado a fare sesso anale.
Lo so che in questo momento starò rovinando la vita di molti genitori, convinti che le loro figlie siano delle ballerine di danza classica, ma proprio per dare a questi genitori le armi per capire cosa fanno le loro figlie, mi trovo costretto a scendere nel dettaglio.
Le ragazze non ballano più. Lo so che dicono in continuazione -Vado a ballare.-, ma quello che in realtà dovrebbero dire è -Vado a Twerkare!
Cos’ è il Twerk, cari padri? Il twerk consiste nell’appoggio del sedere di vostra figlia sul pacco del ragazzo con cui sta ballando.
Una volta appoggiato il culo sul suddetto pacco, vostra figlia inizia a muovere il sedere, mantenendo i glutei molli, facendoli letteralmente ballonzolare, facendo inserire meglio il… non c’è un termine elegante per continuare questa frase, ma ci siamo capiti.
Una volta raggiunta una sorta di, come dire, rigonfiamento, la figlia in questione inizierà ad abbassarsi con la schiena, andando a creare quella che per loro e danza, mentre per quelli della mia generazione è a tutti gli effetti una pecorina.
Adesso viene la parte interessante del ballo. Una volta raggiunta quella posizione ad angolo retto, la ragazza inizia a staccarsi dal pacco, per poi colpirlo nuovamente a ripetizione, il tutto afferrando le mani del giovane scrittore… ehm, volevo dire del giovane tizio preso a caso, per piazzarsele sulle tette.
Questo è il ballo. Non fraintendetemi, perché nel carrozzone dei pervertiti ho un posto in prima fila, ma credetemi, sono rimasto completamente sconvolto da questa nuova tipologia di ballo.
Più che altro non riesco a capire come si sia potuti passare dallo “Schiaccianoci” alla pecorina, perché mi rifiuto di dare al Twerking un nome diverso.
Ovviamente essendo di una generazione obsoleta, dopo questo rapporto sessuale in pista, ho provato a baciare la suddetta ragazza e lei si è spostata.
Questo ha creato in me uno scombussolamento antropologico.
Ai miei tempi prima si limonava e poi si passava alle tette e al culo. Ora, non voglio sembrare l’ultimo dei romantici, ma adesso le giovani sembrano lasciare il libero accesso alle basi secondarie, senza però concedere la base più soft.
Io non riesco realmente a concepire questo atteggiamento, non perché mi senta un rudere, ma per il semplice fatto che non ha un reale senso logico. Mimare una pecorina con un ragazzo, piazzandogli le mani sulle tette, per poi rifiutarsi di baciarlo è un po’ come salire sul bus, timbrare il biglietto e poi scendere per proseguire a piedi.
Questo fanno le vostre figlie, probabilmente perché non avete saputo educarle a dovere, insegnando loro che un impegno è un impegno e che non possono andare in giro a twerkare coi sentimenti altrui.

 

 

Ferdinando de Martino

BAR-SOFIA | Filosofia da bar | capitoli 1, 2 e 3

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Il bar come concetto.

Il bar è uno dei più grandi cliché della narrativa. Cinema, letteratura tradizionale e a fumetti, televisione e teatro tendono ad utilizzare, spesso, il bar più come una sorta di concetto che come un luogo vero e proprio.
Se in un racconto o in una puntata del vostro serial preferito, un investigatore privato si trova all’interno di un bar è per via degli stereotipi che la sua figura rappresenta, rapportata al concetto di bar.
L’investigatore, al contrario del poliziotto, è quasi sempre un outsider (come spiega Poe in uno dei suoi saggi di scrittura) e come ogni outsider che si rispetti, scappa sempre da qualcosa; questo “qualcosa” potrebbe essere un passato da dimenticare, dei cari persi in qualche strano incidente e via dicendo. L’epicentro del discorso è “lo scappare”.
L’investigatore scapperà sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora, l’escamotage del bar attribuisce allo “scappare” una nota di tragedia interiore; come se il bar fosse l’unico posto in cui l’investigatore può permettersi di “scappare” senza muoversi.
Quell’uomo avvolto dal suo trench, potrebbe bere in casa sua o addirittura nel suo studio, ma no… lui preferisce il bar.

BAR+INVESTIGATORE, genera TRAGICITÀ

Ogni figura, nella narrativa, ha una sua personale connotazione all’interno del bar. Una donna altolocata, che solitamente entra in un bar sempre e solo per cercare qualcuno, controllerà la polvere sul bancone e scruterà con sdegno il bicchiere di Coca Cola o acqua, che ordinerà solamente per educazione e non per sete.
L’arte, al contrario della filosofia, dev’essere lo specchio della società, mentre la filosofia rappresenta la lente d’ingrandimento di questa. Ecco perché l’arte e la filosofia sono da sempre alleate. In fin dei conti, sempre di lenti si parla.
Essendo l’arte, specchio dell’intera società, la riproduzione artistica del bar deve, in qualche modo, rifarsi all’idea reale di bar. Questo vuol dire che il bar, altro non è che un luogo atto a stereotipizzare ogni individuo? Esatto.
Il bar è la perfetta riproduzione di una piazza greca. Al giorno d’oggi esistono molte piazze, Facebook è l’emblema di queste, ma al contrario del noto social network, il bar riesce a tirar fuori le nostre debolezze, cosa che Facebook cerca di eludere, mostrando i nostri bicipiti e le nostre cosce mentre fingiamo di essere ai Caraibi, durante un pernottamento a Spotorno.
Nei bar tutti hanno qualcosa da dire e lo fanno coi loro atteggiamenti.
Immaginate di trovarvi in questo preciso istante all’interno di un bar, diciamo… con un paio d’amici, intenti a farvi una birretta.
Vedete quel gruppo di ragazzi, lì? Due tavoli a fianco al vostro? Bene.
Sono in cinque e tutti stanno chiacchierando. L’argomento non è importante, quello che è importante è l’atteggiamento.
Se all’interno della comitiva, qualcuno inizierà ad alzare il tono della voce, magari ridendo o scherzando, ecco, quello è l’individuo più solo del gruppo. Ovviamente non sto parlando di un singolo episodio, ma di ripetute dimostrazioni di superiorità canora che andranno a dimostrare quanto da me sostenuto.
Che bisogno c’è di alzare la voce? Che bisogno c’è di essere quello che grida più di tutti, quando segna l’Inter? Che bisogno c’è di ordinare da bere con voce gutturale? La risposta è una ed una soltanto: la solitudine.
Il bar tende ad estremizzare tutto, specialmente quando si passa al secondo bicchiere; solitudine, terrore, amore, invidia, perfidia, tutto verrà estremizzato da quell’ambiente in cui la competizione è silenziosa e serpentina.
Molti sarebbero portati a credere che il più solo del locale sia il tizio che inizia a raccontare la propria vita al primo sconosciuto, ma non è così, in quanto chi ha qualcosa da raccontare, raramente alza la voce. Le tonalità alte rappresentano l’arma di chi non ha un cazzo da raccontare, perché quel poco che si ha, lo si cerca di vendere in maniera altisonante.
La voce degli ambulanti che gracchia dagli altoparlanti -Donne è arrivato l’arrotino.-, ne è la dimostrazione più eloquente.
Credetemi, amici… il bar smaschererà tutti, se gli darete il tempo di farlo.
Tutto il mio discorso si basa sull’apparenza e molti di voi saranno portati a pensare che giudicare dall’apparenza sia uno degli errori più grossolani per una persona. Beh, chi la pensa così, commette un grossolano errore di calcolo.
È stato M. Heidegger a dire -Ciò che non si manifesta nel modo in cui non si manifesta l’apparenza, non può neppure sembrare, esser parvenza.-, ed io la penso esattamente come lui.
L’apparenza descrive alla perfezione l’individualità dell’essere. Dall’apparenza possiamo dedurre i gusti musicali, le ideologie politiche e perché no, anche le tendenze sessuali.
Possiamo tranquillamente asserire che l’apparenza è, a tutti gli effetti, la carta d’identità dell’essere.
Il bar rende più semplice risalire all’essere, enfatizzando l’apparenza.
Addentrandosi in questa foresta di pensieri, si potranno scoprire una miriade di nozioni che potranno tornare utili all’animale da bar.
Il mercoledì sera, ad esempio, è più semplice rimorchiare nei bar. Prima di darmi contro, pensate a tutte le volte in cui avete rimorchiato in un bar o, se non è mai successo, pensate a tutte le volte che i vostri amici hanno rimorchiato all’interno di un bar. Quanti di questi rimorchi hanno avuto luogo durante un mercoledì sera? Ecco.
Il motivo è semplice ed è estremamente radicato nella filosofia da bar: siamo la generazione della pausa.
Siamo i messicani delle generazioni. Prima di additarmi come razzista per aver sostenuto che i messicani siano pigri, lasciatemi il tempo di spiegare questa mia affermazione.
Chiunque sostenga che i messicani non sono pigri, o non ha mai conosciuto un messicano o non ha mai ragionato sulla derivazione del termine, spagnoleggiante, “siesta”. Se questo non bastasse, vi porterò un altro esempio.
I messicani hanno inventato uno strumento musicale chiamato Kahon, strumento che consiste, praticamente, in una scatola su cui sedersi. La musica nasce dal battere le mani sulla suddetta scatola. Ok. Dopo aver dimostrato di non essere razzista, ma solamente obbiettivo, posso tornare al saggio.
Siamo la generazione della pausa. I nostri videogiochi hanno sempre la possibilità di fermare il gioco per fumare una sigaretta e se credete che sia sempre stato così, non avete mai giocato a Pac-man.
Pac-man non aveva l’opzione pausa. Pac-man ti logorava il cervello. È per questo che i rimorchiatori degli anni ottanta uscivano di sabato e non di mercoledì; perché il fine settimana era dedicato al divertimento.
La nostra generazione ha bisogno di una pausa settimanale per “tirare avanti” e così, il mercoledì è diventato il giorno designato a questa pausa dallo stress della vita. E cosa fanno le donne quando sono stressate?
Adesso, probabilmente, mi ritroverò nella merda fino al collo: ehi, dopo i messicani non vorrai mica stereotipizzare anche le donne?
Amici, le regole del gioco non le ho fatte io… è stato il bar. Quel posto con le insegne luminose, tira fuori la verità dalle persone e se le donne sono più inclini a scacciare lo stress facendo l’amore non è colpa del sottoscritto. Gli uomini farebbero l’amore anche per scacciare l’amore stesso. Visto? Siamo tutti degli stereotipi, no?

Il teorema del triangolo.
(il gioco dell’istinto)
Lo scopo di questo libro è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.
Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.
L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.
Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.
L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.
Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi, finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.
Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.
All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzata e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.
L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.
Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.
Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.
Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?
L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro, per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?
Incredibile. Davvero incredibile.
La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.
Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.
Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.
Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.
Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.
Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema, senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.
Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

La questione del demone egizio.

M. Heidegger nutriva una forte avversione verso l’avvento delle nuove tecnologie. Molti studiosi sostengono che questa sua idiosincrasia sia da ricondurre al periodo storico in cui il filosofo ha vissuto.
La tecnologia viene da sempre progettata per essere impiegata in ambiti in cui vi è una forte richiesta d’impiego e ai tempi del vecchio Martin, l’impiego più utile (se di utilità si può parlare in una situazione del genere) era la guerra.
La meccanizzazione della guerra è un fenomeno a cui, ai nostri giorni, siamo del tutto assuefatti, ma durante la seconda guerra mondiale questo procedimento deve aver, sicuramente, destato non poca curiosità da parte del mondo accademico.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la freddezza del metodo sperimentale veniva messa al servizio di una grande macchina della morte.
Ma ciò che interessa a noi è la filosofia da bar, dove vuoi andare a parare, dunque? Datemi un momento e tenterò di arrivare ad estrapolare un concetto da queste pagine.
Sempre Heidegger, grande esistenzialista, ha scritto uno dei più importanti tomi di filosofia del novecento: Essere e tempo.
All’interno di questo libro, il filosofo, si pone una domanda che, sin dall’antica Grecia, ha messo in ginocchio la filosofia: cos’è l’essere?
Bella domanda. Cos’è l’essere?
Proprio da questa domanda, Heidegger, ci regala una perla di saggezza inestimabile. Da questa lezione ho imparato una verità sconcertante, per una mente come la mia, che di filosofia non so praticamente niente.
Quando ci poniamo la domanda in questione, ciò che sbagliamo non è la domanda in sé, quanto più la forma. Se domandiamo a qualcuno -Cosa è l’essere?-, finiamo automaticamente a catalogare “l’essere” come ente. Questo è uno dei più grossolani errori della società.
Il vecchio Martin, dunque, sostiene che l’essere non si possa ridurre ad ente, in quanto l’essere è tale, proprio perché si manifesta esclusivamente nell’ente.
Molto spesso non sono le domande ad essere sbagliate, ma solo la loro forma e, purtroppo, la forma è strettamente legata al significato.
Prendiamo, ad esempio, la domanda: si può analizzare la vastità della società contemporanea in un microcosmo come può essere il bar?
Anche in questo caso non è la domanda ad essere sbagliata, bensì la forma. La domanda giusta è: si può analizzare il bar, rapportandolo alla vastità della società contemporanea che si esprime al di fuori del suo microcosmo? È la risposta a senza alcun dubbio: sì.
Bisogna pensare al bar come ad un ente preso a caso. Potevamo servirci della scuola, dell’università, di un centro commerciale e via dicendo… io ho scelto di utilizzare il bar, per la connotazione pop che ha assunto all’interno del nostro immaginario collettivo.
In questo caso dobbiamo pensare al bar, come ad una rappresentazione contemporanea del mito della grotta di Platone.
In pratica, ciò che vediamo all’interno del bar, altro non è che il contorno delineante di un qualcosa che a stento possiamo immaginare, ma di cui possiamo analizzare il rapporto con la società esterna in quanto, al contrario del mito di Platone, noi dal bar possiamo uscire quando ci pare e piace.
Ora, grazie a Socrate riusciremo a mettere insieme i pezzi di questo puzzle di concetti.
Al momento sappiamo che: Heidegger non amava la tecnologia.
Abbiamo imparato ad osservare bene la struttura di una domanda.
Stiamo utilizzando il bar per rilevare le ombre della società che vogliamo andare a razionalizzare.
L’avversità nei confronti della tecnologia di Heidegger, acquisisce un’attualità quasi sconcertante, se si va ad analizzare uno dei più particolari discorsi di Socrate, ovvero, “il demone d’Egitto”.
Ve la farò molto breve. In pratica, Socrate raccontò di un certo Theuth (demone egizio) che di tanto in tanto si dilettava nell’inventare. Un giorno inventò, ad esempio, l’astronomia, un altro giorno inventò la geometria, la scrittura e il gioco d’azzardo coi dadi.
Queste sue invenzioni vennero, da lui stesso, mostrate al re d’Egitto Thamus. Quando si arrivò alla scrittura, Theuth si trovò davanti ad un muro di cinismo, costruito dalla saggezza del sovrano d’Egitto. La scrittura doveva servire come Viagra della cultura e della memoria (detto alla buona), tuttavia Thamus denigrò a gran voce questa subdola invenzione, regalandoci una chiave di lettura che tutt’ora mi fa dubitare molto spesso del mio lavoro.
La scrittura, secondo Thamus, avrebbe distrutto la memoria stessa del popolo egizio che, abituato a dover tenere a mente tutta una serie di concetti, avrebbe iniziato a scrivere questi concetti per tenerli meglio a mente, al posto d’impegnare la loro memoria a contenere i suddetti concetti.
Questa storiella di Socrate, ci fa capire quanto il saggio ateniese fosse riluttante nei confronti della scrittura.
Abbiamo, quindi, la scrittura, la tecnologia, il bar e la società contemporanea. Adesso non ci rimane che dar vita ad un “demone”che avrebbe fatto incazzare a dismisura sia Socrate che Heidegger, ovvero, una sorta di ibrido tra letteratura e tecnologia. Lo smartphone, anzi, lo smartphone rapportato al bar.
Grazie al recente sviluppo della tecnologia mobile, ciò che è scritto è alla portata di chiunque in qualunque momento e se ponete una domanda del tipo: “chi è David Bowie?” basteranno una manciata di minuti, ad un qualsiasi individuo, per imparare vita, morte e miracoli del cantante inglese.
Questo potrebbe sembrare un enorme traguardo dell’umanità e in un certo senso lo è, perché se venite morsi da un serpente, grazie al vostro telefono potrete individuare la tipologia di rettile che vi ha morso mostrandola al vostro medico; ma provate a chiedere alla stessa persona, dopo dieci minuti: in che anno è nato David Bowie?
Probabilmente l’individuo in questione vi risponderà -Aspetta che vado a controllare su internet.-. Ecco la dimostrazione che, anche se da un certo punto di vista la nostra vita è notevolmente migliorata, i dubbi di Socrate e Heidegger non erano del tutto infondati.
Avendo imparato che il bar, generalmente, rappresenta una visione alleggerita di una società esterna che, a tutti gli effetti, si arrovella dietro a problematiche più importanti dei compleanni delle rockstar, questa dilagante ondata di qualunquismo tecno-letterario mette davvero i brividi.
Avevano ragione Socrate e Heidegger, quindi? A questo quesito non possiamo rispondere.
Quello che possiamo fare, invece, è l’immaginare un Socrate contemporaneo. Una buona domanda da porsi è: come vivrebbe Socrate nella società contemporanea?
Se si conosce anche a grandi linee la vita di Socrate, non si può dubitare del fatto che il sommo ateniese non avrebbe mai resistito alla possibilità di rompere le palle ad individui che situati in continenti lontani miglia e miglia dal suo, grazie al web.
Ebbene sì. Socrate avrebbe amato a tal punto Facebook da diventare un generatore automatico di spam sulle più disparate accezioni della morale.
Le nostre bacheche sarebbero piene di domande tipo <<Cos’è una buona azione?>> o,<<Definisci la bellezza.>> e via dicendo.
Socrate avrebbe scritto, affrontando il nostro tempo esattamente come affrontò la guerra, il processo per empietà e perfino la sua condanna a morte, ovvero, con estremo rispetto ed eleganza interiore, senza mai abbassare la testa.
Detto questo, Socrate dev’essere stato un rompi coglioni di proporzioni bibliche e in un bar qualsiasi, sarebbe finito in duelli senza fine coi vari Diogene da bancone.

Ferdinando de Martino.