Agosto 2016

La GUERRA dello scrivere | scrittura creativa | di Ferdinando de Martino

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Molto spesso le metafore sportive e belliche sono l’escamotage più veloce per arrivare al concetto di una spiegazione.

Questa è una regola che si può tranquillamente applicare  a molte discipline, anche differenti dalla scrittura creativa.

Scrivere è una guerra. Una guerra con noi stessi, contro gli altri e soprattutto per gli altri. Questa è una cosa che non bisogna mai dimenticare in letteratura: il dualismo è efficace solamente se bilanciato.
Per ogni schiaffo morale che infliggeremo al lettore, dovremo essere in grado di restituirgli anche una carezza. Tutto questo perchè dalla narrativa non s’impara nessuna lezione, al massimo si deduce e per dedurre un qualcosa, bisogna sentirsi parte integrante di quello che si sta leggendo.
Quindi, porsi come un figlio di puttana davanti a chi spende dei soldi e del tempo per leggere un manoscritto, sarebbe proprio da stronzi.
Nel gesto dello scrivere verrebbe da pensare che l’autore si debba porre come una sorta di generale, nei confronti d’una storia.
Un generale vive la guerra, ma allo stesso tempo si pone ad essa da una prospettiva diversa, se vogliamo più lontana, da quella di un soldato che affronta la guerra con un fucile tra le mani ed il nemico e la morte a pochi metri.
C’è una sorta di distanza che rende la guerra più “tollerabile” e poetica dal punto di vista di un generale, ma quello non è il ruolo dello scrittore.
Un generale sarà effettivamente lontano dalla guerra, ma in un certo senso sarà anche dentro alla battaglia e, sebbene non viva la paura in maniera vivida e viscerale, se il suo operato non sarà perfetto, prima o poi la guerra arriverà a davanti a lui. La distanza, insomma, c’è… ma è poca.
Lo scrittore deve porsi nei confronti d’una storia, come un reduce.
Il reduce è stato in guerra. Il reduce conosce l’orrore e la paura; è stato dentro, lontano e fuori.
Il reduce guarda la guerra dall’esterno e non da lontano, come un generale. Il suo punto di vista è freddo, proprio perchè pur conoscendo esattamente quel delirio dall’interno, si trova distaccato da esso a tal punto da provare un senso di disprezzo per la tranquillità che le immagini di una guerra non vissuta in prima persona provocano in lui.
Quando il punto di vista è lontano e dentro ad una storia, allora e solamente allora, bisognerà iniziare a battere i tasti della tastiera del computer.
Prendere le distanze dalle proprie storie è difficile, ma diventa un gesto spontaneo quando s’inizia a scrivere in continuazione. Probabilmente questo accade per molti altri lavori, ma io posso parlare solamente di quello che conosco.
Un esercizio fantastico per diventare dei reduci è quello di provare a riscrivere una pagina di un libro scritto da un altro autore, decidendo di adattare a quella storia il vostro stile e non viceversa.
Molto spesso è il punto di vista e l’attenzione di un autore a decretare la fluidità del suo stile.
Facciamo un breve esempio:

Will Graham fece sedere Crafword al tavolo da picnic tra la casa e la riva dell’oceano e gli posò davanti un bicchiere di tè ghiacciato.

Questo è l’incipit di Red Dragon di Thomas Harris, autore della saga dedicata ad Hannibal Lecter. La scrittura è incisiva, esplicativa e mirata a far capire al lettore che un tale Will Graham non lavora più, per via del tavolo da picnic davanti all’oceano e capiamo a anche che Crafword vuole qualcosa.
Due righe. Due sole righe: perfetto.

Ora proviamo a scriverlo in maniera non esplicativa, magari più descrittiva.

L’oceano s’infrangeva sulla sabbia della costa ovest come ogni mattina, quando Crafword si mise a sedere davanti a Will Graham, immortalato con un bicchiere di tè ghiacciato tra le mani. L’alone condensato sul tavolo da picnic rifletteva il sole, frastagliandone i contorni.

Il punto di vista è differente, ma la storia è la stessa.
Questo trucco può aiutare lo stile ad uscire dalla penna in maniera fluida e lineare, maturando una maggiore consapevolezza della propria voce cartacea.

Ferdinando de Martino.

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di JOHN WICKER

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Sharon se ne stava accasciata a terra, tenendo suo fratello in braccio. Il coltello da carne penzolava pericolosamente vicino al viso piangente del piccolo Bruce.
Lo sguardo della ragazza era assente, quasi come se avesse visto negli occhi il reale volto del male.
Jack Milton si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore. Succedeva ogni notte.
-Tutto bene, tesoro?- chiese, ancora assonnata, Darline.
-Tranquilla cara… tranquilla.
Era passato un mese, ma Jack non era ancora riuscito a dimenticare ciò che era successo in quella casa.
Anche Darline faticava molto a prendere sonno, ma non le capitava mai di svegliarsi nel cuore della notte, in preda ad attacchi di terrore notturno come succedeva a lui.
Andavano a trovare Sharon ogni due giorni, nella clinica privata che l’aveva presa in cura. Schizofrenia. La diagnosi parlava chiaro.
La loro primogenita di diciassette anni era schizofrenica ed era monitorata ventiquattr’ore su ventiquattro.
Jack sognava quel momento in continuazione, ponendosi sempre la stessa domanda: cosa sarebbe successo se lui non fosse entrato in tempo in quella stanza?
Sharon avrebbe brutalmente ucciso il suo piccolo fratellino? Sarebbe realmente stata in grado di fare del male ad una creatura così piccola ed indifesa?
Come avevano potuto non accorgersi dei sintomi della malattia mentale della loro primogenita?
Lui passava molto tempo a lavoro, ma aveva sempre avuto un rapporto splendido con Sharon. Lei gli aveva sempre detto che lo considerava più un amico che un padre.
Quando era piccola, lui era solito guardarla intensamente prima di rimboccarle le coperte e dirle -La principessa di papà ha bisogno di un bacio scaccia mostri?
Lei rispondeva sempre -Facciamo due.- e scoppiavano entrambi a ridere.
Il tempo delle risate era finito. La sua principessa era costretta in un lettino, imbottita di psicofarmaci per impedirle di fare del male a qualcuno o addirittura a se stessa.
Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Lungo il tragitto si fermò davanti alla camera di Bruce. Era tutto a posto. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di fare del male alla sua famiglia.
Una volta in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bel bicchiere d’acqua. Probabilmente l’avrebbe aiutato a dormire.
Quasi senza un reale motivo, decise di andare in bagno, nonostante non sentisse nessun impulso fisiologico.
Voleva guardarsi in faccia. Voleva ricordare a se stesso che dietro quel volto c’era ancora un uomo in grado di difendere la sua famiglia.
Non accese nessuna luce, perchè la porta a vetro della camera da letto di lui e sua moglie si trovava nella traiettoria del bagno e non voleva svegliare Darline una seconda volta.
Il turno di mattina la stava uccidendo di stanchezza e le sue crisi notturne non l’aiutavano di certo.
Doveva ritrovare la sua tranquillità in un modo o nell’altro. Quell’instabilità interiore finiva per ripercuotersi anche sul suo lavoro. Era sempre stanco e assonnato e quando i musicisti gli domandavano come fossero andate le registrazioni, lui rispondeva senza aver realmente ascoltato il lavoro appena inciso.
Le orecchie andavano ancora bene, ma il cervello era proprio da un’altra parte.
Gli affari al suo studio di registrazione andavano alla grande, ma da lì a perdere tutti i loro clienti per negligenza, era un niente.
Si sciacquò il volto con dell’acqua ghiacciata e sollevò il suo sguardo nello specchio. Nel bagno c’era qualcuno assieme a lui. Un riflesso distinto di un uomo sulla quarantina, sporco e arruffato era apparso nello specchio.
Un grido sovrumano uscì dalla gola di Jack che crollò a terra, terrorizzato.
Non c’era nessuno dietro di lui. Il bagno era vuoto.
Cosa diavolo era stato? Un’allucinazione? La mancanza del sonno? Forse stava impazzendo. Prima sua figlia e adesso lui.
Uscì dal bagno ancora in stato di shock. La luce dalla camera da letto sua e di Darline era accesa. Probabilmente sua moglie aveva sentito le grida e si era alzata per l’ennesima volta.
Non era un’allucinazione. L’uomo che aveva visto in bagno era entrato dentro la camera del piccolo Bruce.
Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua famiglia. Non faceva altro che ripetere mentalmente quella frase, dall’incidente avvenuto il mese precedente. Adesso era arrivato il momento di dimostrare a tutti che era un uomo perfettamente in grado di difendere la sua progenie.
Correndo come un forsennato verso la stanza del figlio, afferrò il suo ferro numero quattro dalla sacca da golf che teneva sempre nell’ingresso, per mostrare a tutti che era un golfista sempre pronto al gioco ed entrò nella cameretta.
L’uomo se ne stava accanto alla culla.
Con un fendente, Jack cercò di colpire l’oscura presenza per poi afferrare Bruce e portarlo al sicuro.
-Che diavolo succede?- gridò Darline, entrando nella stanza.
-Ci sono io. Ci sono io. Vattene.
-Che cazzo stai facendo?
-Vai via… scappa.
Darline si accorse immediatamente che c’era qualcosa che stava spaventando a morte suo marito, ma doveva assolutamente prendere il piccolo Bruce, prima di occuparsi dell’uomo.
-Senti, adesso devi darmi Bruce, ok?- disse, cercando di rimanere calma, mentre i demoni della rabbia non facevano altro che impadronirsi del suo corpo.
-Non posso. Vai via…
-Perchè hai una mazza da golf in mano?
-Tu non l’hai visto.
-Dammi il bambino, Jack.
-No. Non te lo permetterò. Stammi lontana. Io… io devo proteggerlo.
-Ok. Ok. Bene. Ma dimmi solo da cosa devi proteggere Bruce, così posso darti una mano.
-Era… era… oh mio Dio, Sharon aveva ragione.
Un vaso s’infranse sulla testa dell’uomo e il buio spense il ragionamento.
La madre di Darline si trasferì da lei, subito dopo gli avvenimenti che distrussero definitivamente quello che restava della sua famiglia. Erano entrambi schizofrenici, suo marito e la sua primogenita.
Qualcuno doveva averle lanciato addosso un malocchio grande come una casa.
Bruce era tutto quello che le rimaneva. Non riusciva proprio a capire perchè la pazzia di Sharon e Jack aveva dovuto abbattersi sul piccolo bambino che stringeva tra le mani in quel momento.
Oramai Bruce dormiva assieme a lei, in quella che un tempo era stata la camera da letto che condivideva con il suo amato marito, al momento ricoverato all’interno della stessa struttura che aveva in cura anche la giovane Sharon.
Quella notte avrebbe voluto chiudere gli occhi e risvegliarsi indietro nel tempo; precisamente quando la sua vita era ancora degna d’essere vissuta.
Adesso era tutto relativamente facile. Bruce non faceva alcun tipo di domanda, si limitava a poppare, fare dei gran ruttini e nulla di più. Un giorno, nemmeno poi tanto lontano, le avrebbe sicuramente chiesto dove si trovasse suo padre e chi fosse sua sorella e Darline non avrebbe saputo cosa rispondere.
Tempo al tempo… era solamente un neonato.
Sharon si alzò e andò in bagno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, donna dal sonno estremamente leggero.
Fece pipì e iniziò a riflettere sugli avvenimenti che avevano distrutto la sua vita. Non aveva notato nessun sintomo di squilibrio in Sharon, prima che questi si manifestassero tutti in una volta, esattamente come era successo con Jack.
Dal nulla, entrambi si erano scagliati con enfasi sul più piccolo della famiglia.
Sharon aveva cercato di ucciderlo con un coltello, mentre Jack aveva optato per una mazza da golf.
Cos’era successo alla sua famiglia? Cosa poteva aver distrutto il cervello delle persone che più amava al mondo? La pazzia? Il demonio? Non sapeva più a chi chiedere aiuto, ora che anche la preghiera le sembrava un inutile passatempo, privo di ogni tangibile riscontro.
Forse lei era stata scelta da Dio per vegliare sul piccolo ed indifeso Bruce. Poteva essere un’ipotesi, esattamente come poteva essere solamente un modo d’interpretare una realtà orribilmente grottesca.
L’acqua fredda sulle mani le restituì un po’ di colore in viso. Da quando erano successi quegli avvenimenti, la sua pelle aveva perso un paio di tonalità, regredendo dal rosa acceso, fino ad arrivare ad un bianco tendente al blu acceso.
Le occhiaie le circondavano gli occhi, quasi come se volessero proteggerla dal senso della vista, creando un fossato attorno alle sue pupille.
Prese l’asciugamano tra le mani e alzando lo sguardo verso lo specchio, vide un riflesso di terrore su quella superficie che aveva già condannato altri due esponenti del suo nucleo familiare.
Un grido gelido interruppe il sonno di Eleonor, sua madre, che svegliandosi di soprassalto, vide sua figlia correre in camera da letto, con un coltello da macellaio serrato nel pugno chiuso.

J. Wicker

I racconti di John Wicker li potete trovare anche sul vostro Kindle store. Il terrore è portata di click.

Achille, l’eroe piangente | Ferdinando de Martino |

Achille

Nella prima parte dell’Iliade, troviamo un Achille che mostra delle sfaccettature molto particolari del suo carattere.
Solitamente pensiamo ad Achille come ad un guerriero implacabile, forte e coraggioso, ma questa versione del figlio di Peleo è distante da quella che ritroviamo nelle prime pagine del poema omerico.
Quello che incontriamo è più un bambino che corre dalla mamma alla prima lite coi compagni di scuola, che un eroe di battaglia.
Immaginate il biondo Achille, re dei Mirmidoni di Ftia, seduto sul bagnasciuga di una spiaggia, intento a piangere lacrime su lacrime perchè i suoi compagni gli avevano appena rubato la merenda.
Spieghiamo meglio la scena.

Il grande esercito degli achei (abitanti dell’antica Grecia), rispondeva al comando di un unico re: Agamennone.
La guerra era iniziata per rimediare al torto subìto da Menelao, fratello di Agamennone, a cui era stata sottratta la moglie da Paride il bello, secondogenito di Priamo re di Troia.
L’insieme degli eserciti di tutte le polis achee, avevano aderito alla causa di Menelao, chi per un motivo, chi per un altro e da nove anni se ne stavano a combattere e morire, davanti alle mura inespugnabili di Troia.
Nove anni sono tanti, soprattutto per un gruppo di uomini che non aveva la certezza di sopravvivere al giorno successivo; così, grazie a razzie e doni, molti uomini riuscirono a rendere schiave delle donne, giusto per passare il tempo, allentando le tensioni notturne.
La schiava di Agamennone era una certa Atinome, detta Criseide, figlia del sacerdote apollineo Crise.
Questo pover’uomo che non riusciva più a sopportare che il destino di sua figlia fosse quello di farsi carico delle tensioni notturne di Agamennone, fece quello che ogni buon padre avrebbe fatto: supplicò il re, facendo leva sulla sua nobiltà d’animo.
Dovete sapere che il nostro Agamennone tutto era fuorché nobile d’animo. Le richieste del sacerdote vennero ignorate e derise, mentre l’uomo venne insultato senza ritegno.
Tornandosene verso il mare, Crise, chiese ad Apollo, dio dell’arco d’argento, di punire l’insolenza del re degli achei.
Detto fatto. Apollo iniziò a scagliare frecce infuocate contro Agamennone e il suo esercito. Le divinità greche erano puntuali come orologi svizzeri.
Giustamente, gli achei si riunirono per discutere del fatto, visto che non esistevano ombrelli per le piogge di frecce infuocate.
Proprio durante la discussione si alzò un certo Calcante, figlio di Testore, professione: veggente. I cari bei lavori d’una volta…
Questo veggente, dopo essersi alzato, disse -Beh… io in realtà conosco le motivazioni che hanno fatto adirare il dio Apollo. Ma non voglio dirvele.
Qualcuno chiese -Come mai non vuoi dircele?- e Calcante rispose -Perchè ho paura che qualcuno possa arrabbiarsi e credo anche che questo qualcuno potrebbe farmi la pelle, si vi spiegassi le motivazioni del divino Apollo. Certo… se un eroe, magari qualcuno amato dagli dei, specialmente da Zeus, mi promettesse di difendermi… io potrei anche dirvi come stanno le cose.
Achille si alzò e disse -Ti difendo io.- e, continuando con una totale mancanza di pragmatismo rispose a gran voce -Ti difenderò anche se il tuo nemico dovesse essere Agamennone… che dice di essere il più forte degli achei.
Il gelo. Sì, perchè quando Achille, che era a tutti gli effetti il più forte degli achei, ti viene a dire una cosa del genere, un minimo d’effetto destabilizzante riesce a crearlo.
-Ok.- disse Calcante -Apollo è arrabbiato perchè Agamennone, come al solito, si è dimostrato maleducato, solo che questa volta ha mancato di rispetto ad un sacerdote d’Apollo e questo l’ha fatto adirare molto. Tuttavia, il dio è disposto mettere da parte la sua collera se Agamennone restituirà Criseide a suo padre.
Adesso immaginate Agamennone, il più egocentrico dei sovrani, davanti ad un eroe e un veggente che in parole povere gli stanno facendo fare la figura del pirla davanti a tutti.
Così, dopo aver insultato a dovere il veggente, Agamennone disse che avrebbe restituito la sua schiava solamene se gli achei gli avessero fatto un regalo.
Ora, fare il regalo ad un re così importante era un po’ un problema, perchè le divinità avevano regali come l’Asia, ma una manciata di soldati e re achei, in una terra straniera, non avevano nulla da regalare ad Agamennone.
Achille fece notare quel dettaglio al sovrano e lui, rispondendo di getto, disse -Io restituirò la mia schiava, ma tu caro il mio Achille, visto che parli tanto, mi regalerai la tua schiava.
Il figlio di Peleo ebbe un tonfo nel petto, c’è chi pensa sia dovuto all’amore e chi all’orgoglio, fatto sta che Briseide, la schiava di Achille era stata richiesta dal sovrano in persona.
La sorte degli achei era nuovamente tra le braccia di una donna, perchè la civiltà greca non ha mai dato molta importanza alle donne, ma le donne hanno ciclicamente messo in ginocchio divinità ed eroi.
Achille acconsentì (dopo aver accarezzato la sua spada) a cedere la sua bella Briseide, ma prima fece un discorso che potrebbe far pensare a molti che il figlio di Peleo fosse il precursore del sindacalismo.
Ascoltate, perchè sembra uscito dalla C.G.I.L..
-Agamennone… Agamennone. Io sono venuto qui con il mio esercito e come me hanno fatto lo stesso eroi del calibro di Enea e Odisseo, anche se a noi i troiani non hanno fatto niente. Io , assieme a questi eroi ho combattuto per la tua causa e tu hai sempre ricevuto parti maggiori dei nostri bottini, eppure non mi pare di averti mai visto sul campo di battaglia. Facciamo così: prenditi pure la mia Briseide. Voglio che si ricordi il mio nome, come quello della persona che ha rinunciato al suo bene per quello degli achei. Mentre voglio che il tuo nome venga ricordato come quello dell’uomo che ha condannato i suoi uomini a morte certa per mano delle armate di Ettore, perchè Achille non combatterà più per te. Tutti gli achei rimpiangeranno il mio elmo.
Lapidario. Il sottotesto è: io salvo i greci adesso, ma tu troverai certamente un modo per farli ammazzare poco dopo.
Questa saggezza non era tutta farina del sacco d’Achille, ma una divinità aveva messo le sue grinfie su quella discussione.
Dovete sapere che nell’Iliade gli dei non si facevano mai i cazzi loro. Così, Atena scese dal cielo, rendendosi visibile solamente ad Achille, poco prima del sindacalismo degli eroi.
Il tutto avvenne in un istante, esattamente quando Achille, assieme alla sua spada, accarezzò anche l’idea di porre fine alla vita di Agamennone.
-Achille, non fare cavolate, perchè in quello il re degli achei è bravissimo da sé. Insultalo quanto vuoi, ma non usargli violenza. Se così farai, avrai doni pari a tre volte il torto subito.- disse la dea, per poi sparire.
Achille fece un rapido calcolo… il torto era una donna, tre volte una donna era l’equivalente di tre donne. Ci poteva stare. Così, il nostro Achille divenne pragmatico.
Subito dopo il discorso del Pelide, si alzò un vecchio guerriero, Nestore.
Questo grande eroe cercò di calmare le acque, rivolgendosi ai due uomini in maniera paterna -Sentite, in primo luogo qui vi state auto definendo i più forti del mondo, quando in realtà io che ho qualche annetto più di voi, posso dirvi di aver conosciuto achei ben più forti di voi, come Teseo, Piritoo, Driante, Polifemo ed altri. Quindi, evitiamoci l’egocentrismo e torniamo a noi. Achille, tu sei il figlio di una dea, ma non per questo devi avere più bottino del re di tutti re, mentre tu… Agamennone, perchè non eviti di rubare la donna ad Achille, perchè senza di lui siamo spacciati?
Qualcuno doveva far notare ad Agamennone che senza quel biondino dal piede veloce i troiani avrebbero vinto la guerra.
Agamennone rispose -Non me ne frega niente. Il fatto che sia una mezza divinità non gli dà il diritto d’insultare il mio nome. Portatemi la sua donna e lascerò che Odisseo riporti Criseide a suo padre.
Così Achille, disse al suo più intimo amico (forse cugino e forse amante), Patroclo, di non difendere la sua tenda quando i soldati di Agamennone sarebbero andati a rubargli Briseide e, infine, se ne andò a piangere in riva al mare, da sua madre.
Teti, madre di Achille, emerse dalle acque ed andò a consolare il suo figlioletto.
Achille era incazzato nero. Sapeva che con la sua forza avrebbe potuto ammazzare in un solo secondo il tiranno Agamennone, ma questo avrebbe condannato gli altri uomini. Inoltre, c’era qualcos’altro…
Achille era maledetto. Ancora bambino gli venne predetto un destino binario. Se non fosse mai partito all’avventura, avrebbe avuto una vita serena e lunga, lontana dagli scontri e dalle brutture delle guerre, mentre se avesse optato per la via dell’avventura, il suo destino sarebbe stato breve, ma intenso e pieno di gloria.
Le sue lacrime si basavano proprio su questo concetto. Achille, facendo due conti, pensò -Qui io sto combattendo da nove anni e della gloria, neanche una traccia. La mia vita sarà molto breve e adesso mi hanno rubato anche la donna, insultandomi. Non è che la gloria non arriverà mai e creperò come un imbecille?
La madre cercò di consolarlo in ogni maniera, fino farsi strappare una promessa che alleggerì lievemente i dolori del figlio.
-Mamma, mi devi promettere che chiederai a Zeus di aiutare i troiani a sconfiggere in battaglia gli achei, così capiranno che senza di me non potranno mai vincere la guerra! Zeus non potrà dirti di no, anche perchè è sempre stato innamorato di te.
Come ogni madre avrebbe fatto, Teti acconsentì ad accontentare il figlio. C’era un solo problema, Zeus era partito per un viaggetto in Etiopia, portandosi dietro tutti gli dei e non sarebbe tornato prima di dodici giorni.
-Tranquilla, io ti aspetterò qui.- rispose Achille.
Il bello è che lo fece per davvero. Aspettò dodici giorni e dodici notti in riva al mare, piangendo. Almeno questa è la versione che ho immaginato nella mia testa.
Pensate che per tutta la durata del suo ritiro sul bagnasciuga, non si recò nemmeno una volta all’assemblea e, soprattutto non si fece vedere in battaglia e questo si notò ancor più della sua assenza in assemblea.
Quando Teti riuscì ad incontrare Zeus, durante una festa, gli fece gli occhi dolci, senza esagerare troppo perché non voleva offendere Era, che l’aveva cresciuta, e Zeus non poté che risponderle -Sì. Il torto fatto ad Achille verrà rimediato.
Era si accorse di qualcosina, ma Zeus finse che nessuna cospirazione fosse in atto.
Quella notte, mentre la sua consorte dormiva, il capo di tutti gli dei iniziò a pensare una strategia per correre in aiuto dell’orgoglio ferito del giovane Pelide.

Ferdinando de Martino.

Se ti è piaciuto l’articolo, leggi anche: Come siamo arrivati alla guerra di Troia?

A pugni con il karma | un racconto di Ferdinando de Martino.

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Stavo pensando. Questo è un errore.
Quando ci si trova davanti ad una tastiera non si dovrebbe mai e poi mai pensare, ma agire.
Pensavo ad un amico, mentre scrivevo. Uno scrittore promettente e carico di quella che amo definire: voglia allo stato puro.
Quindi vorrei dedicare a lui queste poche righe, perchè la vita è una stronza insaziabile e brama il nostro sangue ad ogni angolo di strada, ma alla fine della storia, quelli che attacca sono sempre gli stessi.
Siamo dei poveri stronzi, abituati ad incassare, ma sempre dei poveri stronzi. E fino a quando riusciremo a tirarcela da boxer professionisti andrà tutto bene, poi si vedrà.
O cadremo noi, o magari si stancherà lei.
A lavoro stavo combattendo con una macchia di nero di seppia.
Se ne stava lì sul lavandino a guardarmi, come in un incubo. Avevo utilizzato la spugnetta abrasiva, la paglietta metallica, una spatola e una serie di prodotti chimici che probabilmente avrebbero steso un toro se solo glieli avessi lanciati addosso; ma niente. Quella stronza non se ne voleva proprio andare.
Era come se il karma mi stesse dicendo che dovevamo diventare tutti vegetariani, perchè prima o poi tutto torna.
Dubito che il principio karmico si possa manifestare in una chiazza scura sul lavandino, ma al momento quel concetto era tutto quello che avevo e decisi che era il mio nemico.
Fanculo il karma.
Se esistesse una divinità, di certo non vorrei stringerle la mano. Preferirei attendere il grande incontro e porle una semplice domanda: Perchè?
Alla fine me ne andrei senza ascoltare la risposta, come ringraziamento per tutte quelle volte in cui, ammessa la sua esistenza, sono stato ignorato da lei o lui. Tutto torna.
Mi sentivo come Achab contro la balena bianca. Ferdinando e il nero di seppia.
Qualcuno mi ha detto che il mondo può sopportare ancora tre bombe atomiche ed io tra me e me, ho iniziato a pensare -Bene. Potremmo farla finita in un quarto d’ora. Finiremmo tutti… anche la macchia.
Spero proprio che Kim Jong accolga la mia preghiera e distrugga questa malsana rapsodia del caos che chiamiamo vita.
Mi sentivo come Ralph Maccio in Karate Kid, quando doveva salmodiare il fatidico -Metti la cera, togli la cera.
Al diavolo. Avrei continuato fino a slogarmi il braccio. Non potevo essere sconfitto da una macchiolina.
Tutti i miei sogni, le mie ambizioni, il mio amore, il mio odio, la mia finta pacatezza zen e la rabbia da tre bicchieri del mercoledì sera, tutto lì dentro, in quella centrifuga emotiva, mirata alla pulizia del lavandino.
Che dire? La macchia andò via. Come se niente fosse
Eravamo stati nemici per circa dieci minuti e poi… puff, sparita nel nulla.
La vita era una cosa terribile. Ero come Tom senza Jerry o Hitler senza Stalin, il cinema senza YouTube. Svuotato da ogni mio senso d’appartenenza.
Quello stesso giorno uscii all’aria aperta per un paio di minuti e sentii una ricciolina annoiata, davanti al suo cocktail alla fragola, pronunciare questa perla marmorea -Però stare sotto il sole, stanca da Dio.
Kim Jong… ti prego.

Dedicata al nostro amico Salvo Barbaro.

Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore ? | SCRIVERE | di Salvo Barbaro

30 gennaio 2016

Le mani vanno da sole, la testa incrocia pensieri, parole e sentimenti. Le dita affondano sui tasti leggere come quelle di un pianista che incanta la folla con la sua musica.
La stanza è buia, è giorno ma mi faccio luce solo ed esclusivamente con il bagliore del video. Sono le sette e trenta del mattino, è un sabato, fa freddo e tutti qui a casa dormono. Attorno a me il silenzio e la quiete.
La storia ce l’ho nella testa da tanto e in questo momento sembra venir fuori come un parto, come un feto dopo i nove mesi gestazione. Non ho appunti, non ho scritto niente su un quaderno, non ho segnato niente di niente da nessuna parte. Guardo il video, vedo errori e orrori ortografici ma vado avanti imperterrito, senza sosta e senza tregua.
All’improvviso mi fermo, mi alzo e vado in cucina. -Ho bisogno di un caffè.-, mormoro tra me e me. Sembro in trans e mi meraviglio moltissimo del mio parlare da solo.
-Sto perdendo il lume della ragione…- no, ecco, lo sto facendo di nuovo!
Mi preparo un caffè zuccherato, così distolgo lo sguardo e i pensieri dal video. Non è facile, perché fisicamente sono venuto via da lì, ma la mente è sempre proiettata nella mia storia. Mi siedo comodamente sulla sedia, guardo l’ora; quasi le otto e un quarto. Guardo fuori dalla finestra, osservo il cielo grigio e gli alberi spogli.
-Ma che cazzo sto facendo? Anziché trovarmi un lavoro, sono qui a scrivere al computer? E poi a scrivere cosa? Ma che penso di fare l’artista ora? Sono solo un illuso, uno dei tanti che sta su questa terra. Salvatore sveglia! Non si può vivere d’aria!- mi massaggio le tempie e chiudo gli occhi.
Intanto la macchinetta del caffè borbotta, richiamando la mia attenzione. Come per magia appare Giulia alla porta.
-Ciao amore, buongiorno.- mi fa, ancora con gli occhi semi chiusi e stanca morta.
–Buongiorno.- dico freddo.
-Che hai amore, c’è qualcosa che non va stamattina, vero?
Non rispondo, lei però subito intuisce.
-Perché ti sei svegliato così presto? C’è il computer acceso, stai scrivendo qualcosa?
Prendo due tazzine, verso il caffè per tutti e due e mi siedo di fronte a lei.
-Stavo provando a scrivere il racconto di cui ti parlavo. Io a scrivere, buffo vero? Sorrido con sarcasmo.
-Buffo perché Salvo? Non capisco!
-E’ una cazzata quello che sto facendo! Una perdita di tempo che non mi porterà a niente!
Abbasso lo sguardo da vittima, muovendo nervosamente le mascelle.
-Salvo che palle sei! Inizi a fare il negativo su una cosa che non hai neanche cominciato? Parti male così! Lo so è difficile il progetto che hai in testa e in più sei anche senza lavoro, ma le passioni vanno assecondate, hai tempo per coltivarla, non sai dove ti poterà, alle brutte rimarrà solo un piacevole passatempo! Oh, mica stai ammazzando qualcuno? Meglio che stare a rincoglionirsi alla televisione! Io ti consiglio di andare avanti e non essere negativo!
-Non ce la farò mai!
-Salvo, per favore, non fare così, io ho fiducia in te e credo in te! Ti amo, ti amiamo!
Respiro e magicamente accenno ad un lieve sorriso. Dalla vita non potevo avere di meglio. Una donna che mi ama, una famiglia che mi adora e in testa un nuovo-piccolo-progetto-forza-coraggio-a-lavoro.
Mi alzo dalla sedia e la bacio senza dirle nulla. La vedo, mi guarda sorridendo mentre ritorno al computer. Mi siedo, osservo il video e lui guarda me.
A noi due tastiera.

Salvo Barbaro.

Lo Sforzo | Un racconto di Ferdinando de Martino |

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È molto difficile scrivere di cose personali.
Solitamente quando si va ad intaccare la sfera personale ci si trova davanti a due grandi rischi, il primo è quello di truffare il lettore, mentre il secondo (ancora più grave) è quello di truffare se stessi.
Meditare su quali emozioni un racconto dovrebbe far scaturire nell’animo del pubblico è di per sé una truffa bianca, perché ogni pagina deve avere una sua direzione per andare da qualche parte.
Oggi ho deciso d’indirizzare questa pagina verso “lo Sforzo”.
Qualche giorno fa mi trovavo fuori da un locale, seduto ad uno dei tavolini esterni, posizionati al di sotto di un gruppo di ombrelloni verde acqua.
Avevo finito di lavorare da poco ed ogni parte di me si poteva dire stremata. Le mie mani erano stanche, i miei pensieri, i miei occhi, il mio senso del gusto, le mie perversioni, i miei piedi, le mie vertebre e le mie molecole, tutto era stanchezza.
Avevo ordinato un piatto di verdure grigliate e una media chiara e nel mangiare mi sentivo un po’ come un vecchio lupo, impegnato nell’atto del nutrirsi più per sopravvivenza che per fame.
Al tavolo a fianco al mio si sedette un bambino di otto o nove anni circa. A giudicare dal costume da bagno, doveva venire da qualche stabilimento balneare limitrofo.
Posò sul tavolo un quaderno a righe e una penna blu.
Dal nulla apparirono sei bambini della stessa età di quello che mi si era seduto accanto e iniziarono a giocare e chiacchierare ad alta voce, alimentando la mia misantropia a tal punto da iniziare a farmi divagare sulla possibile sterilizzazione del genere umano.
Nulla di trascendentale, è solo che quando esco da lavoro sono sempre nervoso per almeno un paio d’orette.
Tirò giù un sorso di birra e iniziò a guardare il bambino con la penna blu, intento a fare qualche esercizio sul quaderno a righe.
Si stava sforzando, si vedeva chiaramente; probabilmente trovava quell’esercizio particolarmente difficile. Ogni tanto lo sguardo gli cadeva sui bambini che giocavano tutti assieme, mentre lui se ne stava lì seduto a fare un esercizio sul suo quaderno con una penna blu.
Molto spesso sono i dettagli a far cambiare il senso di una storia e il mio dettaglio è che il bambino in questione era affetto dalla sindrome di down.
C’era una differenza incolmabile tra quel bambino seduto al tavolo e quelli che giocavano, schiamazzando sulle mie nevrosi.
Forse parlare di differenza potrebbe sembrare indelicato, ma molto spesso veniamo cresciuti con la convinzione che non ci siano differenze tra gli individui e questo finisce sempre per rovinare irrimediabilmente le persone.
C’è differenza tra un bello e un brutto, esattamente come c’è tra un ricco e un povero, un atleta ed uno storpio.
Quindi risparmiamoci i moralismi da figli dei fiori avvizziti e andiamo avanti.
Quando si parla di differenza, bisogna capire sempre che ciò di cui stiamo parlando diventa effettivamente reale in base al modo in cui la differenza stessa si manifesta.
Quindi, la domanda è: come si manifesta la differenza tra quel bambino e gli altri?
La risposta è una: lo Sforzo.
Vedete, l’uomo è abituato a ragionare non in termini d’ambizione, bensì di successo. Proprio per questo motivo tendiamo ad abbandonare un’ambizione se non la reputiamo in grado di portarci al successo.
Vi faccio un semplice esempio: chi si metterebbe a giocare a pallacanestro con una altezza di un metro e due centimetri?
Nessuno, ovviamente; non perché manchi l’ambizione di giocare a basket, ma per il semplice fatto che in un mondo in cui l’altezza media è il metro e novantadue, quell’ambizione non potrà mai e poi mai portare al successo.
Lo sforzo, in quel caso, sarebbe vano. Un giocatore di un metro e settanta farà uno sforzo incredibile per giocare ai livelli di un giocatore di uno e novantadue, ma potrà farcela, sebbene la sua vita sarà caratterizzata da uno sforzo maggiore è da allenamenti più intensi degli altri. In questo caso lo sforzo che implica l’ambizione di giocare a basket, potrebbe portare un individuo al successo.
L’importante non è arrivare o no al successo, ma il vedere la possibilità d’arrivarci.
Quando il successo diviene palesemente impossibile da raggiungere in un campo, l’uomo abbandona la sua ambizione.
Lo sforzo che stava facendo quel bambino era una tipologia di sforzo che solamente in pochi possono realmente capire, non per una mancanza di sensibilità o empatia, ma per una semplice questione d’appartenenza.
Quel bambino che continuava a guardare gli altri bambini, vedendoli così lontani da poterli quasi indicare come costellazioni inarrivabili, non desiderava altro che la possibilità di rincorrerli, consapevole del fatto che non li avrebbe mai e poi mai raggiunti. Quello è lo Sforzo. Il sapere che tutto ciò che potrai fare nella tua vita è e sarà sempre vacuo, non abbastanza e sempre troppo poco per raggiungere gli altri è un umiliazione che non si può descrivere a parole.
Molti di quelli che staranno leggendo queste righe, avrebbero abbandonato il quaderno e sarebbero andati a buttarsi in acqua, consapevoli che quel esercizio non li avrebbe mai portati da nessuna parte.
Quel bambino non giocherà mai realmente con gli altri, perché il dolore e lo sforzo gli impediranno di godere a pieno le gioie della vita, ma… continuava a sforzarsi su quel quaderno con una caparbietà e una determinazione che mi feriva lo stomaco fin dentro le viscere della mia anima stanca.
Ho evitato di farmi notare nel guardarlo, consapevole del fatto che quando ti ritrovi chiuso in te stesso, gli sguardi fanno male.
Quando decisi di scrivere il mio primo libro, ricevetti molti sguardi che potrebbero riassumersi con una semplice frase: È solamente un tossico. Cosa potrà mai scrivere?
Ecco dove sta lo sforzo. Quando per qualcuno non puoi nemmeno entrare in gara perché sei automaticamente catalogato come outsider, ogni tuo sforzo sarà inutile.
Ed è proprio questo il male, lo sguardo che ferisce più di un proiettile al cervello.
Perché se sei un tossico non ti puoi ripulire per metterti a fare qualcosa che dia vagamente senso alla tua vita, perché nonostante tutto, saranno sempre loro a scegliere cosa potrai e non potrai fare e non lo faranno con dei divieti, ma con dei sorrisi di circostanza.
Il fatto è che i leoni delle nostre circo-stanze, potrebbero circo-uccidervi tutti.
Al tavolo a fianco al mio c’era un bambino che continuava a correre senza muoversi d’un millimetro.
Ho sempre trovato le guerre insensate l’unico atto di coraggio veramente puro.

Ferdinando de Martino.