Aprile 2016

John Wicker | lo scrittore del mistero | un talento da brivido.

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A breve uscirà il nuovo racconto della serie “I racconti del terrore di John Wicker”, un autore sensazionale.

Ma chi è John Wicker?

È bastato mettere online il suo primo racconto per scatenare l’interesse dei lettori che hanno, giustamente, riconosciuto in lui un talento innato.

John Wicker (1967) è uno scrittore italo-americano, nato da padre italiano e madre americana. È cresciuto nel Jersey, per poi trasferirsi in Piemonte, alla ricerca delle sue origini italiane.

Sicuramente il suo background letterario è prettamente americano, anche se il suo libro preferito è il capolavoro del nostro compianto Italo Calvino “Le Cosmicomiche”.

Ma cosa mi ha spinto ad intraprendere un percorso editoriale con questo autore, iniziando a pubblicare i suoi racconti?

Wicker leggeva i racconti del mio blog e rispose ad un mio vecchio annuncio, inviandomi il manoscritto “L’urlo del bosco”, chiedendomi un semplice giudizio.

Dopo aver letto le prime pagine, mi sono trovato davanti ad una sensazione che non sentivo dai tempi dei racconti di Poe. Non per similitudini o cose del genere, ma semplicemente perchè la forma estremamente diretta di questo scrittore riesce a trasportare il lettore all’interno della storia.

Non sono mai stato un fan della letteratura di genere, ma al posto del giudizio che mi era stato richiesto, dissi a John che secondo me quella roba doveva essere pubblicata subito.

Per questioni ovvie, iniziammo a sentirci frequentemente, ma John non ha Facebook ed è una delle persone meno tecnologiche del pianeta. Ha un computer e una mail. Stop.

Leggendo i suoi nuovi racconti, per l’editing e la creazione delle copertine, ho iniziato a notare una vena nostalgica nelle sue parole e gli ho chiesto di parlarmi del suo passato e della sua vita, anche per la bio da inserire nel blog, ma lui, sfuggente come al solito, ha iniziato a divagare, virando la conversazione su dei nuovi soggetti a cui stava lavorando.

Solamente qualche giorno fa, John ha iniziato a raccontare qualcosa di più sulla sua vita, rispondendo alla domanda: perchè hai iniziato a scrivere?

John ha iniziato a scrivere dopo aver perso sua moglie in un incidente stradale. Un evento tragico che ha fortemente influenzato quello che un giorno sarebbe diventato il suo stile.

Jennifer, sua moglie, era un’appassionata della letteratura di genere, mentre lui amava generi completamente differenti tra loro. La notte, prima di addormentarsi, erano soliti inventare storie dell’orrore che finivano sempre con catastrofi e finali terribili. Era il loro modo di scherzare.

Proprio per esorcizzare il finale terribile della sua storia con Jennifer, ha iniziato a scrivere, rielaborando su carta le sue sensazioni.

Detto questo, John è una delle persone più simpatiche con cui abbia mai avuto a che fare. La battuta pronta e un’ironia affilata come la lama di una spada ne contraddistingue la struttura dei suoi dialoghi, non solo nei racconti, ma anche nelle mail.

Vi consiglio vivamente di leggere sul vostro kindle, iPad, iPhone, computer e quant’altro, “L’urlo del bosco” disponibile in versione e-Book, perchè sono sicuro che questo autore riuscirà ad imporsi nell’immaginario dell’orrore con uno stile moderno ed estremamente incisivo.

A breve uscirà il suo secondo racconto per “l’Infernale edizioni” (realtà editoriale del blog).

Spero che questo autore possa terrorizzare anche voi.

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Tutto sarà riferito a John in persona, quando si degnerà di connettersi alla sua casella mail… maledetto a-tecnologico bastardo.

 

Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore? | ANSIA | di Salvo Barbaro

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Eccoci arrivati al terzo appuntamento della rubrica curata da Salvo Barbaro. In molti la stanno leggendo e questo mi riempie di felicità. Spero che anche questo nuovo capitolo possa piacere ai lettori dell’Infernale.

F. de Martino.

1 Luglio 2012

Questo è un giorno speciale, particolare, ansioso ed indescrivibile. Ho deciso di partire per Firenze in cerca di lavoro, di un’occupazione che giù ad Avellino, il mio paese natio, sembra essere diventato una chimera. Ho le famose “farfalline” nello stomaco, un’agitazione unica ed incontrollabile.
Mentre preparo il valigione da solo nella mia stanza, alzo lo sguardo per un istante ed osservo attentamente le pareti, il pavimento, l’armadio, la finestra e mi vengono in mente fugaci ricordi di adolescente, bambino, giovane timido, pauroso e a volte imbranato. Sorrido per pochi secondi, quando vengo assalito da una malinconia tremenda -Basta, cazzo, non devo pensarci!-. E puntuale come una cambiale, irrompe mia madre che mi ricorda la partenza -Come ti senti Salvo? Emozionato?
La guardo attentamente, lei mi sorride, io non accenno neanche ad una smorfia, ma butto giù una frase, semplice, schietta, sincera -La camicia a quadri estiva celeste mamma? Scusa, è sporca e mi serve. Possiamo fare qualcosa?
Lei senza problemi, ribatte -Certo amore, la lavo e in mezz’ora è pronta. Con questo caldo asciuga subito!
La ringrazio e mi dirigo in bagno, sempre e solo con un unico e costante pensiero.
È domenica, fa un caldo inimmaginabile, afoso, si suda a star fermi è ora di pranzo ed è arrivato anche mio zio a prendermi per portarmi con sé a Firenze. Siamo tutti riuniti a tavola per mangiare stessa disposizione, stessa stanza, stesse persone. Capotavola mio padre, coadiuvato alla sua destra da mia madre, fastidiosamente sugli attenti, scattosa, sorridente. Alla sinistra mio zio Maurizio, ragazzo down, fratello di mio padre, nonché grandissimo personaggio dai mille aggettivi e sfaccettature. Poi accanto a lui, io, capo basso, giocherello con la forchetta ed il piatto; poi mia nonna Rosa, donna speciale ed unica, mio fratello Maurizio con la moglie Roberta ed infine mio zio Michele, fratello di mia madre, mio autista per il viaggio, nonché datore di lavoro nella città che mi attende.
Si mangia piatti leggeri per l’occasione e per mantenere fresco l’ambiente: lasagne al forno e carne di maiale col sugo.
-Non ce la posso fare- penso dentro di me, mentre non tocco cibo ed aspetto con ansia mio zio che mi dica qualcosa sul lavoro che mi aspetta.
Solito discorso a tavola, con esordio di mio padre -Stasera c’è la finale degli europei Italia-Spagna, sicuramente ci asfaltano!
Mio fratello controbatte -Hai ragione! La Spagna è superiore.
Mio zio non dice una parola, annuisce e mangia, mangia ed annuisce, mentre io assaggio un po’ di carne, la lascio nel piatto e bevo un sorso d’acqua ghiacciata. Guardo tutti, scruto la situazione, prendo aria e rompo l’incantesimo dicendo
-Zio, allora, che devo fare esattamente?
Silenzio. Nessuno parla, nessuno emette suoni. Il fratello di mia madre, tranquillo, alza la testa dal suo fiero pasto e mi dice -Il cameriere farai, Salvo. Lavorerai mattino e sera, senza distrazioni. Poi ti spiego meglio durante il viaggio.
Dopo il silenzio, di nuovo giù a parlare della partita, mentre io ribevo un altro sorso d’acqua; mia nonna mi mette una mano sulla spalla, mi guarda negli occhi e mi dice -Tranquillo Salvo, andrà tutto bene! Le sorrido e l’abbraccio.

Salvo Barbaro.

L’URLO DEL BOSCO | di John Wicker | un racconto da brivido.

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È  con immenso piacere che vi presento un racconto che mi ha tenuto incollato alla poltrona dall’inizio alla fine.

John Wicker, scrittore italoamericano (classe  1976), firma un lavoro denso di quel caro e nostalgico romanticismo gotico che la letteratura di genere sembra aver dimenticato da tempo.

 

Leggi il racconto, cliccando il link: L’urlo del bosco

 

I racconti di John Wicker sono disponibili anche su  Amazon.

Come nasce uno scrittore? | La spesa | di Salvo Barbaro

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È con estremo piacere che vi presento il secondo episodio della rubrica a cura di Salvo Barbaro. 

Buona lettura. 

 

3 Novembre 2015
Cammino su e giù per la casa in cerca di qualcosa da fare. Oggi è il mio primo giorno da disoccupato-nevrotico-triste; mille idee mi passano per la testa, innumerevoli, confuse.
Vado in cucina e mi preparo un caffè, poi mi siedo sul divano in salotto: dopo cinque minuti mi rialzo, sbuffo, vado da Giulia che in quel momento, stanca e nervosa, allatta la piccola Elena. –
Amore come va?-, le faccio, mentre lei mi sorride appena, nella stanza illuminata dalla luce fioca di una piccola lampada.
-Ho pensato di andare a fare una corsetta, giusto per dimagrire un pochino- le faccio, cercando qualche sua parola di sprono e uno sguardo di approvazione o aiuto. Si gira di scatto con la “navigata” sincerità che la contraddistingue e mi fa a brucia pelo -Amore ma con questo tempo freddo ti viene una sincope, dove vai? Andrai quando sarà primavera, dai retta a me!-
Annuisco, la bacio sui morbidi capelli, accarezzo la dormiente Elena e ritorno in cucina, bevo il caffè e mi siedo.
Penso al da farsi, penso a qualcosa che voglio fare, rendermi utile, -Ok, vado a fare la spesa dal fruttivendolo, manca tutto qui!
Mi infilo il cappotto, saluto Giulia ed esco. Sono le nove del mattino ed è davvero una strana sensazione essere vestito con panni “normali” a quest’ora, indossare una camicia e non la tuta da lavoro, le scarpe comode e non quelle antiinfortunistiche. Essere solo e non seguito da qualcuno che ti dice cosa fare, come mettere un bullone o cose del genere. Respiro l’aria fredda del mattino e con passo svelto mi dirigo dal fruttivendolo: compro di tutto, frutta, verdura, fagioli, ceci, verdura fuori stagione, senza un senso, uno scopo, un obiettivo. Rientro in casa dopo nemmeno mezz’ora, poso tutto accuratamente nel frigo, mi tolgo il cappotto e di nuovo la stessa sensazione e la stessa domanda: ora che si fa?
Lavatrice, si ci sono da mettere i panni sporchi in lavatrice e un dubbio atroce mi assale: come si manda una lavatrice? I calzini bianchi a righe blu rientrano nei panni colorati o banchi? Le mutande celesti? Le camicie celesti? La biancheria rosa? Gli asciugamani? I gradi? Il sapone? Basta, la manderà Giulia dopo!
Ideona, cucinerò qualcosa di buono. Vado in cucina, apro il frigo pieno, ma trovo solo verdure.
-Piccola vado al supermercato a fare la spesa- grido nel corridoio e Giulia, annuendo, mi redarguisce con lo sguardo, perché Elena dorme.
Supermercato enorme, affollato di anziani che camminano lenti col carrello, che ci mettono mezz’ora a parcheggiare in un posto dove “cazzo, entrano facilmente!”. Come mio solito mi innervosisco, non respiro, mando a quel paese una decina di persone e mi ritrovo, come d’incanto nel reparto frutta e verdura.
Già comprata tutta, cazzo però, costa la metà! Pazienza, vado avanti, pane, patate, latte, uova, biscotti, pasta, pollo, pannolini, salviettine, cibo per il gatto, carta igienica e poi alcol, birra, vino. Preso tutto, ok, pago, rientro in auto e vado a casa. È quasi mezzogiorno, cucino un petto di pollo impanato al curry, insalata per contorno, poi caffè, bacio Elena, chiacchiero con Giulia e poi… poi niente, guardo la casa, mi sento perso, in bambola, non so che fare, dove andare. Mi accascio sul divano, nervoso, dando delle occhiatacce a Giulia che in quel momento cerca di interloquire con me.
-Vai a riposare che sei stanca- le faccio.
Mi alzo, prendo le chiavi di casa, m’infilo il cappotto ed esco per una passeggiata di scarico, cercando idee, “consigli” da questa città, Firenze, che oramai mi ha adottato, coccolato, sculacciato, redarguito.

 

 

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ZEN e scrittura | la meditazione

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È estremamente difficile per me parlare di argomenti riguardanti la sfera della meditazione e del mio personalissimo concetto di zen.
La difficoltà in questione è radicata in due differenti concetti: l’ateismo e il morboso.
In primo luogo, credo di essere la perfetta incarnazione dell’ateo. Posso asserire in totale tranquillità che l’unica cosa che mi sia sempre riuscita bene è l’essere ateo.
Non ho nemmeno un granello di quella che viene chiamata fede e, pur rispettando ogni singola religione, non riesco in estrema sincerità a non vederle tutte come una grossa presa in giro globale.
Il termine ateo è quello che mi rappresenta di più anche da un punto di vista filosofico, in quanto non mi sono mai ritenuto agnostico, ma ATEO. Io non credo in nessuna entità spirituale e attribuisco a Dio, Buddha e Allah, le stesse caratteristiche che attribuisco anche al topino dei denti e Babbo Natale.
Chiarito questo concetto, possiamo passare al secondo.
Parlare di zen e meditazione, per me è una sorta di stupro interiore. Ho sempre trovato l’interrogarsi sulla fede delle altre persone, l’atto più morboso dell’intero universo.
Domandarsi quanta fede abbia una persona o in cosa creda davvero, nella mia personale scala dei valori, è dieci volte peggio di hackerare il computer di una donna, rubarle le sue foto intime e metterle su internet.
Credo che la curiosità di entrare nei meandri della coscienza spirituale di un altro individuo sia terribilmente morboso, perché, essendo la natura dell’uomo prevalentemente distruttiva, spesso l’unica motivazione è legata al trovare delle falle ai suoi concetti esistenziali.
Quindi, sono ateo e trovo irrimediabilmente privato il parlare dell’interiorità non tangibile dell’uomo.
Perchè mi sono messo a scrivere queste pagine, allora? Perchè bene o male, quello che ho deciso di fare nella vita è scrivere e l’unico modo per farlo bene è quello d’instaurare con il lettore un rapporto di estrema sincerità.
La sincerità è la base dello scrivere, per quanto mi riguarda. Per questo mi annoio moltissimo a leggere storie di draghi alati e folletti imbecilli.
Il motivo per cui mi sono messo a scrivere, oggi, è il seguente: la sincerità. Mi sono svegliato è mi sono detto -Cazzo, oggi voglio scrivere qualcosa di estremamente sincero.
Quindi ho bevuto il caffè, mi sono messo davanti alla tastiera e, con il mio cane accovacciato sotto la scrivania, ho iniziato a battere sui tasti, sperando di non scrivere troppe stronzate e che i refusi siano pochi.
Mi scuso preventivamente con tutti i buddisti per le stronzate e le inesattezze che dirò sullo zen e sui concetti legati alla meditazione, ma se sono buddisti… non s’incazzeranno più di tanto.
Partiamo.
Io sono una persona iperattiva. L’iperattività spesso è interpretata male dalla massa, in quanto si è portati a credere che una persona iperattiva sia perennemente impegnata in decine di attività e in perpetuo movimento. Non è così.
L’iperattività, almeno nel mio caso, è legata a quello che ho sempre ritenuto uno dei miei più grandi problemi: la noia.
La noia è una cosa terribile per un iperattivo, perchè l’iperattività è radicata per un buon ottanta per cento nel cervello e solamente per il restante venti per cento, nelle azioni legate alle conseguenze dell’iperattività stessa.
Un cervello iperattivo è alla perenne ricerca di stimoli atti a mantenere la soglia della noia al di sotto di un certo livello.
La noia non è solamente l’assenza d’azione legata all’ozio, ma anche quel sentimento che diventa tedio, quando le azioni diventano ripetitive.
Le azioni di un cervello iperattivo spesso non riescono nemmeno ad uscire dalla sua testa, perchè nascono durante un attacco di noia, legato alla ripetitività di un’azione che sta compiendo; questa nuova azione, diventa ripetitiva già nella sua testa, allora il cervello iperattivo inizia a pensare ad un’altra azione che diventerà a breve anch’essa ripetitiva e così via.
Tutto questo meccanismo provoca un down in cui l’iperattivo necessita di riposo e il riposo è noia.
Ma cosa c’entra lo zen con tutte queste cose?
Per quanto mi riguarda, vivere con un cervello iperattivo equivale a guidare da ubriachi. È probabile che non si arrivi da nessuna parte.
Esiste un solo modo per eludere la noia: confondere l’iperattività, mettendo le briglie al proprio cervello.
Per compiere questa operazione, per quanto mi riguarda, esistono solamente due tecniche: o ci si stordisce di alcolici e narcotici, oppure si medita.
La meditazione mi ha letteralmente salvato il cervello, perchè, senza moralismi di alcun genere, sono convinto che entrambi i modi siano efficaci in egual misura.
L’unico problema legato al primo modo è che alla lunga il cervello viene danneggiato dal prolungato neuronicidio di massa, mentre il secondo metodo non ha nessuna controindicazione.
Il primo modo è estremamente più semplice, perché per distruggersi il cervello non bisogna impegnarsi, mentre il secondo modo necessita di un’educazione pseudo-militare.
Personalmente sono arrivato alla meditazione per vie traverse e se parlate con un qualsiasi esperto di meditazione trascendentale e non, vi dirà (probabilmente con tutte le ragioni del mondo) che la mia ideologia legata a questo universo è totalmente errata, quindi vi invito a partecipare a qualche gruppo di meditazione per farvi una vostra idea sull’argomento.
Come in tutte le cose della mia vita, anche il mio percorso meditativo è del tutto privo di un reale e concreto riconoscimento istituzionale, perché sono stato e sempre sarò un pessimo studente.
Quindi, il mio primo approccio alla meditazione risale ad un corso in cui mi insegnarono delle tecniche di rilassamento che non mi rilassarono per niente, ma che da un certo puto di vista, riuscirono ad ammanettare il mio cervello per qualche minuto.
Ero riuscito a concentrarmi solamente su di una visualizzazione, aiutata da alcuni esercizi respiratori. Per voi questo potrebbe risultare stupido, ma per il sottoscritto fu un vero e proprio miracolo; ero sobrio è il cervello non mi andava a fuoco.
Accantonai questa cosa nelle esperienze che probabilmente un giorno mi sarebbero tornate utili e andai avanti.
Anni dopo, studiando Cicerone, venni a conoscenza della tecnica dei loci ciceroniani. Tale tecnica consente di ricordare svariati punti di un discorso, senza prendere alcun tipo di appunto, utilizzando delle visualizzazioni legate al pensiero. Il tutto consisteva nel situare delle visualizzazioni legate ai punti salienti di un discorso, all’interno di un percorso fisico, riprodotto nel pensiero nei minimi dettagli. Una volta focalizzata ogni singola visualizzazione, i concetti sarebbero diventati chiari per l’esposizione pre-powerpoint dell’antica Roma.
Una tecnica similare a quella dei loci ciceroniani è la tecnica del palazzo mentale, che consiste nella riproduzione mnemonica di un insieme di stanze di uno o più appartamenti che trasmettono qualche sensazione positiva all’individuo che ha intenzione di utilizzare tale tecnica.
Una volta riprodotta tale struttura, si può utilizzare per ricordare complesse serie numeriche o, magari, delle annotazioni da utilizzare in futuro, mediante delle visualizzazioni (ovvero, archetipi creati apposta per rappresentare qualcos’altro).
Breve esempio. Immaginate di entrare mentalmente in una stanza che conoscete molto bene ed escludete l’arredamento da questa equazione.
Immaginate di sentire distintamente Vivaldi nella suddetta stanza, mentre davanti a voi trovate il truculento spettacolo di un Cristo crocifisso. Sempre nella stessa stanza, la musica si confonde con il lamento di un gatto intrappolato in un cerchio di fuoco.
Immagini potenti che rappresentano le 4 stagioni di Vivaldi, i 33 anni di Cristo e un cerchio 0, che intrappola un gatto dalle 7 vite.
43307, potrebbe essere una password o un pin da ricordare.
Questa tecnica va allenata molto e ognuno riuscirà a darle una differente accezione. La mia è arrivata dopo un po’ di tempo.
Nel passare degli anni, tra le letture interessanti che mi sono capitate sotto gli occhi, ho trovato estremamente istruttivo il libro di David Lynch sulla meditazione trascendentale, sebbene io non abbia mai praticato questa tipologia di meditazione.
Quello che ho imparato da questo libro è che la mediazione può condurre anche alla creazione di concetti artistici, un po’ come se il nostro mondo interiore, collegato al tutto, fosse un distributore gratuito d’ispirazione.
Questo è il motivo centrale del mio rifiuto verso il credo, assai diffuso, del blocco dello scrittore.
Aggiungete un breve periodo in cui ho frequentato un centro di yoga e meditazione, in cui ero perennemente distratto dalla presenza di donne in posizioni astruse.
Adesso, inizieremo a collegare i tasselli con lo zen.
Tramite un’applicazione del mio primo iPad, mi sono completamente innamorato del concetto di giardino zen. L’arare un campo che non avrebbe mai fatto spuntare nessun genere di ortaggio dalla terra è un concetto bellissimo, secondo il mio modesto parere.
La cura del giardino zen, sebbene virtuale, ha lanciato il mio cervello in una dimensione completamente nuova.
Ogni mia azione era mirata a qualcosa. Ho sempre arato per raccogliere i frutti, vivendo l’arare come un semplice mezzo per raggiungere le carote; quindi per capire il concetto di arare fine a se stesso, ho dovuto spremere il più possibile le mie meningi.
Il tempo che avevo dedicato a quel giardino era tempo dedicato a ma. Il giardino, il respiro e la mente erano diventati un tutt’uno e la noia era sparita.
Il respiro mi permetteva di vivere, la mente muoveva il dito che arava il campo e il giardino zen faceva il giardino zen.
Stavo coltivando me stesso.
Avevo tolto un elemento dall’equazione e tutto aveva preso un senso. L’importanza del coltivare era diventata molto più chiara dopo aver tolto di mezzo la carota.
Il minimalismo zen è stata una grandissima rivoluzione per il mio modo di pensare, perchè mi ha proiettato in una dimensione in cui l’essenziale è diventato “essenzializzare” ogni cosa, riducendola all’osso.
Liberarsi del superfluo, per quanto ci è possibile, arricchisce quel lato del nostro cervello che è in grado di sprigionare la creatività.
È un po’ il concetto espresso da Sherlock Holmes in “Uno studio in rosso”: lo spazio del cervello è limitato, quindi, elimina tutto quello che non credi ti possa tornare utile.
Ho iniziato a meditare molto, con differenti scopi: eludere gli attacchi di panico, liberarmi di alcune dipendenze, allontanare la negatività, cercare di capire i concetti più segreti dell’universo e alla fine ho capito che meditare era importante per il semplice fatto di meditare.
Poche cose mi rasserenavano come lo sgomberare il mio palazzo mentale, quando le informazioni da ricordare non mi sarebbero più servite. Anche quella era una questione di minimalismo.
Così ho iniziato ad utilizzare il mio palazzo mentale per gestire il mio lavoro da scrittore, addentrandomi nei concetti in un mondo inattaccabile da ogni fronte esterno.
Scrivere è di per sé meditazione. Passeggiare con il cane o fare il caffè può essere meditazione se si elimina tutto il superfluo, facendo sì che il nostro pensiero sia connesso al cento per cento con il qui ed ora.
L’ossessione per il materialismo del mondo occidentale in cui sono cresciuto, mi rende praticamente impossibile abbracciare la filosofia del minimalismo in toto, ma senza ombra di dubbio mi ha dato la possibilità di gestire in maniera differente molte problematiche che ero abituato ad eludere in maniera differente.
Ad oggi pratico la meditazione almeno due volta al giorno, in maniera del tutto atipica. Una meditazione è legata al gesto dello scrivere fine a sé stesso, mentre la seconda è legata al concetto di palazzo mentale, ed è sicuramente quella più interessante anche per chi non è ossessionato dalla scrittura, come il sottoscritto.
Per il momento direi che può bastare, ma voglio chiudere questo capitolo con una frase che mi ha sempre affascinato.
Durante una seduta di meditazione, una volta arrivati all’Om collettivo (il momento in cui tutti iniziano a dire ooooooom, come dei cretini), lo Yogi disse -Ci sono molte persone che credono che alla base del Big Bang ci sia stato un Om cosmico.

Ecco, personalmente la reputo una stronzata, ma sono contento di vivere in un mondo in cui qualcuno può partorire un concetto del genere, perché lo trovo estremamente minimalista e zen.

 

Ferdinando de Martino.

Cos’è la libertà? |Fai quello che dico io, altrimenti non hai diritti.

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Visto quanto successo nella giornata di ieri, mi sento bello carico per parlare del concetto di libertà.

Ultimamente la libertà ha preso una connotazione lontana anni luce dalla sua reale accezione, in quanto mi pare di aver capito che il concetto italiano di libertà sia: vai votare, altrimenti non ti puoi lamentare.

La libertà è una condizione in cui l’uomo può permettersi di pensare e agire senza alcuna costrizione.

Molta gente sembra convinta che tutte le persone che in passato hanno donato la loro vita per difendere la libertà, abbiano combattuto per difendere l’obbligo degli altri a fare quello che loro pensano che sia giusto, ma non è così.

Le persone che hanno donato la loro vita per difendere la libertà, come diceva Hicks, hanno combattuto anche per difendere la mia libertà di non votare.

Quando impedite ad una fazione politica di aprire una sede, non state esercitando la libertà, ma state imponendo l’ignoranza, perchè la libertà implica che ognuno possa esercitare il proprio libero arbitrio senza nuocere a nessuno.

Quindi, quando si sostiene che chi si astiene da una votazione non possa poi lamentarsi, si cade due volte in fallo. Una perchè lamentarsi non è un privilegio, bensì una conseguenza e… due, perchè fare parte dell’ingranaggio o di un meccanismo elettorale, rende partecipi della grande macchina politica, quindi al limite è chi non vota ad avere l’unica possibilità di lamentarsi, proprio perchè rifiuta a priori quell’ingranaggio.

Siamo tutti molto bravi a ruggire davanti ad una tastiera, esattamente come siamo bravi a mettere una croce in un referendum … ma ricordiamoci che già in passato abbiamo messo croci in referendum, crocifiggendo un ribelle che  (per citare Faber) si faceva chiamare Gesù.

Si possono avere opinioni politiche delle più disparate, ma sul concetto di libertà, nessuno ha il diritto concedersi libertà.

Ferdinando de Martino.

L’Enrico | un racconto di Ferdinando de Martino

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Quando era solamente un bambino, Enrico venne portato dai suoi genitori ad uno spettacolo di magia.
Ogni suo discorso, all’interno di una qualsiasi conversazione, andava inevitabilmente a parare sulla magia. Fu per quello che sua madre e suo padre decisero di regalargli una serata all’insegna del magico, portandolo in un teatro di serie B del centro della sua città.
Da quel giorno Enrico smise di parlare di maghi e illusioni a tavola. Quello che aveva sempre vissuto come un sincero e appagante senso di stupore, si era rivelato un insieme di trucchi dozzinali da vendere ad un pubblico distratto.
La base della magia era sempre la stessa: distrarre il pubblico, facendo focalizzare l’attenzione generale su di un particolare prestabilito, per inscenare la magia fuori dal campo visivo dei gonzi.
Erano passati molti anni da quello spettacolo d’illusionismo e la vita aveva concesso ad Enrico una nuova possibilità d’innamorarsi della magia che, quella volta, era esplosa nello sguardo di Maria.
Era una donna attraente. Sapeva indossare un certo fascino, pur non essendo una bellezza da rotocalco.
Alfred, maitre del ristorante, continuava a chiedersi quale fosse il segreto di quel fascino, perché era abbastanza avanti con gli anni per sapere che ogni cosa nascondeva un segreto.
La stava fissando da svariati minuti, in maniera discreta, mentre lei era intenta a sorseggiare un bicchiere di Martini al tavolo numero quattordici.
Il suo ruolo, avvolto nell’eleganza che doveva contraddistinguere la sua figura, non era mai riuscito ad eludere il carattere caloroso ed umano che si portava appresso sin da ragazzino e per la prima volta in vita sua era curioso di conoscere uno dei loro clienti.
Enrico si era messo in contatto con lui una settimana prima, prenotando il tavolo quattordici e discutendo assieme del menù. Spiegò che quella sera avrebbe fatto la proposta alla sua fidanzata ed essendo un maniaco dei dettagli, voleva assicurarsi che tutto sarebbe andato secondo i suoi piani.
Fece anche una battuta su questa sua maniacale attenzione -Pensi un po’… io e lei stiamo progettando ogni cosa al dettaglio e la mia fidanzata potrebbe rovinare tutto il nostro lavoro con un semplice: no.
Fu simpatico. Solitamente le persone lo trattavano come un semplice tramite, ma tra lui ed Enrico si era instaurato una sorta di contatto; poteva sentirlo dalla sua voce.
C’erano due uomini ai rispettivi capi di quei telefoni. Uomini con un loro passato, delle storie e dei traumi.
-Mi dica… c’è anche un anello?- chiese Alfred.
-Certamente… e vorrei che lei lo mettesse all’interno di qualcosa… qualcosa…
-Che ne dice di un Crystal?
-Lei mi capisce.
-Viaggiamo sulla stessa frequenza.
Sapeva, inoltre, che il loro cliente era un chirurgo e proprio per quello non poteva esimersi dall’ossessione per i dettagli. Era una deformazione professionale.
Inoltre aveva ordinato solamente delle ottime bottiglie di vino e differenti portate, in quantità ridotta per permettere a lui e sua moglie di mangiare il più possibile, vista la presenza di uno chef stellato.
PERFEZIONE doveva essere la parola d’ordine della serata.
Che aspetto poteva avere Enrico? Continuava a chiederselo, giocherellando con la penna stilografica che utilizzava per appuntare i nomi dei clienti sul libro in finta pelle che gestiva come se fosse il Necronomicon del ristorante.
-Salve. Lei è Alfred?
Alzò lo sguardo e finalmente lo vide.
-Sì. Lei dev’essere Enrico. L’ho riconosciuta dalla voce.
-Mi fa piacere. Vedo che avete servito e riverito la mia compagna. Grazie mille.
-Dovere… qui è tutto pronto, abbiamo discusso del menù, preparato le bottiglie di vino e champagne.
-Le confesso una cosa. Quando ogni cosa è al suo posto, come in questo momento, mi sento come un generale dell’antica Roma davanti ad un esercito avversario. Il pericolo è davanti a me e posso vederlo distintamente, ma sono preparato e sicuro del mio esercito; proprio in quel frangente che antecede la guerra, io mi sento sereno.
Era molto carismatico. C’era nella sua voce un qualcosa che ricordava gli audiolibri dei vecchissimi cronisti radiofonici, abituati ad interpretare le notizie di cronaca con un timido calore emozionale.
-Mi lasci dire che quella che vedo seduta al nostro miglior tavolo è la donna più fortunata dell’intera città. Lei sembra proprio essere una brava persona.- sorrise Alfred.
-Siamo rimasti in pochi, vero? Io e lei siamo di una pasta particolare.
-Può dirlo forte.
-È che, nonostante mi abbiano sempre dato del fesso o dello sprovveduto, io non sono mai riuscito a smettere di fidarmi della gente. Mi creda, il mondo mi ha servito più e più volte delle fregature che avrebbero potuto trasformarmi in un furbo o in una persona chiusa… ma io credo ciecamente che ci sia ancora una via di scampo e quella via è profondamente radicata nella bontà.
-Lei è un sognatore.
-Anche lei… ho riconosciuto la luce nei suoi occhi. Adesso spero che mi perdoni, ma dovrei andare dalla mia signora.
-Buona fortuna.
-Ne avrò bisogno.- sorrise Enrico, avviandosi verso il tavolo per poi fermarsi e ritornare verso la postazione del maitre, dicendo -Tutti questi preparativi e ci stavamo dimenticando della parte più importante.
-L’anello… come abbiamo fatto a dimenticarci proprio dell’anello?
-A lei.- sorrise Enrico, consegnando la scatoletta rossa nella mani di quello che poteva quasi definire un suo nuovo amico.
-Lo custodirò come se fosse mio.
Non c’erano persone dietro i volti dei clienti di quel ristorante, la maggior parte delle volte, ma in quel caso la persona era perfettamente definita dietro quello sguardo color ghiaccio elettrico.
Che bella vita doveva avere quel misterioso chirurgo dai modi raffinati e gentili, pensò Alfred, accarezzando la custodia dell’anello che a fine serata avrebbe fatto un bel bagnetto in un coppa di champagne, per finire poi al dito di una fortunata signora Bren.
-Non dirmi che quello è l’anello?- disse Caroline, la più giovane e curiosa delle cameriere.
-Sì.
-Devo assolutamente vederlo.
-Non se ne parla proprio.
-Quel coso finirà dentro un bicchiere di champagne… non credo che una mia occhiata possa rovinarlo più di tanto.
Era carina e molto spesso gli uomini concedono alle donne carine quello che non concederebbero alle donne brutte. Un triste dato di fatto che anche in quell’occasione finì per seguire la regola della bellezza-crazia.
-Oh… ma questo è un mattone.
-Accidenti, è proprio grosso.- esclamò, tenendolo stretto tra le mani.
-Quella è senza dubbio una donna bella fortunata.
-Non essere venale.
-Venale? Se quella gli dice di no, subentro io.
-Ma non l’hai nemmeno visto in faccia.- insisté Alfred.
-Beh, una faccia che può permettersi quell’anello… può permettersi anche la sottoscritta.
Certe volte le donne belle erano volgarmente brutte dentro, ma gli uomini interessati alle interiora di una donna si contavano sulle dita di una mano e, probabilmente, se ne stavano rinchiusi dietro le sbarre di un carcere per psicopatici.
Poco distanti da quella scenetta, Enrico e Francesca estraevano le lumache dai loro gusci per poi avvicinarle alle loro bocche. Erano palati raffinati.
La buona cucina era solamente una delle tante cose che adoravano. Sembrava quasi che amassero tutto ciò che agli occhi d’uno sconosciuto avrebbe potuto risultare superficiale, ma quella sarebbe stata un’errata lettura del loro gusto.
La cura che stava alla base della loro ricerca del bello non aveva niente a che fare con un nichilismo all’acqua di rose in stile nobiltà annoiata d’un vecchio romanzo. Qualcosa c’era, dietro il loro gusto estremo, e quel qualcosa era avvolto da una nebbia fumosa che rendeva indecifrabili le loro intenzioni.
-Queste lumache sono divine.- disse lei, scontrandosi nello sguardo dell’uomo.
-Sì, ma io avrei azzardato un po’ di più con la paprika.
-È un gusto audace.
-Sono d’accordo, ma l’audacia non è mai abbastanza, no? Cosa ne pensi del vino?
-La temperatura è perfetta.
-È tutto perfetto… per il momento.
Enrico aveva specificato ad Alfred che quella sera avrebbero provato svariate bottiglie di vino differenti perché quello che ricercavano, oltre al mero e ovvio stordimento momentaneo, era una vera e propria esperienza sensoriale.
Una cucina aggressiva non doveva mai essere violenta, ma semplicemente coraggiosa; per quello era solito scegliere i ristoranti basandosi su articoli reperibili on line sugli chef d’ogni singolo locale.
Era la metodicità a decidere il novanta per cento della possibile buona riuscita di una qualsiasi attività.
-Cos’hai ordinato dopo le lumache?- chiese Francesca.
-Manzo in agrodolce e… il tuo piatto preferito.
-Omelette Sacromonte?
-Esatto.
-Non è da tutti cucinarle…
-Per soddisfare il tuo palato farei questo ed altro, cara. Ti ho mai detto che sei semplicemente stupenda?
-Più o meno ogni mattina, al tuo risveglio. Solitamente dopo esserti lavato i denti.
-E continuerò a farlo per il resto dei nostri giorni.
-Ti adoro.
Per lo chef era stato semplice reperire gli ingredienti per una perfetta preparazione dell’Omelette Sacromonte, anche se quella roba non era per tutti i palati.
Tra i testicoli di toro e frattaglie varie, quel piatto non si candidava proprio nella top ten delle ordinazioni annuali.
Alfred sentiva la confezione dell’anello premere sulla sua coscia dalla tasca del pantalone del suo completo da lavoro. Era il custode di un oggetto prezioso e questo lo faceva sentire importante.
Stava cancellando una prenotazione per il mese successivo, quando la voce di Enrico arrivò al suo orecchio.
Stava parlando al telefono con qualcuno e premeva con la mano destra sulla parte inferiore del telefono, come quando si vuole interloquire con qualcuno senza che la persona dall’altra perte del telefono senta.
-Ho un problema e spero che lei mi possa aiutare.
-Farò il possibile. Mi dica.
-Vede, sono in linea con un mio collega. Martedì prossimo avremmo dovuto incontrarci per una cena aziendale, la nostra è una clinica privata… sa come funzionano queste cose… raccolte fondi e quisquilie varie. Purtroppo il ristorante ha subito un danno alle tubature e la nostra prenotazione è andata in fumo, ma avendo provato il menù del vostro chef, mi sono sono detto: perché non organizzare qui la cena? Lei crede che sarebbe possibile? Mi tirerebbe fuori da un impiccio, mi creda.
-Martedì… quanti sareste?
-Glielo faccio sapere subito.- disse Enrico, tornando al telefono -Siamo sempre in diciotto? Ah, venti. Bene…- continuò, osservando il pollice in su di Alfred -Perfetto. Problema risolto. Sappi che è tutto merito del maitre più in gamba che abbia mai incontrato.
Finalmente qualcuno gli riconosceva qualcosa. Aveva un posto di lavoro di tutto rispetto, ma i riconoscimenti mancavano sempre. Spesso, quando si trovava a cena con persone che non conosceva, spiegava il suo lavoro e tutti finivano per riassumere le sue mansioni con il termine: cameriere. Nulla contro i camerieri, ma il suo ruolo era più simile a quello di un generale. Il maitre di un ristorante è il capitano del vascello… mentre la cucina è la coperta.
Enrico aveva capito perfettamente la situazione, perché era un uomo colto e raffinato. Per un attimo si sentì veramente affine a quell’uomo che aveva appena conosciuto.
Terminata la telefonata, lo guardò negli occhi e disse – Senta, Enrico… posso offrirle un bicchierino di vodka? Mi farebbe piacere bere un rinforzino con lei.
-Guardi, se mi fa l’onore di sciogliere il patto di questo macchinoso lei… accetterò volentieri.
-Perfetto. Allora tu, Enrico, berrai con me.
Tirarono giù la vodka come dei veri e propri russi all’opera, dopodiché Enrico tornò al tavolo che aveva prenotato, mentre lo sguardo di Alfred si perse per qualche istante in una vita che stava invidiando in maniera dolce.
Se avesse studiato medicina avrebbe potuto essere lui Enrico.
Quello strano cliente non aveva badato a spese nella scelta del menù e, oltre all’incasso di quella sera, avrebbe fatto guadagnare al ristoranti altri venti coperti; al mondo esistevano ancora persone in grado di godersi la vita.
Andare a mangiare fuori non doveva essere un peso o una cosa da fare per accontentare un fidanzato o una fidanzata, ma un semplice e puro piacere legato alla base della vita: il nutrimento.
Le portate andarono avanti fino al dolce. Il pasticcere da cui si serviva lo chef del ristorante era uno dei migliori della nazione.
Marconi, diplomato da Gualtiero Marchesi nel novantuno, credeva che l’unione tra le portate fosse il vero segreto del successo di una buona cena; proprio per quello era solito servirsi da quello specifico pasticciere. Quando si trovava un buon collaboratore non bisognava mai lasciarselo scappare.
Alfred notò la compagna di Enrico avvicinarsi a lui. Era diventata molto più bella da quando l’aveva vista all’entrata, probabilmente perché adesso aveva iniziato a guardarla con gli occhi del suo nuovo amico.
-Posso chiederle un accendino in prestito? Prima del caffè vorrei fumare una sigaretta.- disse.
Che donna particolare, pensò. Alfred; Solitamente la sigaretta era una conseguenza di un buon caffè e non il contrario. Probabilmente solo una donna particolare avrebbe potuto attirare a tal punto un uomo eccezionale come Enrico.
-Tenga pure il mio accendino.- disse, porgendole un accendino con l’incisione dello stemma del ristorante. Quello era solamente uno dei tanti dettagli a cui il manager del locale aveva pensato per ingraziarsi i clienti.
Francesca sparì, avvolta da un profumo che Alfred non avrebbe mai più dimenticato. Vaniglia con un vaghissimo sentore di lavanda. Roba da intenditori.
La voce di Enrico interruppe le divagazioni mentali sui profumi delle donne, all’interno della mente di Alfred.
Era nuovamente al telefono -Alfred… c’è la possibilità di avere un menù per celiaci, per mercoledì? Uno di noi è celiaco.- chiese, coprendo il telefono.
-Certamente. Lo chef vi stupirà.
-Grazie. Esco un attimo che qui dentro c’è poco campo.
Enrico uscì, continuando a borbottare al telefono.
Al loro ritorno sarebbe andata in scena l’ultima portata, quella con una bottiglia di costoso champagne che avrebbe annegato un brillante da capogiro.
Quattordici minuti dopo, la giacca di Enrico era ancora sullo schienale della sedia del miglior tavolo del ristorante, l’anello si trovava sempre nella tasca di Alfred e lo champagne in fresco aveva raggiunto una temperatura che avrebbe mortificato il suo gustoso perlage.
-Secondo te torneranno?- chiese Caroline.
-Credo di no.- sospirò Alfred, estraendo il cofanetto dalla tasca.
Focalizzare l’attenzione del pubblico su di un piccolo dettaglio era l’unico modo per realizzare un gioco di prestigio ed Enrico aveva capito molto presto che la magia era una semplice truffa. La suddetta lezione divenne estremamente chiara anche ad Alfred dopo quell’interludio, ma contrariamente a tutte le altre lezioni che aveva imparato durante la sua esistenza, quella lo fece sentire più stupido di quando ne ignorava i dettagli.

Internet o giornali ? | la differenza la fai tu

La diatriba su quale sia migliore come metodologia d’informazione tra stampa tradizionale e siti internet è vecchia come il web e, sebbene potrebbe sembrare semplice da giudicare, non bisogna lasciarsi trasportare da ideologie imprecise.

Partiamo dagli aspetti negativi della stampa tradizionale.

Ogni testata giornalistica è soggetta ad una precisa linea editoriale e per ogni notizia pubblicata dovranno essere sempre reperibili le fonti, controllate precedentemente da ogni editore. Questo non vuol dire che le notizie dei giornali siano quelle più attendibili, perché il lavoro di un editore è da una parte controllare le fonti di una notizia, mentre dall’altra dovrà occuparsi di quella che sebbene spesso nascosta sotto altri nomi, si può tranquillamente chiamare censura.

I giornali devono sempre e comunque fare riferimento ad un partito politico o ad un agglomerato editoriale, atto a fare una cernita ben precisa delle notizie da pubblicare e di quella da nascondere.

Passiamo adesso ai pregi dell’editoria tradizionale. Raramente le notizie riportate dai giornali saranno completamente sbagliate, perchè un fondo di verità ci sarà sempre alla base. Questo non vuol dire che sia giusto segare a metà la realtà dei fatti, rimanendo comunque appoggiati su basi reali, ma bisogna indiscutibilmente riconoscere questo merito alle testate tradizionali.

Adesso buttiamoci sul web, iniziando dalle parti negative.

Il web è un casino ed è un casino perchè dall’altra parte del monitor ci sei tu, ci sono io e ci siamo noi.

Dovete sapere che in Italia abbiamo un altissimo tasso di analfabetismo funzionale. Questa tipologia di analfabetismo è talmente diffusa da metterci in cima alle classifiche dei paesi occidentali. Gli Stati Uniti d’America contano un 22% di analfabetismo funzionale, mentre l’Italia (incredibilmente più piccola) conta il 47%  di analfabetismo funzionale.

Questa malattia si manifesta con l’incapacità di trarre realmente le informazioni da ciò che si legge e non è un fattore genetico, ma una malattia riconducibile solamente all’ignoranza del singolo soggetto.

In pratica, parlando di analfabetismo funzionale da prosa, il 47% degli italiani legge le notizie senza avere la capacità di capire se queste possano essere verosimili.

Questa è la falla dell’informazione web, perchè sì… è vero che internet è un posto libero dal servilismo editoriale, ma è anche privo di un editore capace di bocciare per voi le notizie false.

Vi faccio un piccolo esempio:

Qualche anno fa, girava la seguente foto su molti social Network.

charles-manson

Sotto la foto in questione, appariva la seguente didascalia: QUESTO È GIANNI, UN UOMO COSTRETTO A VIVERE PER STRADA DOPO AVER PRESTATO SERVIZIO IN DUE GUERRE, MENTRE VOI DATE LE CASE AGLI IMMIGRATI.

La foto è diventata virale e molte persone, cariche di orgoglio nazionale non hanno potuto esimersi dal pubblicarla, allegando prosopopee patriottiche.

Questo è un classico caso di analfabetismo funzionale. Il problema è che il 47% degli italiani ha bisogno dei giornali e di un direttore editoriale, perchè un qualsiasi direttore editoriale non avrebbe mai permesso di pubblicare una foto del genere e il motivo è uno ed uno soltanto: la persona ritratta nella foto in questione è Charles Manson, uno di più famosi assassini della storia e capo di una setta che ha fatto il giro di tutte le prime pagine dei quotidiani del mondo.

Il problema non è se il web sia giusto o sbagliato e lo dico da persona che lavora scrivendo per il web; il problema è la persona che si trova dall’altra parte dello schermo. Purtroppo il 47% degli italiani non è in grado di riconoscere nemmeno uno dei serial killer più conosciuti del mondo, proprio perchè è vittima dall’analfabetismo funzionale, ovvero, dall’incapacità di correlare dei veri e propri significati alle notizie reperibili nel web.

Foto come quella appena pubblicata vengono prodotte giornalmente proprio per prendere in giro le persone, sensibilizzando la massa su questo punto estremamente importante. Il web è la risposta all’editoria di parte, ma non potrà soppiantarla finché il livello di cultura generale non riuscirà a farci scendere in quella terribile statistica che ci vede in prima posizione come capre di montagna del mondo occidentale.

Personalmente preferisco informarmi sul web, anche per questioni di lavoro, ma facendo probabilmente parte di quel 47% ho preso e continuerò a prendere decine e decine di cantonate, ma sarò sempre pronto a difendere la libertà del web, in quanto credo che la carta stampata debba coesistere con l’online, un po’ come una sorellina maggiore un po’ troppo anziana per tenere botta.

Per concludere, vorrei segnalarvi che una ragazza americana di nome Francy si trova in questo momento alla ricerca di un appartamento in Liguria,  contattatemi se per caso siete disposti ad ospitarla per un paio di notti.

Allego una sua foto.Amanda-Knox-6

 

Ferdinando de Martino.

Non ti pago, ma ti do l’opportunità di farti conoscere | locali che non pagano gli artisti.

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Oggi voglio scrivere qualcosa di concreto e tangibile. Perchè la differenza tra un giornalista e un blogger è la seguente: i primi hanno un direttore editoriale e i secondi hanno le palle.

Vorrei dedicare questo articolo a tutte quelle tipologie di artisti che si sentono dire sempre la solita frase dai gestori dei locali che li assumono per i loro show.

Sì, perchè magari molti di voi pensano che i locali paghino gli artisti che suonano durante le loro serate, esattamente come pagano quelli che recitano o intrattengono il pubblico con un reading, ma no… la realtà dei fatti è differente.

L’attitudine dei gestori dei locali è la seguente: ti assumo, sfrutto i tuoi servizi e non ti pago… ma guadagno sulle birre che vendo.

Ovviamente la mia è una semplificazione, perchè la frase che solitamente utilizzano i gestori dei locali è più meno questa: non ti pago… ma ti do l’opportunità di fare conoscere la tua arte.

Adesso voglio dare un consiglio a tutti gli artisti che si trovano davanti a queste quattro righe, un piccolo stratagemma atto a vendicare ogni sopruso subito da parte dei geniali imprenditori in questione.

Quando vi viene proposto un “contratto” del genere, non fate i Che Guevara dell’arte, lanciandovi in mirabolanti discorsi, ma accettate l’ingaggio e sorridete.

Dopo aver accettato, telefonate a tutti i vostri amici, o ancora meglio, aprite un gruppo Facebook in cui spiegherete che al vostro concerto il locale offrirà da bere e da mangiare a titolo gratuito ad ogni invitato, senza alcun limite.

Sì, perchè così farete un favore al vostro datore di lavoro, esattamente come lui ha fatto con voi. Insomma, darete al gestore del locale l’opportunità di far conoscere ai vostri amici la sua cucina e le sue birre. Ovviamente il gestore del locale perderà un sacco di soldi e tempo a fare i panini, ma in fin dei conti anche voi avete perso un sacco di tempo a studiare musica, ad imparare le canzoni e a produrre un disco, no?

D’altro canto,  si lavoro per farsi conoscere, no? Mica per i soldi, giusto?

Quando andate dal meccanico a farvi aggiustare la marmitta, mica lo pagate… no? Gli dite -Hai visto che grande opportunità che ti ho dato? Eh… mi hai dimostrato di saper aggiustare una marmitta. Non sei contento?

NO… il vostro meccanico non è contento, perchè il vostro meccanico aggiusta marmitte per potersi comprare i panini al bar e non per permettervi di scorrazzare in giro per la città a sbafo.

Quindi, se volete organizzare una serata o un evento, sappiate che gli artisti si pagano esattamente come si pagano i camerieri, i meccanici, i brocker assicurativi e i muratori. Si pagano perchè sanno fare qualcosa che voi non sapete fare e vi pagano perchè voi sapete cucinare cose che loro non sanno cucinare.

Sono perfettamente consapevole del fatto che il mondo sarebbe un posto meraviglioso se l’economia non girasse attorno al denaro, ma da un po’ di tempo ho imparato che la realtà è un’altra.

Quindi, invito tutti i frequentatori dei locali ad uscire senza pagare le consumazioni da tutti quei locali che non pagano gli artisti per il loro duro lavoro.

Qualche volta è bello fare i punk.

 

Ferdinando de Martino.

Scrittura da fast food |quando gli scrittori preferiscono Starbucks alle librerie

Foto von Chuck Palahniuk

L’iconografia dello sceneggiatore illuminato dalla luce del suo monitor, impegnato a sorseggiare un caffè formato “sfamiamo il terzo mondo” in una catena in franchising e stata ripresa in svariati format letterari e televisivi.

Esiste davvero un rapporto tra lo scrittore e il fast food? Perchè una volta erano i bistrot e le taverne a catturare l’attenzione dei nostri creatori di parole preferiti; qual’è la correlazione tra letteratura e cibo da catena di montaggio?

Prima di continuare, vorrei precisare che l’appellativo scrittore da fast food non vuole assolutamente essere denigratorio, ma semplicemente esplicativo.

Esiste una particolare categoria di letteratura che riesce in maniera estremamente precisa a riprodurre l’attitudine del fast food su carta.  Mi spiego meglio; la domanda che dobbiamo porci è la seguente: cosa cerchiamo nei fast food?

I fast food rappresentano una casa ipotetica, molto simile alla concezione del palazzo mentale. Ecco… i fast food sono dei palazzi mentali di sensazioni organolettiche.

Tutta la diatriba sugli scompensi alimentari e stronzate varie le lasceremo alla porta, perchè adesso inizieremo ad addentrarci nel concetto che voglio esporvi.

Quando ci troviamo all’estero, magari in un paese in cui la cucina non è di nostro gradimento, finiamo irrimediabilmente alla ricerca di qualcosa in grado di farci sentire a casa. Ora, sinceramente a me mangiare una pizza fa sentire a casa, ma dubito che una pizza bulgara riuscirebbe a farmi annusare gli aromi della mia terra, quindi in una situazione del genere, probabilmente finirei a mangiare un panino al Mc Donald. Come mai?

Perchè il Crisby Mc bacon bulgaro è lo stesso di quello austriaco, italiano, svedese e portoghese. Addentando quel panino di matrice americana in Bulgaria mi sentirò davvero italiano.

Il concetto di casa è la prevedibilità. Al Mc Donald non avrò mai spiacevoli sorprese, ma sicure certezze ed è meglio una certezza così e così, che una delusione stratosferica come una pizza  col ketchup.

Ora, torniamo alla letteratura. Quello che ritroviamo in certi autori è proprio quella sicurezza da fast food che tanto amiamo. Quando prendiamo in mano un libro di King, sappiamo che qualche protagonista potrebbe aver avuto problemi con le droghe  o magari troveremo delle atmosfere a noi familiari, già viste in tutti gli altri libri. Prendere in mano un Palahniuk, vuol dire sapere già dove si andrà a parare: una prevedibilità sconcertante nei dialoghi e nelle ossessive ripetizioni compulsive di un postmodernismo quasi da barzelletta.

Wallace è fast food ed è uno degli autori più geniali dell’intera letteratura globale. Cèline è fast food.

La letteratura da catena di montaggio è esattamente come la Apple, non ce ne frega un cazzo dell’hardware… perchè è il design ad ammaliarci.

Amiamo quel modo di raccontare a scapito di quello che si racconta.

Tutti passiamo un periodo della nostra vita ad amare la nouvelle cousine della letteratura, ma poi finiamo irrimediabilmente alla ricerca spasmodica di una firma riconoscibile, una voce solista all’interno del coro delle parole di tutti i libri che intossicano le nostre librerie con abbellimenti alla cruda realtà.

Baricco è fast food esattamente come Don De Lillo.

E a noi il fast food piace parecchio.

 

 

Ferdinando de Martino.

 

Come nasce uno scrittore? | Scrittori si diventa | di Salvo Barbaro

salvo

30 ottobre 2015

E’ un giorno strano per me questo, molto strano. Sono le sei di una fredda mattina d’autunno e come sempre mi alzo per andare a lavorare; accanto a me, dormiente, Giulia con in braccio la piccola Elena. In mezzo a noi, raggiante ma russante, Vieri, l’ometto di casa. È una mattina molto particolare questa perché a lavoro oggi saprò se il contratto come operaio metalmeccanico mi verrà rinnovato oppure no. Sono agitato, nervoso, incazzato: bevo un caffè zuccherato, mangio a stento un paio di biscotti, saluto tutti con un bacio volante e vado a lavoro.
Lavoro di merda, venuto per caso, lavoro che serve per mantenere me e la mia famiglia, lavoro che ti offre questa società di schifo, gretta, raccomandata, stronza. Colpa mia, colpa di passioni e studi non coltivati al momento giusto, colpa della ricerca spasmodica del cosiddetto “posto fisso”, nevroticamente ambito da ciechi genitori.
“Cazzo” penso, “ma chi me lo fa fare di andare oggi a lavoro. Tanto lo so che mi cacceranno via!”. Inchiodo l’auto, spengo lo stereo, mi fermo sul lato destro dei trafficati viali fiorentini e mi accascio con la testa sullo sterzo; poi alzo lo sguardo, impreco “ragionevolmente” e mi decido: “Vado e se mi cacciano via gliene dico di cotte e di crude, parola d’onore!”.
Arrivo in fabbrica, mi vesto dei panni da lavoro, altro caffè per calmarmi e s’inizia. Ore 9:30, mi chiamano su negli uffici: salgo le scale a fatica, con affanno, il cuore mi batte a mille; poi vedo lui, il RESPONSABILE, che appena mi vede mi sorride. “Ecco”, penso, “guarda che faccia di cazzo ha! Che sorridi lurida merda!”. Mi siedo, sudo, tremo.
-Allora Salvatore, leggi qui- mi fa e mi porge delicatamente un foglio con delle valutazioni sul mio operato mensile. In basso a destra, in rosso, evidenziata la scritta NON IDONEO. “Bene”, faccio io col sudore che mi riga il volto, lingua felpata e gola secca.
-E quindi? domando.
-Salvatore, quindi mi dispiace ma il nostro rapporto s’interrompe qui- fa lui con l’aria d’un uomo navigato.
Sospirone lungo dieci secondi, mi gonfio in petto, penso, come promesso, gli sputo tutto in faccia, gliene dico mille, duemila, tremila, gli stampo un cazzotto in volto, un calcio nelle palle, una testata in bocca. Niente di tutto ciò: gli stringo la mano, sorrido e gli chiedo: “Almeno posso andare via ora?”. Il RESPONSABILE si gira, mi fulmina con lo sguardo: “Salvatore, non mi sembra il caso, poi l’agenzia che direbbe? In futuro potrebbe non trovarti più niente!”. Sorride a trentadue denti gialli.
-Ok, ha ragione mi scusi!
-Anzi, se vuoi puoi andare via alle 12:30, così fai mezza giornata!
Annuisco, tolgo il disturbo, mi guardo intorno e penso semplicemente: vaffanculo!
Sono le 12:30 quando saluto tutti, prendo la mia roba dall’armadietto e vado via lasciandomi alle spalle sei mesi d’impegno, sudore, emicranie, risate, incazzature, ore di lavoro passate lì mentre Elena, mia figlia, nasceva e Giulia si trovava da sola in ospedale. Entro in auto, stereo ad alto volume che vibra Vasco con “Guarda dove vai”, canto a squarciagola, chiamo il mio amore che rassegnata mi consola dicendo che andrà tutto bene, qualcosa troveremo.
Arrivo a casa, guardo loro, i tre gioielli, sorridenti, stanchi, sudati; li bacio, li stringo forte a me. Vado in bagno, mi sciacquo il viso, prendo una Tennent’s dal frigo, la sorseggio, vado in salotto. Alzo lo sguardo rivolto alla libreria e vedo “Messico napoletano” di Beppe Lanzetta, lo sfoglio, lo rileggo per l’ennesima volta e penso “Perché non provo anch’io a scrivere?”.
Mi siedo al computer, lo fisso, lui mi fissa, lo accendo, lui continua a fissarmi come in un western di Sergio Leone. Poi penso “Ma che cazzo scrivo? Non ho frequentato la scuola adatta, sono solo un accanito lettore e un intrepido sognatore, non conosco la sintassi, le parole!”.
Lui continua a fissarmi, mi fa paura adesso; lo spengo impaurito e ritorno dalla mia famiglia.

Salvo.

The Secret, PNL e Dianetics | la gabbia delle parole

pnl

Oggi voglio affrontare un nuovo argomento: i libri motivazionali.

Molto spesso mi è capitato di parlare con amici di manuali generici su come affrontare la vita in tutte le sue sfaccettature e, inevitabilmente, quando si parla di questi argomenti si finisce per citare i vari manuali di programmazione neuro linguistica, The Secret e Dianetics.

Voglio essere molto chiaro su quest’argomento, spiegando le motivazioni che mi hanno sempre spinto a giudicare questi libri un’accozzaglia di roba New Age.

Badate che questo non è un insulto, ma una semplice constatazione, se si prendono tutte le filosofie new age, si troveranno moltissimi punti in comune con la PNL, il libro base di Scientology  e The Secret.

Allora, partiamo dal principio che noi tutti non siamo altro che animali. L’unica differenza tra noi e gli altri animali è che siamo l’unica specie in grado di costruire delle gabbie per noi stessi.

Questi libri non sono altro che delle gabbie mentali atte a veicolare le nostre azioni e i nostri comportamenti verso un fine che elimina dall’equazione dell’atto, una cosa chiamata: libero arbitrio.

Se una persona dice una certa cosa, rispondi coì. GABBIA.

Se vuoi ottenere questo risultato, agisci in questa maniera. GABBIA.

Il motivo per cui certe persone non riescono a legare con i mantra di questi tomi è molto semplice; ci sono animali più inclini alla libertà ed altri animali più inclini alla catena.

La catena è allo stesso tempo una protezione e una castrazione, creata per proteggerci, impedendoci di muoverci nelle direzioni che preferiamo.

Fondamentalmente credo che i libri in questione siano l’esatto contrario dei libri di filosofia, perchè non fanno altro che limitare il pensiero, riducendo tutto ad un meccanismo dalle dinamiche prevedibili, quando il mondo è sostanzialmente governato dalle leggi del caos.

Tuttavia, i libri non sono mai giusti o sbagliati, ma semplicemente libri.  Credo che le gabbie auto indotte servano a quelle persone particolarmente impressionabili e alla continua ricerca di qualcosa.

Il pensiero cinico è difficile da relazionare ad un credo o ad un’altra corrente spaccia-segreti-esistenziali e, quindi, il cinismo è l’unica arma per difendersi da queste gabbie.

Ovviamente sono pronto a confrontarmi con chiunque non la pensi come me sui libri in questione.

Ferdinando de Martino.

Cosa mi hanno insegnato i NIRVANA | anniversario della morte di Kurt Cobain

Kurt-Cobain

Ci sono molti gruppi all’interno della storia del rock, impegnati a sopportare sulle loro spalle il peso della responsabilità globale di purezza e nichilismo “made in PUNK”. I NIRVANA sono indiscutibilmente tra questi, ma come mai sono stati così importanti?

Molto spesso ci limitiamo ad analizzare i contenuti, cosa che per inciso dovrebbe essere la base di una critica costruttiva, quando per capire davvero il significato di una band bisognerebbe soffermarsi sulla contestualizzazione.

Quindi, anche se siete tra i detrattori dei NIRVANA o del Seattle sound, fatemi il favore di seguirmi lo stesso … almeno per un paio di righe, poi potete anche mandarmi a quel paese.

Kurt Cobain era sbagliato. Era sbagliato per le ragazze che non se lo filavano, era sbagliato per gli sportivi che non lo sceglievano mai per le partite, era sbagliato perché frequentava ragazzi gay in un paese in cui il Q.I. medio era quello di un ravanello bagnato. Era sbagliato.

Lo sbaglio è un punto cruciale per il linguaggio dei NIRVANA. Quando sei sbagliato hai solamente due strade davanti a te.: l’emarginazione o il martirio.

Da una parte c’è il totale disinteresse del mondo verso la figura di un disadattato eroinomane con la testa piena di frasi sconnesse, mentre dall’altra abbiamo i soldi, la fama e la possibilità scoparsi tutte quelle ragazze che al liceo ti schifavano come se avessi la lebbra.

Decidere di esporsi è stato un modo per combattere questo sbaglio di default. Ma cosa succede quando uno sbaglio arriva a vendere milioni di copie in tutto il mondo?

Il panorama musicale mostrava un Axl Rose sempre pronto a mostrare il suo fisico statuario (ai tempi) e di punto in bianco arriva un ragazzetto che nasconde una magrezza tossica sotto maglioni e camicioni da boscaiolo. Cosa pretendeva? Voleva conquistare il mondo?

D’un tratto quello che era successo con la nascita del Punk, tornò a far sentire un’eco che solamente gli sbagliati riuscirono a captare: l’eco del “Just do it”.

Fallo, non perchè sei bravo a farlo, ma perchè senti di doverlo fare.

Quello che ho sempre ammirato in Cobain è la coerenza. Possiamo discutere su ogni cosa relativa all’universo dei NIRVANA, ma sulla coerenza non si può proprio dire niente.

Vi siete domandati perchè non esistono foto di Kurt Cobain con modelle anoressiche, intento a sbocciare champagne in limousine assieme all’establishment giornalistico? Semplice… perchè Cobain era coerente.

Quell’universo di gente ricca e arrivata era lo stesso che non lo voleva alle partite di football. Tutte le ragazzine che lo schifavano al liceo, adesso erano dall’altra parte della barricata ad attenderlo in un privè di un club alla moda, ma lui era coerente.

Aveva la sua famiglia di freak e non era conciliabile con quell’ambiente. Forse era una famiglia fatta di tossici, ragazzi problematici e disadattati d’ogni genere, ma era sua.

Quello che ho imparato dai NIRVANA è che essere un perdente, nel bene e nel male, è una cosa che ti porterai dietro per sempre e nel corso della tua vita vedrai addirittura dei vincenti che vorranno mascherarsi da perdente, solamente perchè è interessante avere il look di uno che ha mangiato la polvere mentre gli altri sgommavano sulla sua dignità

Quello che ho imparato da Kurt Cobain e dai NIRVANA è che noi disadattati perderemo sempre e comunque, ma sarà il nostro rialzarci a farvi incazzare come delle iene, facendovi desiderare di essere come noi.

I NIRVANA sono una scelta: o sei quello con la testa nel cesso o sei quello che mette la testa degli altri nel cesso.

I NIRVANA avranno sempre la testa nel cesso e, credetemi, tra le bolle dello scarico si sente della musica veramente cazzuta.

Dedicato a tutti quelli che mettevano  le teste nel cesso a quelli come me. Noi abbiamo i NIRVANA… voi chi avete?

When I was an alien, culture weren’t opinione.

Ferdinando de Martino.

LE IENE | Come fare disinformazione senza contenuti

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Voglio fare pubblicamente i miei complimenti al programma LE IENE, perchè da amante dell’incoerenza fine a se stessa e della televisione spazzatura, ieri sera mi sono trovato davanti ad un programma veramente perfetto.

Le parti salienti di un giornalismo d’inchiesta sono state Marco Mazzoli che va a transessuali, un servizio sulla pornografia infantile rapportata ai Manga e una vecchietta egiziana che colpisce un inviato delle IENE con l’ulivo della pace.

Partiamo dalla vecchietta. Questa signora egiziana, colpevole di una truffa, viene perseguitata da dall’inviato delle IENE, mentre cerca di vendere delle palme e dei ramoscelli d’ulivo.

Occhio, perchè la retorica delle IENE è ai limiti del subdolo. L’inviato delle Iene si domanda, ammiccando alla telecamera, perchè questa donna non abbia restituito i soldi alle persone che ha truffato in passato, visto che in quel momento sta lavorando?

Beh, caro inviato delle IENE, questo te lo voglio spiegare io. Quella truffatrice ha sbagliato, è palese, ma non credere che vendendo piantine la domenica delle palme una persona riesca a coprire un debito di diecimila e passa euro con gli interessi.

È terribilmente ingiusto guardare la tele camera dicendo -Se questa signora lavora, guadagna… quindi può pagare.-, perchè lo stipendio di una domenica passata a vendere palmette è probabilmente di ottanta\novanta euro all’anno, al contrario dello stipendio di una IENA che credo si di ben altra sostanza.

Passiamo al servizio sui MANGA e sulla pornografia\pseudo prostituzione in Giappone.

L’inviata delle IENE scopre con trentacinque anni di ritardo gli Hentai ( un po’ come se io scoprissi oggi gli Stati Uniti d’America) e decide di farci sopra un bel servizio, additando un’intero popolo come pedofilo.

Bene… passiamo al setaccio questa bella infarinatura che ha dato vita ad un impasto d’incoerenza.

Il servizio pone alla base gli Hentai pornografici in cui le scolarette in abiti succinti  hanno svariati rapporti sessuali, cosa che l’inviata delle IENE trova tremendamente fuori luogo e orribilmente poco artistica. Vorrei ricordare alle IENE che un certo Vladimir Nabokov ha scritto un romanzo intitolato “LOLITA”, magari potrebbero fare un servizio anche su di lui, visto che il tema principale della storia è quello di un uomo che si fotte allegramente una scolaretta.

Nabokov sì e gli Hentai no. Perchè? Semplice… perchè il fenomeno degli Hentai, secondo la reporter, ha dato vita al fenomeno delle accompagnatrici minorenni a Tokyo, travestite da personaggi dei fumetti giapponesi.

Sono molto confuso e voglio rendervi partecipe della mia confusione: se domani decidessi di andare a prostitute e chiedessi ad una di queste -Possiamo farlo travestiti da Batman e Catwoman?-, bisognerebbe fare causa alla D.C. per avermi provocato svariate erezioni con il personaggio della donna gatto?

Fuorviare le persone con una metodologia d’informazione prettamente spiccia è semplice, perché la massa tende ad abboccare all’amo come un gruppo di pesci che nuota in un mare di Lexotan. Fermiamoci un attimo a pensare con la nostra testa.

È immorale, secondo LE IENE, che delle ragazzine prendano soldi per fare compagnia a dei vecchi e, soprattutto, è immorale che queste persone prendano soldi dai suddetti vecchi. Mi sembra di ricordare che LE IENE vadano in onda sulle reti di un certo Silvio Berlusconi, o sbaglio? E mi pare di ricordare che i reporter siano stipendiati da lui. Mi pare di ricordare anche, non per fare il pignolo, che Silvio Berlusconi si sia fatto una minorenne, pagandola… giusto?

Questo non è sbagliato, no? Non è immorale prendere dei soldi da un uomo che è andato a letto con una minorenne, a pagamento, per aver fatto un sevizio contro la produzione di materiale artistico relativo alla fantasia degli adulti di andare a letto con ragazzine?

Trovo tutto questo è ironico.

Ironia: attribuire ad un qualcosa un significato che rappresenta il suo evidente contrario.

LE IENE fanno GIORNALISMO è il perfetto esempio d’ironia.

 

 

 

 

Ferdinando de Martino.