Gennaio 2016

Al cuore Ramon|DUELLO TRA SCRITTORI| Continuate la storia

al cuore

Siete pronti per un duello tra scrittori 2.0?

In cosa consiste la sfida? Semplice. Qui sotto troverete l’inizio di un racconto.

Il primo autore (quello dell’incipit) sarò io , mentre il secondo, il terzo, il quarto ecc. ecc., potrete essere voi.

Questo, infatti, è un invito che rivolgo a tutti gli scrittori del web. Continuate voi questo racconto, perchè sto puntando il mio revolver verso di voi.

Dimostratemi che quando un uomo con una pistola incontra un uomo con una penna, l’uomo con la pistola è un uomo morto.

Scrivetemi la continuazione del racconto nei commenti o via messaggio privato (social o sulla mail ferdidioniso@gmailcom) ed io sceglierò ogni volta quello che mi avrà colpito di più, continuando a pubblicare il racconto in questione, proseguendo nella sfida.

Non esistono limiti di stile. Il racconto potrà prendere anche mille sfaccettature differenti.

Il tutto avrà una sola regola. le parti da voi inviate dovranno rispettare una sola legge: dovranno essere esattamente come delle revolverate ( massimo 100 battute, ma non sono pignolo… anche se saranno 105 andranno bene).

Al cuore Ramon– sarà il nome della sfida.

Al termine del racconto, decideremo tutti assieme il titolo più azzeccato per l’opera.

Pronti?

Via.

 

Era notte.
Non avevo mai visto la mia città così vuota. Il tempo e lo spazio sembravano aver litigato tra loro per qualche motivo, incasinando le mie emozioni e tutto quello che c’era da incasinare.
Un corpo sdraiato per terra distolse la mia attenzione dal silenzio. Vivente? No?
Mi avvicinai lentamente. Sentivo uno strano prurito sul collo, probabilmente una zanzara doveva avermi punto.
Dove diavolo era Carlo quando serviva? Forse se ne stava rintanato in qualche sala da gioco…
Si era giocato tutto. È ironico vedere un uomo giocare. Un tempo si giocava solamente da bambini.
Ci siamo. Non ho sigarette, ma avendo smesso di fumare da sei anni, non è poi così importante come particolare.

 

A voi la continuazione!

 

Saluti

Fedi!

BAR-SOFIA | Filosofia da bar | La casa degli specchi #7

 

Specchio, specchio delle mie brame, dimmi chi è la più bella del reame?
Se abbiamo preso il bar come specchio dell’intera società, mi sembra giusto interrogarsi su cosa rappresenti lo specchio nella società contemporanea.
Lo specchio è tre cose: ego, pragmatismo e fragilità.
Quando posiamo il nostro sguardo su quella superficie riflettente o opaca che sia e finiamo, ironicamente, per vederci alti belli e magri, quando in realtà pesiamo centottanta chili per un metro e dieci d’altezza, quello è specchio-ego.
Lo specchio-ego è la dimostrazione che il nostro singolare punto di vista è il centro del nostro universo. L’egocentrismo è, sostanzialmente, ciò che ci impedisce di rapportarci in maniera razionale con la realtà che ci circonda. Tuttavia, questa stessa realtà è frutto delle nostre percezioni, in quanto se non fossimo mai nati non avremmo mai vissuto la realtà circostante. Lo so, lo so… è un po’ come dire che gli spaghetti al pomodoro esistono solamente perché siamo noi a mangiarli. Questo ragionamento potrebbe sembrare sbagliato, ma se noi non mangiassimo gli spaghetti, andremmo a creare un nuovo fenomeno, ovvero, il fenomeno dell’eventuale non esistenza degli spaghetti e questo concetto esisterebbe solamente nella nostra personale interpretazione del mondo, ma esisterebbe comunque, a dimostrazione del fatto che le galassie esistono solamente perché noi le percepiamo, altrimenti non le conosceremmo.
La matematica, ad esempio, non esiste, se ragioniamo al concetto di essenza come ciò che esiste dal nostro esclusivo punto di vista. Quello che realmente esiste è la possibilità dell’essere umano di rapportarsi con la matematica.
Una volta un professore d’arte mi fece un’osservazione che tutt’ora mi capita di citare, quando mi interrogo sul significato di certe cose; l’osservazione era la seguente : l’opera diventa opera d’arte non appena qualcuno inizia a rapportarsi con questa, tramite le sue opinioni.
Quello che questo professore voleva spiegare è un concetto tanto semplice quanto essenziale, l’opera rimane immutata sia se la si mostra al pubblico e sia nel caso contrario; l’unica cosa che cambia realmente è la visione e la conoscenza del singolo individuo, rapportato all’opera. La Monna Lisa esisterebbe anche se nessuno l’avesse mai vista, perché la Monna Lisa è.
Lo specchio-ego non è, quindi, quello che ti fa pensare che ciò che conosci esiste e ciò che non conosci no, bensì è quello specchio che dovrebbe farti ragionare sul basilare concetto che tutto ciò che non conosci rappresenta la non conoscenza di qualcosa che esiste; perché la non conoscenza implica la presenza, all’interno dell’universo, di un qualcosa di esistente che non si conosce.
L’ignoranza, presa come non conoscenza, non è poi un male così grave, no?
Lo specchio fragile è quello che sottolinea le nostre imperfezioni, evidenziando in maniera assoluta le limitazioni della nostra condizione.
Questo è uno degli specchi più importanti, perché è l’unico in grado di tenere a bada lo specchio-ego e, inoltre, è quello che dà il via per la maratona dello specchio pragmatico.
Lo specchio pragmatico è quello che sottolinea le nostre limitazioni, rapportandole alle nostre ambizioni.
Questo è lo specchio che preferisco, perché senza la sua esistenza l’intero genere umano si fermerebbe davanti alla propria fragilità. Questo è lo specchio che ci costringe giornalmente a superare i nostri limiti. È lo specchio che ci guarda nel profondo, trovando in noi la forza di escogitare dei piani futuri atti a risollevare la nostra condizione.
È, ad esempio, lo specchio che porta il sottoscritto a combattere con la tastiera per scrivere libri di cui, sostanzialmente, nessuno sente il bisogno.
Questo specchio riflette l’immagine che noi stessi vorremmo proiettare verso gli altri.
Il bar, la scuola, il posto di lavoro, il parco, un centro di disintossicazione, la stazione degli autobus, un canile… ogni luogo è una casa degli specchi che finisce per proiettare le diverse immagini dei diversi noi che combattono al nostro interno.

 

 

 

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Grazie mille.

 

Ferdinando de Martino.

Gravità | BAR-SOFIA | filosofia da bar| #6

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La gravità, in senso figurato, rappresenta tutto ciò che ha un peso incisivo. Un’azione negativa, ad esempio, andrà a gravare sul nostro curriculum o sulla nostra figura pubblica.
Vi è mai capitato di cambiare opinione sulla gravità di una qualche vostra azione, magari dopo il terzo bicchierino al bar? Non so quale sia la vostra risposta, ma la mia è senza dubbio un sì.
Se osservato da un punto di vista esterno, questo meccanismo emotivo potrebbe sembrare una semplice strategia di difesa o un qualcosa di artefatto, atto a difendere la propria quiete interiore. Personalmente non credo che sia così.
Se il bar è solamente un piccolissimo spicchio di quello che chiamiamo “mondo”, è probabile che ciò che avviene in questo spicchio, in realtà, rappresenti una versione in miniatura dell’intera arancia, no?
Facciamo un piccolo esempio: Tizio A perde il lavoro.
Tizio A inizia a disperarsi, ragionando su quello che il lavoro comporta e sui cambiamenti che dovrà apportare alla sua vita, fino a che non troverà una nuova fonte di guadagno per sostentare il suo tenore di vita.
La società contemporanea ci ha addestrati molto bene, convincendoci che se tizio A iniziasse a prendere alla leggera una situazione del genere, sarebbe da ritenere pazzo o non idoneo alla vita savia.
Quindi nel momento in cui tizio A, arrivato al terzo bicchierino, inizia a pensare che -tutto sommato non è poi così importante…-, viene automaticamente catalogato come pazzo. Insomma, il non dare il giusto peso alle proprie azioni è molto grave, secondo la nostra società.
Gravità, che parola magnifica. In “Harry a pezzi”, Woody Allen ha un flashback in cui rivive una sua seduta psicanalitica di quando era solamente un bambino; nella suddetta seduta, il piccolo Woody spiegava come il fare i compiti non avesse senso, quando l’intero universo si stava sgretolando. Quell’azione, secondo l’ebreo più famoso della comicità intelligente, era più grave del suo percorso di studi.
Questo mi porta ad un affermazione fattami da una mia vecchia professoressa. Premetto che non sono mai stato uno studente modello, anzi, si può tranquillamente dire che ero l’esatto contrario di uno studente modello.
Questa mia professoressa, che ho detestato all’inverosimile, ha irrobustito in me il concetto che l’insegnamento non è una cosa da prendere alla leggera e, soprattutto, che i buoni professori si possono contare sulle dita di una mano di un superstite troppo lento nel lanciare una bomba a mano.
Due episodi, relativi a quel periodo, mi faranno ricordare fino alla fine dei miei giorni di questa professoressa.
Per evitare querele o cose del genere, chiameremo questa prof. Santippe, come la moglie rompiscatole di Socrate.

Episodio 1

Durante una delle mie migliori interrogazioni (stavo mirando a qualcosa di vagamente superiore alla sufficienza), Santippe, dopo avermi dato un “più che sufficiente”, disse -Eri più preparato del solito. Ovviamente non sei come la Giorgi, ma non si può pretendere tutto dalla vita.-.
-In che senso non sono come la Giorgi?- domandai.
-Beh, de Martino, non pretenderai mica di essere intelligente come la Giorgi, no?
Quella frase mi colpì profondamente, facendomi sprofondare in un limbo in cui stagnai per circa un quarto d’ora, ovvero, il tempo atto a formulare un ragionamento che molti professori non riusciranno mai a capire.
Decisi che l’azione della mia professoressa era molto grave e che con quella sua affermazione, aveva dimostrato di essere un incompetente nel suo mestiere di levatrice dello spirito e della voglia di conoscere.
Santippe, in pratica, aveva preso i voti della mia collega Giorgi e li aveva messi a confronto coi miei, tracciando così un profilo d’intelligenza, basato sulla capacità di accumulare nozioni pressoché inutili, imparate durante le lezioni.
Giorgi era un soldato, le si diceva cosa e quando imparare e lei lo faceva, come una sorta di automa. Arrivati ad una nuova nozione, si liberava dei contenuti della precedente lezione e imparava a memoria parole e regole di cui ignorava totalmente il significato. Questo è l’esatto contrario della filosofia.
I migliori filosofi sono quelli che hanno fatto a pezzi le parole, approfondendo la vacuità del loro significato significante. Non ero di certo un filosofo, ma non ero neanche meno intelligente della mia collega, semplicemente: ero.
Io ero, lei era ed era, anche, la mia professoressa. Eravamo. La nostra intelligenza, non era rapportabile a quel contesto in senso stretto. I professori tendono a giudicare l’intelligenza in base alla capacità degli studenti a non porsi domande, mentre il loro unico scopo dovrebbe essere quello di creare individui pensanti.
Di recente ho incontrato la mia vecchia compagna, la buona e cara Giorgi. Se ne stava seduta alla fermata dell’autobus ad attendere il bus, come se attendesse qualcosa di più oscuro e malinconico. Sono abbastanza sicuro che la vita, una volta uscita dalla cupola dorata dell’istruzione pubblica, avrà bussato alla sua porta, mostrandole una strada lastricata di concetti da estrapolare dai cartelli per capire in che direzione andare. La vita aveva battuto lei, come aveva battuto anche il tizio che in questo momento scrive questo libro. Non siamo né intelligenti, né tantomeno stupidi, cara mia amica. Siamo… forse.

Episodio 2

Santippe mi diede una nota, un bel giorno, ed io decisi di strapparla e buttarla nell’immondizia. Un mio compagno recuperò la suddetta nota e la recapitò a Santippe (figlio di…).
Nacque, così, una seconda nota. Era molto più colorita della prima e, mi duole ammetterle, anche notevolmente interessate dal punto di vista dell’enfasi.
Mi si descriveva come una persona totalmente apatica e incapace di capire la gravità delle mie azioni. Avevo preso una nota e al posto di farla firmare ai miei genitori, l’avevo buttata, cercando di nascondere così le mie nefandezze alla mia famiglia. Per Santippe quella era l’ennesima dimostrazione della mia indolenza verso tutto ciò che mi circondava. La mia azione era da considerarsi, sempre secondo Santippe, estremamente grave.

Il fatto era che allora, come oggi, non credo che il termine “grave” sia rapportabile al suo significato figurato dell’accezione negativa.
Adesso, arrivato alla soglia dei trent’anni, mi viene da sorridere se ripenso a quell’episodio perché non lo giudico grave, esattamente come non lo giudicavo grave all’epoca in cui strappai la nota. Insomma, facciamo i seri, che ripercussioni può avere lo strappare una nota a scuola, sulla vita di un essere umano?
Se avessi dato importanza a quel gesto, mi sarei dimostrato uno stupido. Questo mio ragionamento, però, andava a demolire il ruolo di “potere” che Santippe si era costruita nel tempo. Sia io che lei, eterni nemici, sapevamo che quella non era un’azione grave, ma lei doveva reggere il gioco.
Ricordo che una volta, la mia compagna Giorgi prese una nota e questo la fece piangere. Probabilmente le ripercussioni gravose di quella nota avranno distrutto la vita di Giorgi. Forse l’aver preso quella nota le avrà impedito di trovare un lavoro? Magari al primo appuntamento con il principe azzurro, questo l’avrà abbandonata al tavolo, dopo aver scoperto questa macchia indelebile sulla sua fedina penale e via dicendo.
Per Santippe io ero indolente, mentre Giorgi era intelligente.
La gravità è relativa. Per me, ad esempio, è grave mangiare i porcellini d’India, mentre per un peruviano è all’ordine del giorno.
Mangiare un cane è illegale nel nostro paese, mentre in certe zone del mondo puoi tranquillamente sederti ad un tavolo ed ordinare un Alano alla griglia. È probabile, quindi, che la gravità delle azioni siano soggettive, in base alla nazione che ci ospita e alle sue leggi. Per un indiano è grave mangiare una mucca, mentre noi adoriamo il Big Mac.
Il cannibalismo non è grave. Il cannibalismo: è.
Se la nostra nazione approvasse il cannibalismo, in due sole generazioni inizieremo a non reputare tanto grave il mangiare un polacco o un francese.
Il senso della gravità è tale in base alla nostre leggi. Un furto, ad esempio, graverà sulla tua fedina penale, ma il furto in sé non poi così grave, in senso figurato.
L’omicidio, la pedofilia, la creazione della bomba atomica, nessuna di queste cose è realmente grave se non in maniera del tutto soggettiva all’individuo e subordinata alle leggi del paese in cui una persona vive.
Per Giorgi, una nota è grave a tal punto da piangere davanti all’intera classe, mentre per il sottoscritto non vi è gravità nel ricevere una nota.
Per il mostro di Firenze è normale uccidere prostitute, mentre per il sottoscritto è grave.
Uccidere prostitute o prendere note a scuola, possono risultare azioni gravi o non gravi, in base alla soggettività dell’individuo.
Tutto questo può sembrare una stronzata, ma quando una ragazza ti lascia e il mondo sembra crollare a pezzi, arrivato al terzo bicchierino capisci che il mondo sta realmente andando a pezzi e che la rottura con una ragazza non grava poi tanto su questa situazione.

Filosofia da bar | LA PAURA| #5

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Il concetto di paura è in grado di smuovere le coscienze, gli animi e perfino le masse. La paura ci tiene inchiodati alla nostra personale croce, in attesa che i romani ci facciano fuori.
L’utilizzo della paura può portare alla coercizione, come abbiamo visto nei capitoli precedenti, ma la domanda che voglio porvi è la seguente: si può scendere dalla croce delle nostre paure?
Esiste un solo modo, per quanto mi riguarda, di evitare l’influenza che la paura esercita su di noi e questo modo è il capire che dalla paura non si può guarire.
Con la paura si può esclusivamente convivere e, sempre per quanto mi riguarda, ho iniziato a diffidare di chiunque tenti di vendere una qualche soluzione alle paure più recondite della nostra esistenza. Come mai? Perché l’essere umano è totalmente incapace di compiere azioni che non determinino una qualsivoglia forma di arricchimento personale.
Nessuno fa niente per niente, questo è un dato di fatto.
L’uomo tende a rapportare ogni cosa al guadagno e questo fattore ne determina l’impossibilità di pensare ad una qualche soluzione che aiuti un terzo, senza un eventuale guadagno e, se per caso, esistesse una medicina in grado di curare la paura, nessuno la metterebbe in vendita, perché la mancanza di paura genererebbe l’impossibilità di esercitare ogni forma di potere.
Quando un barista fa uno scontrino, non lo fa perché ama il suo paese ma, semplicemente, perché è terrorizzato dall’idea di beccare una multa. La paura smuove il sistema e, purtroppo, noi tutti siamo vittime del sistema.
L’unico super potere che possiamo sviluppare è la capacità di evitare che la paura ci muova verso azioni atte a sconfiggerla e per fare ciò bisogna convincersi che le paure non si possono mai e poi mai sconfiggere.
La mia vita è stata martirizzata, ad esempio, dagli attacchi di panico. Questa forma di breve crisi depressiva che, senza il minimo preavviso, arriva a fare piazza pulita del raziocinio ha notevolmente influenzato le mie azioni.
Ragionando sui meccanismi che generano la paura, sono riuscito a capire come gli attacchi di panico abbiano veicolato la mia vita verso il terrore. La scoperta che ne ho ricavato, ahimè, non è per nulla rassicurante ma almeno è una scoperta su cui ho potuto lavorare.
Durante un giretto in auto per le vie della mia città, sono stato colto da un attacco di panico, proprio mentre mi trovavo al volante. Questa, credetemi, è una cosa che non auguro a nessuno.
Il mio cervello sprofondò in una sorta di limbo terrificante. Ero fottuto. Di lì a poco mi sarei sicuramente schiantato contro qualcosa o qualcuno, avrei ammazzato qualcuno o, addirittura, avrei ammazzato me stesso. Il cuore iniziava a pompare come se un infarto mi stesse per cogliere da un momento all’altro, mentre l’aria si faceva densa e sembrava non volerne proprio sapere di entrare nei miei polmoni; tutto in me tremava ed io stesso mi stavo trasformando in terrore.
Riuscii ad accostare e lì, proprio in quel momento, iniziò il vero inferno, un inferno che durò per circa tre anni. Tutto partì da una semplice domanda: potrò ancora guidare?
Iniziai ad analizzare la cadenza settimanale dei miei attacchi di panico e stabilii che la media era di tre attacchi a settimana. Senza dubbio un bel numero, vero?
A livello statistico utilizzavo la macchina ben più di tre volte alla settimana, diciamo un tre volte al giorno, anche per viaggi autostradali. Se quell’attacco di panico mi avesse sorpreso a centocinquanta chilometri orari, in autostrada, mi sarei trasformato in una gelatina di organi spappolato contro un guardrail . In parole povere, non avrei mai più viaggiato in macchina tranquillo.
Solamente tre anni dopo capii che le mie paure non erano fondate o infondate, ma semplicemente confuse.
Mi trovavo in un bar assieme ai miei amici e di birra in birra, ingannavamo il tempo, come al nostro solito. Si parlava di politica, calcio e motori. Il calcio e i motori non mi sono mai interessati e in via del tutto confidenziale, posso confessarvi che nemmeno la politica mi interessa per davvero; sostanzialmente mi piace fare incazzare le persone sui temi più scottanti dell’attualità.
Ad un certo punto, noto un paio di ragazze sedute in fondo alla sala. Erano sole, carine ed avevano appena terminato il secondo giro. Cosa fare?
Eravamo animali e in quanto tali desideravamo soddisfare i nostri impulsi sessuali, ma al contrario di tante altre specie, la nostra soffriva di una paura: la paura del rifiuto.
Di tutte le paure, quella del rifiuto è sicuramente la più stupida. La vita è un testa e croce col destino e per ogni faccia della moneta lanciata, esiste la recondita possibilità d’imbattersi nella possibilità contraria.
Ad esempio, vale la pena di rubare la pistola ad un poliziotto? No, perché se ci riesci sarai costretto a prendere una decisione ancora più rischiosa, ovvero: cosa farne della pistola? Ammazzare il poliziotto o scappare, rischiando di diventare un ricercato?
Nel caso in cui non riuscissi a rubare la suddetta pistola, finirei in carcere seduta stante. Quindi, il gioco non vale la candela.
Nel caso di un approccio le opzioni sono due: ricevere un sì e ricevere un no.
Il no non è nulla di grave, se rapportato alla possibilità di un sì. Un sì… che ve lo dico a fare, vale assolutamente la possibilità di ricevere un no.
Così, dopo due tequila decidemmo di fare la nostra mossa. Ordinammo due drink al cameriere, spiegandogli che avrebbe dovuto portarli alle ragazze in fondo alla sala per nostro conto.
Cosa c’è di strano in questa storia? Il coraggio. Per trovare in noi la forza di compiere quel gesto, avevamo ordinato due giri di tequila per eludere la paura.
Ah, quasi dimenticavo, il più grande talento dell’uomo è quello di eludere la paura, impegnando tutto sé stesso per conseguire l’obbiettivo finale di non doversi mai trovare faccia a faccia con questa.
Ma di cosa avevamo paura? Non eravamo degli sprovveduti? Non eravamo Casanova, ma non eravamo nemmeno degli imbarcati totali e la nostra capacità di intrattenere una conversazione non banale era del tutto adeguata al luogo in cui ci trovavamo. Perché allora avevamo una paura da eludere?
La nostra paura non era quella di un possibile ed eventuale rifiuto, era paura della semplice possibilità che la paura di avere paura potesse in qualche modo bloccare il nostro coraggio.
Quella era la soluzione al mio dramma. Con il passare degli anni avevo imparato a gestire gli attacchi di panico alla perfezione, utilizzando delle basilari tecniche di respirazione e la mia bravura nel gestire le suddette crisi è attualmente arrivata al picco più alto, in pratica sono diventato una cintura nera degli attacchi di panico; posso tranquillamente avere un attacco di panico durante una cena, senza che i miei commensali se ne accorgano. Quindi non era l’attacco di panico in sé a spaventarmi, ciò che mi terrorizzava era la tipologia di vita che stavo conducendo, ovvero, la vita di un paranoico perennemente sottomesso alla paura di avere paura degli attacchi di panico. Avevo paura del terrore, quello stesso terrore che accompagnava ogni mia azione e ogni mio sogno.
Non erano stati gli attacchi di panico a mettere sotto scacco la mia angoscia, in quanto quegli attacchi erano diventati gestibili, ma ciò che non riuscivo assolutamente a gestire era la mia continua ossessione per la possibilità di un eventuale attacco di panico e non, come sarebbe stato logico, la possibilità di avere uno dei suddetti attacchi.

 

Mr Gwyn | Alessandro Baricco

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Oggi voglio scrivere la recensione di un prodotto semplicemente eccezionale: Mr Gwyn di Alessandro Baricco.

La trama di questo lavoro è estremamente essenziale, delineata da un vago sentore di surrealismo mai banale o eccessivo.

Il libro affronta le vicende di Jasper Gwyn, uno scrittore di successo che ad un certo punto della sua carriera decide di abbandonare la scrittura. La decisione non è correlata, come potrebbe capitare all’interno di un cliché letterario, ad una crisi d’ispirazione, ma ad un qualcosa di estremamente più profondo e misterioso.

Mr Gwyn decide, un bel giorno, di diventare un ritrattista. Non avendo l’abilità pittorica, opterà per utilizzare il suo unico talento: la fluidità della parola.

Baricco traccia su carta un personaggio che si troverà catapultato davanti ad una difficoltà molto particolare; quella di dover inventare da zero una nuova tipologia di lavoro.

In questo surreale universo, si aggiunge una paffuta segretaria/musa ispiratrice che si troverà nella condizione di ordinare le carte sparse che finiscono per accumularsi nella vita di ogni scrittore.

Proprio il passaggio di staffetta dal punto di vista della prospettiva narrativa, rende quest’opera un libro meraviglioso, capace di conquistare il lettore a partire dall’incipit.

 

Ferdinando de Martino.