Ottobre 2016

Diario di uno scrittore psicotico | I demoni parcheggiati | di Ferdinando de Martino

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Terminato un romanzo si passa sempre alla rilettura. È un passaggio obbligatorio.
Torre di controllo, abbiamo un problema.
Leggere il proprio lavoro è un po’ come venire a patti con la fragilità della condizione umana o parcheggiare i propri demoni, almeno per il tempo di una sigaretta.
Anche all’inferno abbiamo bisogno di una boccata d’aria, credetemi.
Non esiste un paragone più azzeccato della vita. Rileggere un manoscritto è come rivivere i ricordi.
Si potrebbe pensare che il passaggio più doloroso sia il vivere o lo scrivere, ma la realtà dei fatti è molto più complicata: il vero dolore è rappresentato dall’analisi del passato.
Pensate al momento più bello o più brutto della vostra vita. Quant’è durato? Un attimo, qualche ora? Quanto l’avete sofferto o amato?
Il problema è che quell’attimo potete prenderlo e riprenderlo tutte le volte che volete, rivivendo ogni secondo, prolungando la durata di una nuova reazione; è lì che il piacere diventa amore e la rabbia diventa odio.
Viviamo in un mare fatto di frasi che avremmo voluto dire e pugni che abbiamo tenuto dentro le tasche e l’unica soluzione per uscirne interi è sempre la stessa: non rivivere e non rileggere.
Forse è proprio per questo che al bancone del bar i ricordi fanno meno male. Allungare le emozioni riesce sempre a diluire i sentimenti.
Facce che avresti voluto accarezzare più spesso e pensieri che avrebbero meritato di finire su carta, questa è la nostra condanna.
Viviamo ai margini di un’esistenza che ci sfiora solo a metà, mentre per il resto tentiamo di colorarla e appesantirla con la nostra visione del mondo.
C’è chi si purifica, chi si sporca e chi non riesce a passare un giorno in solitudine, ci sono gli eremiti e tutti quei tizi che finiscono ad aiutare quella parte del pianeta che piange lacrime più vere. Tutti nella stessa piazza mentale a cercare di non impazzire.
Rileggere e rivivere… che gran fregatura.
Cerchi come un ossesso delle granate nelle tue stesse parole, per ferire il lettore o forse te stesso e ti ritrovi sempre a far saltare in aria qualcosa di vecchio o prolisso.
Torre di controllo, forse ci siamo veramente persi mentre fingevamo di smarrire i nostri ideali, sacrificandoli a qualche neo-divinità-momentanea da appendere al muro o al cruscotto d’una macchina, sperando che ci protegga quando qualcuno vorrà farci quello che non vorrebbe fare a se stesso.
Il mondo brucia e noi, come dei piromani con mezzo cervello, rimaniamo immobili ad osservare quel magnifico spettacolo che solo la distruzione è in grado di regalarci.
Se non rileggessimo le nostre parole, forse perderemmo anche la capacità di commuoverci.

Ferdinando de Martino.

BRUXISMO | Un racconto di Emil Brune

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La tapparella si alza di scatto con un fracasso da circo e la luce di una qualsiasi mattina inoltrata mi violenta le cornee. Strizzo tra le dita il piumone sbuffando incazzato.

– Alzati, coglione – sbraita Roberta uscendo dalla stanza

Senza preoccuparmi troppo di togliere la faccia dal cuscino le bofonchio di andare a farsi fottere. Speriamo che il suono si sia propagato comunque e l’abbia raggiunta.
“Se solo avessi la telepatia”.
Sciacqua faccia. Radi. Lava l’involucro. Dirigiti – velocità da crociera – verso la cucina per pasto frugale.
Pilota automatico: gran sballo.
Invado la zona fornelli e bacio mia madre

– Ave Mater
– Ave figlio. Frittata? – risponde alzando gli occhi cielo. Non lo ammetterà mai, ma la diverto un mondo. Sappiamo entrambi che è così.
– Mancata prole di pollame, perché no. Mettiamoci anche delle fette di suino, crepi l’avarizia. Un bell’eccidio multirazziale per cominciare l’uggioso giorno – declamo sorridendo.

Mentre si volta verso il frigo per prendere il necessario, abbasso i pantaloni del pigiama, guardo Roberta seduta al tavolo col naso tra i cereali, le mostro la schiena e sussurro un – baaaciamelo – porgendole le natiche nude. Mi guarda con aria divertita sventagliandomi in faccia il medio.
Dolce routine quotidiana. Anche se non sono rotto, mi accomodo a tavola e aspetto il lieto convivio. Con lo sguardo perso nel vuoto, ancora preda del torpore del sonno, avverto una vibrazione sottile che anima il pavimento. Percepisco un rumore in avvicinamento, senza riuscire ad identificarlo. A questo punto mia madre ha smesso di cucinare. Se ne sta lì, impietrita, col mestolo in mano, a guardare noi due.
Nessuno parla. Le uova carbonizzano nerastre.
Dalla porta a vetri della cucina ho una comoda visuale sulla strada. Vedo un’onda dirigersi verso di noi dall’orizzonte. La sento arrivare. Il rombo aumenta. Si espande in ogni direzione mentre segue il suo cammino verso casa nostra, inghiottendo ogni cosa. Bidoni dell’immondizia, pali, cassette delle lettere e passanti spariscono sotto la sua mole. Divora tutto e tutti.
La vedono anche Roberta e mamma. Urlano. Si urla sempre di fronte all’incomprensibile. Davanti all’orrore sfocato non si rinuncia mai a svuotare i polmoni.
Io no.
Resto lì, impalato. Non ho neppure il battito accelerato. Però…cazzo che male in bocca. Sento lo smalto liscio che sfrega.

Cani. Sono…cani. A centinaia, forse migliaia. Di qualsiasi foggia, razza e dimensione. Mastini con bocche ringhianti, Volpini caracollanti che finiscono per essere schiacciati dalla corsa dei Dobermann. Chiwawa rigurgitanti saliva cavalcano Pastori Maremmani come ussari alla carica. È un incendio di peli che nessun canadair potrà mai spegnere. La piena di un fiume pulcioso che, alla fine, si schianta contro la nostra vetrata.
Mia mamma grida di scappare. Di uscire di là. Roberta trema inerme. Io osservo interessato. Placido.
Ma la mandibola inferiore cozza e sfrega con quella di sopra.
“Fanculo che fastidio”.
Ho giusto il tempo di sentire lo schianto di cristalli in frantumi e vedere il volto di mia madre sparire tra le fauci di un Dogue De Bordeaux per poi ritrovarmi in strada.
Non ho idea di come ci sia arrivato. La torma di cani è un ricordo remoto, sfocato, come un sogno raccontatomi da un estraneo un’eternità fa. Mentre eravamo marci d’alcool, per giunta.
Strana sensazione.
Non dovrei essere nervoso, ma le ossa da grugno digrignano e cozzano fra loro. Le sento sbriciolarsi fino a raggiungere la polpa. Me ne rendo conto ma non posso fermarlo. Non sono io a tirare le redini.

Non avrò il controllo della bocca ma, a quanto pare, mi è ancora permesso avanzare. Quindi lo faccio. 
M’inoltro verso ovest sul vialetto ordinato. Dopo pochi passi incontro il vicino, il signor chisseloricorda, che innaffia il prato dietro il suo steccato color ‘celeste sogno di fata’.
Che nome stronzo.
– Ma buongiorno, mio giovane amico! – mi trombetta giulivo sotto i baffoni bianchi.
– ‘Giorno – rispondo vago mentre cerco di tirar dritto.
– Ma dove corre così veloce, caro ragazzo? Sì fermi per una tazza di tè…o per una limonata, se preferisce – mentre il suo pancione si svuota d’aria scorreggiando parole, ho l’impressione che qualcosa nella sua voce stia mutando innaturalmente.
– No, grazie, sono di fretta – butto lì allungando il passo.
– Ma lei ha appena avuto una forte scrollata canina presso il suo domicilio! Un’imponente precipitazione canide di livello otto –
Cazzo. Cazzo, merda, cazzo. Merda, cazzo e poi merda. La sua voce…è quella di una bambina. Come se parlasse in falsetto. Un maledetto eunuco da opera.
Per la seconda volta, il mio corpo reagisce alla paura in maniera scoordinata: niente palpitazioni o sudori.
Ma, in compenso, ricevo in premio una scarica di agonia sui quattro incisivi.
“Quasi mi mancava”, penso ironico mentre metto la mano sulla bocca, instupidito dal dolore.

– E poi… non vede che ha i denti a pezzi? Suvvia, sia ragionevole, e si accomodi nel mio domicilio. Da bravo, vedremo di contattare subito un dentista e, mentre aspettiamo, potrebbe bere una limonata ghiacciata seduto sulle mie ginocchia! Che ne dice? – miagola sornione con quella vocetta da bimbetta.

Subito dopo, giuro su dio, quel tricheco bastardo mi fa l’occhietto. Apro la bocca per dirgli che la limonata può infilarsela dove l’aria passa di rado ma, come spalanco le fauci, schegge perlacee e sangue vermiglio saettano ovunque.
Schizzi imporporati toccano il suolo mischiandosi alla polvere. Frammenti d’ebano decorano i ciuffi dell’erba ammaestrata dal flebile vento autunnale.
Urlo. Finalmente urlo.

Alzo il busto dal materasso che sto ancora gridando.
Madre e sorella frullano per la stanza come robottini impazziti chiedendomi se sto bene.
– Tutto okay. Solo uno strano incubo. Non ricordo granché – borbotto.
E vai col pilota automatico. Lava l’involucro. Sbarba le guance. Spazzola la dentatura indolenzita.
Poi, finalmente, l’itinerario prestabilito fino alle uova nel piatto.
Incomincio a carburare e riprendo energia. Lo strascico nerastro di quella follia notturna abbandona il mio cervello, così come il formicolio in bocca.
Mi scrollo di dosso i vaghi incubi della notte precedente, ricordando solo l’agonia dei denti spezzati.

Routine, dolce routine. Il percorso nel mondo degli automi, le lezioni e i caffè, le sigarette in compagnia di discorsi da sagra di quartiere e il chiacchiericcio di sottofondo. Il bla bla bla che arricchisce noi tutti, sfarzosi poveri di idiozia e noia.

Sono in uno stanzone piastrellato in bianco. La luce al neon sopra il tavolone di metallo si riflette sulle mattonelle delle pareti dando vita a un’atmosfera da fantascienza. Addosso ai muri si appoggiano mensole metalliche abitate da strumenti operatori. Storti arnesi da tortura si affacciano dagli scaffali. Becchi arcuati, pinze seghettate, vaschette metalliche e punteruoli mi osservano algidi.
Mia madre è appena uscita, lasciandomi solo con quel corpo livido: sul tavolaccio autoptico riposa quella che fino a dodici ore prima era mia nonna.
Mi avvicino a lei e sfioro appena quelle dita che non potranno più accarezzarmi. Guardandola, comincio a elencare mentalmente tutto ciò che mi è stato strappato via con la sua morte. Se ne vanno i ricordi, alcuni condivisi, altri, per me troppo lontani da raggiungere. Persi nella memoria del bambino che sono stato.
Se ne vanno assieme a questo corpo grigio e stanco.
Spariscono i racconti del passato e libri letti assieme. Non ci saranno più Sir Conan Doyle, Edmond Dàntes o Martin Eden. Le loro storie non prenderanno più forma attraverso la sua voce.
Ne resterà il ricordo, forse.
La realtà intorno a me è vacua e torbida. Confusa. Dentro quel corpo non c’è più nulla. Solo organi inerti, liquidi e gas che presto evaderanno dalle cavità senza alcuna cura o gentilezza: il dispetto finale.
Le accarezzo i capelli e – abituato come sono a vederglieli cadere sulle spalle in eleganti boccoli rossicci – mi fa strano sentirli passare fra le dita. Sono stopposi, sfilacciati e lisci.
Compiere quel gesto inusuale mi frantuma.
“Quale nipote accarezza i capelli della propria nonna?”
Non ha senso. Tutto questo è semplicemente…sbagliato.
“Non voglio che te ne vada”.
Il canino destro mi fulmina con un picco di agonia lancinante.
Per una frazione di secondo socchiudo gli occhi, in attesa che il dolore passi e, quando li riapro, la sua testa è piegata su un lato, verso di me. Mi osserva, silenziosa. La morsa d’acciaio dell’ansia stritola i miei polmoni. “Dev’essere un sogno. Deve esserlo”.
Poi, sorride. Stordito, le sorrido di rimando.

– Ma…che…ma che diavolo succede?
– Shh, da bravo. Fatti dare un’occhiata prima di andare.
– Ti voglio bene, nonna – sussurro con un alito di voce al cui interno c’è tutto me stesso.

Quegli occhi nocciola, che sono anche i miei, mi regalano un ultimo saluto. Nelle loro profondità c’è l’amore abissale, che non teme né le ingiurie del tempo né l’eternità della morte. Desidererei che potesse restare qui, per sempre, ma mentre rimette la testa in posizione e chiude gli occhi, so che non le è permesso. Deve rispondere – come tutti – al comando più grande. Così la lascio andare.
La luce del neon traballa mentre piango. Mi inginocchio continuando a stringere la sua mano gelida.
“Non andare. Non ora. Resta con me”.
Il neon smette di sfarfallare. Tra le lacrime che mi offuscano la vista, osservo il mio canino insanguinato sul pavimento.

Lanciando via le coperte sudate, sento ancora addosso il peso una tristezza ignobile. Di quella malinconia bastarda che si intorbidisce nel cuore. I miei denti sono in fiamme, poi, ricomincia lo show: via la barba, lava il sottobraccio, sciacqua il volto. Trascinati – come lo zombi che sei – verso tristi fiocchi d’avena.
Mentre mangio, guardo il muro, apparentemente disconnesso.

– Stanotte ho sognato nonna – annuncio cupo.
– Capita a tutti, credo – risponde Roberta senza alzare lo sguardo.

Stramaledetta routine. Perdi la cognizione del tempo e dello spazio. Stessi luoghi, stessi volti. Inabissati negli schermi sociali, perdi quotidianamente la dignità esibendoti come un pavone daltonico. Rinuncia a serenità e al desiderio di contatto. E allora vai, cammina tronfio, ostentando apparenza. Incazzati come un demonio quando la cassetta degli attrezzi non si chiude più. Cacciaviti, tenaglie e brugole non ritornano docilmente al loro posto, quasi fossero i pezzi sconnessi della tua vita.
Apro internet e navigo tra sogni di denti. Nulla di buono: lutto, mancanza, morte di persone care e via dicendo. “Ottimo. Non potevo desiderare di meglio”.
Denti. Denti. Denti.
Continuo coi miei sogni di dentina in frantumi e polpa esposta e sanguinante. Sento l’aria gelida scorrermi tra i tronconi dei cadaveri bianchi che ho in bocca. Notte dopo notte.

Sono in uno spazio buio. Passo la mano davanti agli occhi ma non riesco a vederla. Provo ad alzarmi, ma non ci riesco. C’è un muro a trenta centimetri dal mio corpo. Sono disteso fra due pareti d’acciaio.
Poi, cristo, una forza mostruosa mi scaraventa all’incazzata a destra e poi a sinistra, manco fossi in una centrifuga. Sento nuca e schiena sfregare sul pavimento mentre brandelli di carne prendono commiato dal mio corpo. Va avanti così per un tempo senza limite.
Dopo di che, pesanti – e colorate – forme geometriche cominciano a lampeggiare nell’oscurità. Mi vengono bruscamente incontro, per poi fermarsi immediatamente davanti agli occhi.
“Mi schiacceranno. Cazzo, mi spappoleranno al suolo. Mi disintegreranno”.
La bocca mi viene spalancata a forza. Qualcosa di cilindrico e zigrinato mi scava fra le labbra: ho decisamente un tubo tra i denti. Vengo sballottato così, senza sosta, a destra e sinistra. Il dolore è insensato. Sento i denti disintegrarsi per lo sfregamento abrasivo. Proprio quando penso di stare per morire dall’agonia, la forza si placa, lasciandomi sospeso in quell’incubo nero.
Respiro all’impazzata per lo shock. Nuove corone spuntano espellendo i monconi insanguinati. Poi ricomincia. Lancette invisibili scorrono incalcolabilmente durante la tortura. Svengo. Non sento più nulla.
Quando riprendo i sensi sono ancora avvolto dal buio. Vorrei urlare, ma non posso: i denti sono ormai troppo lunghi per permettere alla mascella di articolare qualsiasi movimento.

Mi sveglio e sono sereno. Tutto è passato non appena ho aperto gli occhi. Niente dolore sulle arcate, né ansia o preoccupazione alcuna.
Io sono lexotan.
Mi alzo a fatica, ma riesco comunque a mettermi seduto, nonostante le braccia mi strozzino il torace.
Non ci sono più quadretti con volti sorridenti alle pareti. Niente computer, bandiere, foto, boccali da birra o sorelle che mi svegliano scherzando. La luce dell’alba che filtra attraverso la grata della finestra illumina un paio di pantofole bianche e spente pareti grigiastre.
Nel mio abbraccio forzato, con le mani appena sotto le scapole, mi osservo allo specchio.
Le cinghie tintinnano.
Guardo le mie labbra distrutte, poi…spalanco. Scruto nelle ritmiche cavità, e mi dò il buongiorno col mio migliore – e roseo – sorriso.
Finalmente sono libero.

 

Emil Brune

SPAVENTACI | Sei un autore horror ? Dimostracelo con un racconto | Stiamo cercando te |

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Sei un autore horror? Credi di avere dei racconti validi?

Sei stanco delle case editrici che rifiutano i racconti? Forse facciamo al caso tuo.

Inviaci un racconto e noi dell’infernale lo leggeremo con attenzione, valutandolo minuziosamente per un’eventuale proposta di pubblicazione con la sezione editoriale del nostro blog.

Tu dacci una storia convincente e noi valuteremo un’intera raccolta.

Credere nel web e nell’editoria giovane e nuova è una ragione di vita.

SPAVENTACI è l’opportunità che stavi aspettando.

Invia una mail a ferdidioniso@gmail.com specificando SPAVENTACI come oggetto e verrete ricontattati  in ogni caso.

Fatevi avanti…

Ferdinando de Martino (Direttore editoriale)

 

COME NASCE UNO SCRITTORE | Estate |di Salvo Barbaro

17 settembre 2011

L’estate sta finendo. Prendo spunto da una famosa e ridicola canzone degli anni ottanta. Sono triste, non perché la stagione volge al termine, anzi per questo sono strafelice. Ho sempre odiato l’estate. Odio il sole, l’acqua salata del mare, le spiagge affollate di domenica mattina, le urla, la sabbia, gli ombrelloni, camminare a dorso nudo sotto il sole cocente e bruciarsi solo per far vedere che la tua pelle cambia colore diventando più nera. Mi sta sulle palle fare chilometri di fila chiuso in macchina e arrivare al mare già esausto e nervoso, poi dopo tre ore rimettermi in auto, bestemmiare perché c’è fila, innervosirmi per un niente e arrivare a casa ustionato sulle spalle con neanche una stramaledetta pomata dopo-sole. Fisime. Tutti mi dicono che le mie sono solo fisime. I miei amici non vedono l’ora di buttarsi in quei cessi a cielo aperto, in cui l’acqua brulica di rifiuti tossici. Sono esagerato lo so, ma allora perché non ti fai una doccia refrigerante a casa tua? Un bagno nella tua bella vasca e intanto prendi un bel libro, lo sfogli e aumenti di sana pianta i tuoi orizzonti culturali?
-Dai muovi quel culo flaccido e vieni con noi, ne approfittiamo per berci delle birre e ubriacarci in cerca di qualche sventola per divertirci un po’!
-No, andate voi, preferisco stare a casa e riposare!
Questo è il solito dialogo. La solita routine. Ho un fisico che fa schifo, ho la pancia, i fianchi sporgenti e le ragazze “estive” cercano l’uomo con la tartaruga, l’italiano medio tatuato con gli occhiali a specchio che si abbronza rischiando un’insolazione. Poi ci sono quei bar abbelliti con palme e fesserie varie che vorrebbero far somigliare il tutto a posti caraibici, casse enormi che sparano musica da discoteca a manetta dove bevi degli intrugli colorati, ti stoni e non capisci nulla, balli e tutto il mondo ti sorride, chiacchieri con una e non sai nemmeno cosa dici. Sarò paradossale e rompiscatole, ma il mio pensiero è questo. La odio punto e basta.
Sono triste perché non lavoro. Sono rimasto solo, sì, solo contro tutti. I miei con il loro bigottismo estremo non capiscono nulla, V. è volutamente sparita dalla mia scena e mi sento una nullità. Sono seduto al tavolino di un bar. Ho davanti una birra e penso. Penso a cosa farò “da grande”, o meglio a cosa vorrei fare. Mi scruto dentro, scavo nei miei ricordi e nel mio animo. Non ho una qualifica, non ho una laurea, non so fare niente di particolare. Non ho mai viaggiato, non conosco Avellino figuriamoci un’altra città dell’Italia o del pianeta. Il mondo non mi appartiene. Bevo, butto giù un’altra birra gelata, e poi un’altra e un’altra ancora. La mia testa inizia a girare. Si ferma. Smette di pensare. Mi piace questa sensazione, ma in fondo la odio. Non mi piace questo star bene senza riflettere, senza un modo per cui essere felice. Il nulla oggi mi appartiene. Cerco di alzarmi dalla sedia. Mi guardo intorno e vedo il fallimento più totale. Vedo il mio quartiere, anche il nome fa cagare. FERROVIA si chiama. L’hanno chiamata così perché è l’unica stazione dei treni di Avellino. Paradossale ma vero. Passa un treno ogni tanto, uno ogni due ore, stessa tappa, stessa gente, stessi capostazione, stesse facce, stessi poliziotti che non controllano nulla di nulla. Lo specchio del sud che funziona male e dell’Italia che guarda in alto.
Mi gira la testa, sono ubriaco, vado via, vado a casa. No, meglio di no. A casa basta un minimo odore di alcol che ti marchiano come drogato e ubriacone per l’eternità. Prendo l’auto. No, peggio ancora. Mi fermo, mi volto indietro, mi rimetto seduto al tavolino e mi prendo un’altra birra. Sorrido fingendo che tutto vada per il verso giusto.

Salvo Barbaro.

Non facciamo ridere William | scriviamo con la testa | di Ferdinando de Martino

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Abbiamo perso la bussola da troppo tempo e non ci rimane che l’eco lontana di un tempo in cui gli scrittori avevano anche le palle e non solo le parole.

Lo scrittore non dovrebbe mai guardare indietro, esattamente come non dovrebbe guardare avanti; il compito di chi scrive è e sempre sarà, quello di perpetuare il momento.

Oggi voglio parlare di vuotezza, partendo da un personaggio che di vuoto non aveva niente: William S. Burroughs.

Lo scrittore che nella foto qui sopra, assieme a Ginsberg, riesce a mettere in secondo piano anche un giovane e bellissimo Leonardo Di Caprio che si nota appena dietro le sue spalle.

Leo ha gli occhiali sulla testa, il colorito pallido-anni 90 e l’atteggiamento di chi non passerà mai una notte da solo, eppure tutti guardano Burroughs. Perchè? Uno scrittore andrebbe letto e non guardato, esattamente come una modella andrebbe guardata e non letta.

L’attenzione è focalizzata su di lui, esattamente come l’obbiettivo della macchina fotografica e l’ammirazione di Leonardo Di Caprio.

Il caso vuole che Leonardo Di Caprio sia diventato un mostro sacro della recitazione e un attivista rompicoglioni di proporzioni bibliche, quando potrebbe tranquillamente passare le sue giornate a bere tequila dal ventre piatto di Rihanna.

Ecco, come ha fatto la vuotezza di Hollywood a perdere il suo ascendente ammaliante sul giovane Leo? Io credo che il vecchietto della foto sia parte integrante di questo percorso.

Burroughs era tutt’altro che un vegano ambientalista… stiamo pur sempre parlando di un uomo che ha ucciso la moglie con un colpo di fucile, mentre fatto di amfetamine cercava di colpire una mela sulla sua testa. Tuttavia l’attenzione e l’ammirazione della classe artistica americana ha sempre idolatrato questo buffo personaggio-scrittore-tossicomane.

Io credo che la risposta al grande interrogativo si possa notare nel sorriso pitturato sul volto di Di Caprio. Un sorriso del genere dovrebbe appartenere all’ambito -Ehi… oggi ho rimorchiato Kate Moss.-, invece in Leonardo Di Caprio rappresentava un semplice -Sono qui con una delle menti più brillanti del secolo, solamente perchè grazie al mio bel visino sono riuscito ad arrivare al tavolo di un bel cervello. Forse è arrivato il momento di coltivare anche la mia materia grigia.

Sono sicuro che la frequentazione di questo vecchietto, corteggiato da tutti i campi artistici abbia influito su moltissimi artisti per la pienezza della parola… anche quando viene relegata al mondo dell’astrattismo.

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Abbiamo bisogno di queste facce, non per riscrivere la storia del mondo, ma per poter imparare da qualcuno, in un periodo storico in cui non sono gli allievi a mancare, ma i maestri.

Continuando in questo baratro di niente mischiato a reality-show, mischiati a loro volta col nulla, finiremo per far ridere Burroughs.

Bisogna fare come Leonardo Di Caprio, smettiamo di coltivare il nostro bel visino, ingrassiamo un po’ e iniziamo ad ascoltare William, nel caso ne trovassimo uno.

Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore | IL GIORNO DEI GIORNI | di Salvo Barbaro

agosto 2015

-Salvo, penso che ci siamo!
Giulia si sta rivoltando nel letto da ore. Sono quasi le nove, fa caldo e le doglie iniziano a farsi sentire.
-Come? Di già? Ma non è presto? Cioè, il ginecologo ha detto verso il dieci!
-Salvo, si vede che Elena vuole nascere oggi! – mi dice ansimando Giulia.
Mi catapulto dal letto in un secondo. Mi vesto, vado in bagno. In un attimo sono pronto, agitato più che mai, in preda ad emozioni uniche e indescrivibili.
-Come stai? – le chiedo ogni cinque minuti.
Giulia a fatica cerca di prepararsi. Ogni tanto mi guarda e mi rassicura. Il trolley è pronto da giorni, Vieri, ignaro, guarda la tv in salotto. Si affaccia spesso alla porta della stanza per scrutare i nostri movimenti.
-Che fate? – chiede.
-Andiamo in ospedale amore, la sorella ha deciso di nascere! – gli fa Giulia.
-Sei emozionato? – gli chiedo io, accarezzandolo.
-No, sono normalissimo! Sono più emozionato che viene nonno a stare con me!
Freddo, spietato, sincero. Vieri sa come gira il mondo.
Arriva mio suocero. È più agitato di me, ma non lo dà tanto a vedere.
Ci siamo, il giorno tanto atteso è arrivato. Il mio cuore batte forte, sembra un martello pneumatico che scava dentro il pavimento dei ricordi. Penso a quando ero piccolo, alla mia infanzia, al giorno in cui sono arrivato a Firenze in preda a stupidi paure, la vita mi scorre davanti senza tregua, senza freni.
-Andiamo Salvo! – mi fa Giulia che a stento riesce a camminare.
-Chiamo l’autoambulanza? Chiamo il dottore? Ce la fai?
Lei mi fulmina con lo guardo.
–Ma che autoambulanza, dai, muoviti amore, non perdiamo tempo!
Annuisco, prendo il trolley e accompagno Giulia in macchina.
Il tragitto è silenzioso. Vado adagio con l’auto, con un occhio puntato alla strada e l’altro a Giulia, che quasi distesa, respira profondamente.
Arriviamo in ospedale. Visitano Giulia. Ecco, non è un falso allarme. Ci siamo per davvero, la piccola Elena si sta facendo strada.
Ci danno la camera. Oggi l’ospedale è strapieno. Un’infermiera sorridendo ci fa, -Mamma, papà, mezza Firenze ha deciso di nascere oggi!
Giulia continua a sudare in preda ai dolori. Io sorrido amaro pensando tra me e me, -Andiamo bene!
I dolori aumentano. Giulia strilla, sembra la ragazzina del film L’esorcista. Si contorce nel letto e le tengo la mano forte. Sudo, ho paura. Ad ogni strillo sobbalzo innervosito. Premo il pulsante per chiamare l’infermiera. Nulla, non arriva nessuno. Ripremo. Finalmente qualcuna si degna. Una ragazza visibilmente annoiata in camice azzurro, capello lungo e trucco accentuato, tipico portamento da infermiera professionale, apre la porta della stanza, -Desiderate?
Desiderate? Ma che stiamo al bar? Desiderate?
D’istinto mi viene da dire, -Un caffè per me e una camomilla per Giulia! – ma desisto. Faccio solo intendere che è arrivato il momento. Lei con tutta calma mi ripete che mezza Firenze oggi partorisce e io mi inizio ad innervosire. Le sale sono piene e dobbiamo pazientare un pochino.
Dopo mezz’ora, quando ho premuto il pulsante già per la dodicesima volta, arrivano altre due infermiere in camera. Vedono Giulia, si guardano negli occhi. –Ci siamo, portiamola giù! – fa una di queste.
Sala parto. Una decina di stanze. Si sentono le urla delle donne. Un corridoio lungo. C’è uno strano odore, paura mista a gioia. Gli uomini che sono lì hanno tutti la stessa espressione. Sorriso stralunato e la mente altrove. Tutti, ma proprio tutti pensano -Menomale non siamo donne! Per fortuna non dobbiamo sentire questo dolore atroce!-
Ci fanno accomodare in una stanza poco illuminata. Monitorano il pancione. Ci siamo. Le infermiere, tre per l’esattezza, si alternano a consolare Giulia, che in preda ai dolori e agli strilli, davvero sembra essere esausta. Sono quasi le due e trenta del pomeriggio e questo gioioso calvario dura da più di cinque ore.
Cambia posizione più volte. In piedi. Pancia in giù. Pancia in su. Di lato. Carponi. Seduta. Giulia urla, le tengo la mano che me la stringe quasi a frantumarla. Ecco ci siamo. Le infermiere si agitano. Io la guardo. Mi perdo con la testa e lo sguardo è sempre rivolto a lei. Poi all’improvviso un’infermiera mi strattona per un braccio.
-Papà sveglia! Ecco, goditi questo momento unico e raro!
Mi affaccio. Una meraviglia. Sembra retorica, ma la natura è davvero straordinaria. Il pianto di Elena si sente. Sta bene e quando l’appoggiano al petto di Giulia, finalmente mi libero in un pianto di gioia. La bambina è bellissima. La scena è stupenda. Come un’ebete la immortalo al cellulare e invio la foto a tutti.
Dopo due secondi il telefono mi squilla, sono i miei che mi chiamano. Rispondo tra le occhiatacce e i rimproveri di tutti. Dall’altro capo del telefono mio padre piange, anzi sembra guaire, mi dice che mia madre stava svenendo dalla gioia. Penso che la loro reazione come al solito sia inadeguata e stupida. Va bene la gioia per la loro prima nipote, ma tutto questo clamore lo vedo molto esagerato. Come sempre vogliono essere loro i protagonisti di tutto. Ma oggi non ci sono riusciti. Oggi è il mio giorno. Il giorno mio, di Giulia, Vieri e Elena. Benvenuta amore mio!

Salvo Barbaro.

Bob Dylan e gli hooligans della letteratura | Nobel o non Nobel | di Ferdinando de Martino

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Ho aspettato un po’ prima di discutere del Nobel per la letteratura assegnato a Bob Dylan, non perchè non avessi un’opinione a riguardo, bensì perchè volevo rassettare ben bene le idee prima di esporre il mio giudizio su di una faccenda che ha scomodato le più argute menti del nostro secolo.

L’entourage del Nobel ha unto Dylan con il suo premio più ambito e il putiferio del mondo letterario ha scatenato una serie di polemiche senza precedenti. Solitamente si discute di sport o di politica e mai di letteratura, quindi voglio svelare un segreto a chi non frequenta da vicino gli scrittori: solitamente chi scrive è una merda.

Credetemi, non è retorica.  Scrivere implica molta solitudine e la solitudine genera quasi sempre un forte senso d’inadeguatezza nell’uomo; da questo senso nasce l’irritabilità e la suscettibilità dello scrittore, seconda solo a quella delle modelle di Vogue. L’unica differenza è che per fare incazzare una modella basta dire -Sei grassa.-, mentre per far incazzare uno scrittore basta essere uno scrittore.

Tra chi si diletta nella scrittura non esiste invidia o gelosia, quanto più una forma d’odio simile a quella manifestata dai nobili settecenteschi, tutti imbellettati e profumati. Sono passati i tempi in cui Burroughs uccideva sua moglie con una pistola, cercando di colpire la mela sulla sua testa e, credetemi, per quanto possa sembrare strano, rimpiango quei tempi.

C’è stato un periodo in cui gli scrittori avevano ancora le palle.

Ma veniamo a Dylan. Cercherò di non essere troppo di parte, nonostante la mia passione per il cantautore americano.

Il Nobel a Dylan è stata una lezione non agli scrittori o all’editoria, bensì a tutti i “cicisbei ” del mondo accademico.

Partiamo dalla discussione lanciata da Baricco. Dare il Nobel per la letteratura ad un cantante è come far vincere il Festivalbar ad un meccanico… no, non è proprio così.

Sfido chiunque a leggere un testo di Dylan dopo aver letto una qualsiasi opera di Ginsberg, senza trovare forti analogie stilistiche.

Nessuno dovrebbe scandalizzarsi per un Nobel ad un poeta e un poeta è esattamente l’aggettivo più azzeccato per descrivere Dylan. Non è una questione di ruolo, ma capirete da soli che in un universo in cui Marco Mengoni è un cantante, non possiamo di certo definire cantante anche Fabrizio De Andrè, perchè dopotutto qualche piccolo valore aggiunto bisogna pur smarcarlo davanti al talento, no?

Ora, passiamo ad altro. Gli scrittori che avrebbero potuto vincere il premio, scrivono per case editrici che pubblicano prevalentemente merda. Per merda s’intende il libro dello youtuber scoreggione, il libro della youtuber truccatrice, il libro dello youtuber che limona al parco e via dicendo.

Dare un premio nobel ad uno scrittore genera un effetto domino che termina sempre in una gara a chi piscia più lontano con gli altri editori.

Purtroppo le case editrici si sono sputtanate a tal punto che i loro scrittori (bravissimi senza dubbio) non possono e non potranno mai ricevere un premio, perchè la loro scuderia di colleghi sarà sempre piena di ragazzini scoreggioni.

La regola è la seguente: no scoregge, no Nobel.

In ultimo, analizziamo la lezione di Bob Dylan, rinomato stronzo di prima categoria.

Baricco inveisce contro di te, il comitato vuole darti il Nobel, ogni  testata venderebbe un rene per intervistati e tu che fai? Semplice. Ti accendi una bella canna e te ne fotti.

Dylan se ne fotte, esattamente come se n’è sempre fottuto.

A livello artistico ha fatto più Bob Dylan per la letteratura negli ultimi trent’anni che la maggior parte degli scrittori contemporanei, ma l’ha fatto sempre fottendosene alla grande.

Tutti lo odiano e nessuno può realmente capire il suo genio e la sua tremenda e disarmante contemporaneità.

Dylan è talmente superiore al Nobel e alle diatribe tra scrittori che non ha nemmeno detto la sua a riguardo, non ha ritirato il premio e sicuramente se la starà ridendo assieme ai suoi amici, strimpellando con la sua armonica.

La grande lezione che ha dato agli accademici è il silenzio, sinonimo del nulla. Lo stesso nulla che rappresenta l’editoria quando si parla di letteratura.

Ferdinando de Martino

BAGURU | un racconto di Emil Brune |

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Ogni volta che si ritrovava seduto sulle sedie a muro del negozio aveva l’impressione di stare in un corridoio invece che in una dannatissima agenzia immobiliare. Gli spazi chiusi di Osaka erano fondamentalmente tutti uguali. Almeno per lui. Appartamenti, bar, negozi, e persino i ristoranti dove si serve il fugu – il famigerato pesce palla velenoso – sembravano essere più simili a delle scatolette piuttosto che a dei luoghi di ritrovo. Claustrofobici contenitori fatti di cemento, legno e carta di riso.
Ad ogni modo, se ne stava seduto lì, aspettando che la signora Noriko gli desse delle indicazioni di sorta sul suo incarico giornaliero. Quando arrivò dall’ufficio del grande boss, Mr. Sakamura, le uniche parole che riuscì a cogliere furono – Ispezione in Dōtonbori. Appartamento in grosso palazzo – poi ci furono un paio di frasi che non riuscì assolutamente a decifrare (aveva isolato qualche vocabolo qua e là. ‘Problema’ era uno. Ed era quasi sicuro di aver afferrato di alcuni ‘sbalzi elettrici’). Cercò di farsi spiegare meglio il succo del discorso ma, ancor prima che potesse capire cosa stesse succedendo, la nanerottola gialla lo aveva spinto fuori mettendogli in mano una chiave e un foglietto senza neanche la premura di un cazzo di domo arigato. 
Era in Giappone da quasi un anno e mezzo. Aveva cominciato a lavorare come lavapiatti in un piccolo sushi bar e lì si era conquistato i rudimenti della lingua. Prima di trasferirsi dal vecchio continente non aveva mai parlato una parola di giapponese, così, nonostante il tempo trascorso, aveva ancora delle evidenti difficoltà di linguaggio.
Mentre scendeva i gradini della metro per raggiungere la zona di Dōtonbori – una delle più caotiche della città – il sole stava andando a morire pigramente tra i grattacieli zeppi di formichine laboriose che, di lì a breve, avrebbero abbandonato i loro box e uffici. A quel punto, questi esserini tarantolati avrebbero cominciato la migrazione verso le zone residenziali della città, o si sarebbero semplicemente riversati in quel gigantesco organismo pulsante che erano le vie del centro.
Quando raggiunse la sua fermata nel ‘regno della cucina nipponica’ – o almeno era ciò che recitavano le guide turistiche a proposito del quartiere – c’era già un’oscurità da notte fonda. Le luci delle insegne e dei neon all’interno dei negozi illuminavano a giorno le strade. Nonostante ciò, alzando lo sguardo al cielo, riuscì a vedere il sottile spicchio di Luna che gli sorrideva col sorriso dello Stregatto. 
Anche dopo tutto il tempo passato lì, non si era ancora abituato alla città che sembrava non conoscere il concetto di sonno. Ogni gesto, dialogo, scopata mercenaria ed ogni fottuto pasto erano accompagnati da un rumore, da un suono della strada o uno stramaledetto vociare di sottofondo. Non importa quale altissimo palazzo riuscisse a scalare o quanti vetri doppi ci fossero alle finestre: ad Osaka si vive e si muore nel rumore.
E l’insonnia diventa una malattia. Come un linfoma che si aggrappa al tuo cervello rosicchiandolo piano. Pezzo dopo pezzo.
Da quando aveva cominciato a lavorare per l’agenzia Sakamura era stato costretto a rinunciare alla possibilità di custodire una cognizione del tempo regolare. Orari lavorativi che gli permettessero di stabilire un confine netto fra notte e giorno, ieri o domani, erano pura utopia. I padroni incontrastati delle sue ore erano quei due tizi con gli occhi a mandorla e il suo cellulare. Ogni volta che squillava, signorsì, doveva farsi trovare pronto. Per lo più era un lavoro da ritardati. Si trattava di piccole mansioni legate ad appartamenti da affittare o vendere. Ispezioni, controlli ad impianti elettrici, perdite d’acqua da segnalare o prendere misure di spazi a malapena abitabili. Futili lavoretti di manutenzione per rendere decenti gli squallidi buchi che madame dragone e consorte affittavano per cifre ridicole.
Camminando fra banchi di verdure, in mezzo a ragazzini in uniforme scolastica e turisti europei simili a giapponesi in vaticano, nel suo naso si facevano strada violente zaffate di uova marce e frittura. Sapori agrodolci e tanfo di pesce. Ad ogni passo sentiva acuirsi la sensazione di non essere altro che una formica che vaga in un formicaio che non le appartiene.
La stessa impressione che lo schiacciava, inesorabilmente, giorno dopo giorno.
Superò la stazione Nipponbashi e, dalla main street, si gettò nel vicolo dove si trovava il palazzo che Noriko gli aveva indicato sul pezzetto di carta.
Il passaggio dalle luci accecanti della strada principale alla penombra di quelle strettoie simili a cubicoli richiese alle sue cornee qualche minuto per abituarsi.
Entrò nel palazzo e si ritrovò davanti a un gabbiotto che pareva essere una sorta di portineria. Oltre il vetro chiuso vide una gabbia per uccelli finemente intarsiata.
La vista di quello che c’era al suo interno gli fece salire in gola gli involtini che aveva inghiottito un paio d’ore prima: una coppia di passeri del Giappone giaceva sul fondo della voliera in quello che era un plausibilissimo stato di decomposizione.
La zona superiore alle zampe era priva delle piume che giacevano tristemente accanto ai corpi dei volatili. Quello che un tempo doveva essere un blu sgargiante – alquanto insolito – adesso era un cinereo celeste. Una sorta di schiuma, una muffa grigiastra, copriva a chiazze i cadaveri pennuti. La suggestione gli suggerì persino di aver visto qualcosa strisciare.
L’atrio era quasi completamente al buio. Solo una leggera luce color porpora illuminava il gabbiotto. Accucciata su una sedia di bambù giaceva una vecchia. Se ne stava lì, immobile, con lo sguardo rivolto verso i due miseri cadaverini.
– Mi scusi – le accennò bussando al vetro. La cosa parve non interessarle per nulla.
Riprovò – Mi scusi. Dovrei andare a controllare una stanza. I miei padroni (“datori di lavoro” era troppo elaborato per il suo giapponese) devono affittarla –
Anche stavolta il richiamo si perse nel nulla. La donna aveva lo sguardo di chi vive uno stato di allucinazione costante o, alla meno peggio, di catalessi profonda. Bussò più forte sul vetro.
Questa volta ebbe maggior fortuna.
Lei si voltò semplicemente per fissarlo, senza rispondergli. Gli occhi si intravedevano a malapena tanto erano strizzati tra le palpebre. I fondi di bottiglia che reggeva sul naso amplificavano mostruosamente le cornee nero pece e le rughe che segnavano la zona intorno agli occhi.
– Devo passare qualche ora in camera 732. Io di agenzia. Controlla e poi va! – le spiegò gesticolando.
La vecchia tossì sul vetro. Un ventaglio verdastro di schizzi di catarro si schiantò sulla lamina trasparente che li divideva.
Poi sibilò una parola.
– Baguru – La sua voce era roca, bassa, come se qualcuno le avesse passato della carta vetrata sulle pareti della laringe.
– Baguro? Cosa è Baguro? – gli chiese lui di rimando.
A quel punto, l’adorabile vecchina, da sotto il ciuffo brizzolato che le copriva parte del volto, si produsse in un sorriso figlio di disagio e minaccia.
La donna scandì di nuovo – Ba…gu…ru –
Poi ridacchiò una risata stridula che gli fece correre un lungo – e gelido – brivido attraverso la schiena.
Abbandonata la speranza di avere una risposta vagamente sensata, indagò con lo sguardo dentro il gabbiotto e vide un cartello dove erano indicati tutti i piani, dal primo al decimo. 
Doveva arrampicarsi fino in cima.
Mentre si allontanava dalla portineria, la megera continuava ad osservarlo, seguendolo con quello strano sguardo vitreo.
– Vecchia pazza – mormorò avvicinandosi all’ascensore. Ovviamente non funzionava e dovette inerpicarsi lungo la scala. Le luci del tortuoso canalone sembravano imbarazzate per la sua presenza, al punto da tremolare debolmente lasciandolo avanzare in una penombra poco incoraggiante.
Riuscì a resistere – mantenendo un buon ritmo – fino al quarto piano, poi dovette rallentare per via del fiatone. I rumori della strada lo raggiungevano anche lì, accompagnandolo nell’ascesa.
Al quinto distinse chiaramente le grida di una donna che piangeva. Non riuscì a distinguerne il senso ma ne fu straziato.
Al settimo erano già scomparse. Passò davanti alla 666, e percepì un latrato soffocato. Un ringhio sommesso da dietro la porta. Come se un Cerbero infernale fosse pronto ad addentargli una tibia per trascinarlo dentro le profondità dell’inferno.
I gradini lo guidarono velocemente verso il nono. Come giunse sul pianerottolo, volse lo sguardo verso il corridoio a sinistra. A metà strada fra la tromba delle scale e l’angolo in fondo c’era una minuscola figura. Un nano, in una vestaglia di seta rosa e con un cerchietto ornato da uno splendido paio di orecchie da coniglio stava guardando la sua immagine riflessa in uno specchio rotto. Il piccolo uomo, evidentemente, avvertì la sua presenza e si voltò verso di lui. La veste da camera era slacciata, negando all’immaginazione di chiunque osservasse la vista di un membro asinino assiepato in un nero groviglio selvaggio. 
Anche da quella distanza riuscì a distinguere le occhiaie scure che segnavano il volto dell’omuncolo che rispondeva al suo sguardo: mai un normo-dotato gli era sembrato di così bassa statura.
Lui, dal canto suo, non aveva mai conosciuto un nano, ma l’ansia e la stranezza di quell’incontro gli fecero capire che non era il momento giusto per farlo. Lo condussero invece verso il livello superiore, aggiungendo peso a una situazione che sembrava ormai irreale.
Come se ce ne fosse stato ulteriore bisogno.
Arrivò al decimo piano e pensò che un infarto lo avrebbe stroncato se non si fosse fermato per qualche secondo di pausa. Con le mani sulle ginocchia cercò di recuperare una respirazione regolare e, nella stasi del momento, si rese conto – non senza una discreta dose di straniamento – che i suoni della città sembravano averlo abbandonato. Per la prima volta da quando era in Giappone incontrò il silenzio. Qualcuno aveva spento il volume. E lui, onestamente, non sembrò farsi troppe domande su chi fosse stato.
Giunto davanti alla 732, infilò la chiave e aprì di scatto: era un misero buchetto.
Una stanza – neanche troppo ampia – divisa a metà da una parete di carta di riso con la consueta porta a scorrimento. Il wc, solitamente, era sul terrazzino striminzito che completava l’appartamento.
Come mise piede nell’appartamento avvertì un odore acre che pareva essersi inghiottito tutta l’aria del posto. Faticava a respirare. Accese la luce e si diresse verso la parete opposta all’ingresso: voleva aprire l’unica finestra – quella del terrazzo – per cercare di liberarsi di quel tanfo. Nel tempo di quei pochi passi, il puzzo si fece più denso e nauseabondo. Insopportabile. Riuscì a domare – non senza sforzo – un paio di conati che gli esplosero in petto, fece scorrere la shoji e si ritrovò dall’altra parte. 
Fu come cambiare dimensione. Avvertiva l’aria ondeggiare di vibrazioni mostruose e irraccontabili. Era come se quel luogo cercasse di respingerlo, farlo fuggire lontano e, allo stesso tempo, avvolgerlo nelle sue spire per inghiottirlo.
Ormai non aveva più controllo delle sue azioni.
Un’entità estranea aveva preso controllo del suo corpo.
‘Percuoti la carne’, gli sibilò all’orecchio.
La luce prese a traballare, quasi avesse il singhiozzo (‘Sbalzi elettrici’, aveva detto Noriko), per poi stabilizzarsi definitivamente.
Riprese il controllo.
Nell’angolo destro della stanza vide un grosso sacco di iuta, chiuso alla sommità da un legaccio di spago nero. – Forse quest’odore mefitico viene da là dentro – mormorò a sé stesso.
Ad ogni passo che fece verso quel fagotto informe pensò di poter sprofondare nel pavimento. 
Non era mai stato un cuor di leone.
Lo aprì di scatto, temendo che ci fosse dentro qualcosa di raccapricciante come una bestia in putrefazione o chissà quale altra porcheria nipponica. Era vuoto.
Lo abbandonò nell’angolo dove lo aveva trovato, si girò per raggiungere finalmente la finestra, aprirla, fare il suo dannato lavoro e andarsene da quel posto più in fretta possibile.
Distese tre brevi falcate. Come allungò la mano verso la maniglia, la luce se ne andò del tutto, abbandonandolo nel buio.
Anche lui si spense, rapito per una seconda volta dall’entità che pareva aggirarsi di pari passo con lui nella stanza. Solo le luci di una gigantesca insegna di fronte alla vetrata davano una parvenza di illuminazione rossastra all’appartamento.
Percepì di essere osservato. Lo sentiva nella nuca. Nelle viscere. Anche il cuore correva a un ritmo privo di qualsiasi logica.
Quando si girò, seppe per certo di essere sospeso nel tempo. Raccontare il terrore castrante che provò vedendo ciò che gli si parava davanti è un’impresa che non è concessa nemmeno alle parole. 
Ogni fibra del suo corpo urlava, come impazzita. Sentì avvampare il volto e fu scosso da tremiti violenti. Acuminati spilli d’acciaio gli penetravano nelle orbite.
Qualcosa si era rotto, nell’universo. O almeno dentro di lui.
Dove prima giaceva il sacco vuoto, ora si stagliava una figura mostruosa. Alto due metri, un monumentale uomo nudo con una testa di capro lo ghermiva saldamente in uno sguardo di tenebra. La sua mascella si muoveva in silenzio, avanti e indietro, mentre una densa bava verde colava dalla fetida bocca fino al suolo. Il puzzo era lancinante. Come un dolore insanabile o una ferita destinata alla putrefazione. 
Fra le braccia, l’essere stringeva quello che, dall’aspetto, pareva essere un bambinetto di quattro anni. 
Le sue piccole palpebre erano cucite – puntocroce – con un filo nero e spesso. Il corpo, la testa rasata e anche le braccia erano coperti da graffi, muco e sangue raggrumato. I folti peli del petto della creatura ne avvolgevano il corpo, incoronandolo in un angosciante abbraccio.
Quell’istante durò per sempre. O almeno così sembrò a lui.
Poi avvenne, senza preavviso.
Le braccia del Baguru si aprirono.
Il fanciullo non cadde: rimase sospeso in aria a gambe incrociate. Nel momento esatto della mancata caduta, un tubo di legno cavo – una sorta di didgeridoo – gli comparve davanti al viso. Dalla bocca minuta – attraverso lo strumento tribale fuori luogo – esplose una nota baritonale. Prolungata. Ipnotica.
Gli occhi del capro rimasero sempre fissi su di lui, inchiodandolo lì, in piedi, completamente paralizzato. Nell’oscurità della stanza brillavano rossi come rubini. Sembravano pulsare.
Nella sua testa c’erano solo quel suono, le pupille della bestia e la sua bocca rigurgitante schiuma verdastra. L’odore nauseabondo gli era penetrato nel cervello, come se volesse invadere il suo corpo per insegnargli docilmente qualcosa. Il bimbo seguitava a suonare.
Vibrazioni lunghe e distorte gli perforavano la mente.

“Percuoti la carne”.
“Percuoti la carne”.

Riusciva a pensare solo a quelle tre parole. Senza neppure conoscerne il significato o il motivo per cui continuava a ripeterle a sé stesso. Ogni fibra del suo corpo respirava a tempo del mantra

“Percuoti la carne. Percuoti la carne”

Finché non fu definitivamente perso.
Uscì da quella stanza tre ore dopo esservi entrato. Sbiadito. Completamente prosciugato.
Fu come se non ne fosse mai andato per davvero. O come se lo avesse fatto per sempre.

Non rientrò a lavoro, né al proprio appartamento. Nei mesi successivi si aggirò come uno spettro per la città vivendo in strada e cibandosi di spazzatura, ormai ridotto a guscio vuoto. Poi, semplicemente, scomparve.
In seguito, si rincorsero le storie di un essere con la testa di capro che errava per Osaka portando in grembo uno strano europeo con gli occhi cuciti.

Percuoti la carne per il Baguru che verrà per te.

Emil Brune.

Come nasce uno scrittore |PRECARIETÀ | di Salvo Barbaro

5 Agosto 2011

È venerdì oggi. Fa caldo ed è ovvio, visto che è piena estate. Ho dormito pochissimo, mi sono rigirato nel letto tutta la notte, pensando e ripensando al mio lavoro. Il periodo è molto particolare, di quelli da ricordare come “periodo di merda”. Sono nervoso con tutti, ce l’ho con il mondo intero. I miei, ottusamente, pensano che il mio malumore sia da ricercare solo nella situazione sentimentale, infatti la mia storia con V. è giunta al capolinea. Non s’interrogano sul perché e sul come un figlio possa star male. Nessuna domanda, nessuna “chiacchierata” padre e figlio riempie quei buchi di silenzio e solitudine. Solo comode conclusioni buttate lì, -Salvo è nervoso per colpa di V.!-, -Salvo è sempre teso e non pensa alla famiglia!- è ancora -Salvo non si può andare avanti così!
Ma una domanda normale nessuno riesce a farmela? Una, ma che sia decente!
È l’ultimo giorno di lavoro nell’azienda vinicola e non conosco con esattezza il mio futuro lavorativo. Precarietà è la parola che mi si addice.
Mi alzo verso le sei e trenta, solita doccia, solito rituale SILENZIOSO del caffè in cucina e soliti nervi tesi respirati tra le quattro mura. Esco di casa, per me è una gioia, poi mi viene il magone pensando che tra una decina di ore devo ritornare, e non solo, dovrò affrontare qualche mio superiore che mi dirà le solite cazzate sul mercato del lavoro e sul futuro aziendale. Prendo la macchina e metto in moto.
Parcheggio e vado a timbrare il mio “forse ultimo” cartellino. Lo faccio imprecando nella mia testa.
La giornata trascorre come tutte le altre. Mi confronto con gli altri colleghi precari che tacciono stranamente sull’argomento. Sono tutti silenziosi, non parlano o forse già sanno. Conoscono perfettamente chi resterà e chi verrà buttato fuori dopo sette lunghi anni di lavoro, sempre a dire “sì sissignore”, “ok resto due ore in più”, o leccando il culo per un sorriso del grande capo.
R. non sa nulla. Mi sta vicino come può, rincuorandomi, -Tranquillo Salvo, hai un buonissimo curriculum, non sarà difficile trovare un lavoro!
Sorrido, ma non so che pensare.
La chiamata dalla direzione giunge a fine giornata, su mia richiesta, dato che ancora nessuno s’era degnato di chiamarmi.
Entro nell’ufficio del capo del personale. Sembro Fantozzi nello studio di mega direttore BALABAN con la classica poltrona di pelle umana. Lui mi fissa, mi fa accomodare e inizia con la notevole SUPERCAZZOLA.
-Senta Barbaro, la stavo facendo chiamare! (Bugiardo e ipocrita!)
-Non so come dirle, ma il mercato, la crisi che avanza, il surplus degli operai, il caro vita e bla, bla, bla, bla!
Tutto uno strano monologo per dirmi -Ok non è più dei nostri!
Saluto, esco dal suo ufficio e vado via. Saluto tutti i miei ex colleghi, compreso R. che è l’unico veramente dispiaciuto. Entro in auto e piango. Per la prima volta piango per un qualcosa di caro perso così nel nulla. Mi fermo al primo bar e “affogo il dispiacere” con delle birre gelate.
Poi a malincuore ritorno a casa. Appena infilo la chiave nella toppa, il nervosismo mi prende alla testa. Neanche l’alcol ce la fa a calmarmi.
Le solita faccia di mia madre “servizievole” verso mio padre, seduti davanti alla tele guardando una telenovela argentina agghiacciante.
-Ciao Ciccio, com’è andata?- fa mamma sorridendo. Quando mi chiama “Ciccio” la mia ira funesta aumenta a dismisura.
-Benissimo madre!- usando la stessa arma del sorriso -Da domani sono disoccupato, che vuoi che sia?
Mio padre resta in silenzio con lo sguardo fisso al televisore. Si morde il labbro superiore e non dice nulla. Mia madre invece sempre raggiante, -Tranquillo amore, l’importante è la salute. Si troverà qualcos’altro, non demordere!
-Ok!- faccio e vado in camera mia. Appena lascio l’uscio della sala da pranzo sento papà prendere il suo cellulare, mettere in pausa la tv e fare una chiamata a qualcuno.
-Mi avevi promesso che mio figlio rimaneva! Io ho votato tizio e non è servito a niente! Che promesse sono queste?
Rido. Forse l’alcol, forse l’esilarante scena pirandelliana.
Mi alzo dal letto e vado in cucina dove ci sono nonna e zio M.
Sono loro a consolarmi senza parole, ma con un sincero e tenero abbraccio.

 

Salvo Barbaro.

Come nasce uno scrittore | Frigorifero | di Salvo Barbaro

 

20 Dicembre 2014

Attraverso il corridoio. Sbadiglio mentre rischio di sbattere il mignolo del piede destro nella sedia da pianoforte che fa da appoggio ai cellulari in carica. Vado in bagno e guardo l’orologio, sono le tre e un quarto di notte. Mi stiro, mi gratto la barba e guardo nel vuoto. D’improvviso sento dei rumori in cucina. La luce è accesa -Sarà Giulia con le sue “solite” fami notturne, oppure Vieri che ha sete!- penso.
Esco dal bagno e mi affaccio alla porta. Sento rufolare in frigo con accanimento. Mi avvicino lentamente. Non è Giulia e nemmeno Vieri.
Vista da dietro questa figura sembra appartenere ad un uomo, abbastanza alto, fisico asciutto, capelli nero corvino, una individuo abbastanza losco.
Tremo.
-Ecco, anch’io ho un ladro in casa, ora sicuramente mi farà del male!- dico tra me e me, mentre cerco di prendere qualche “arma” per difendermi. Ho la gola secca e una paura tremenda. Non mi esce nessun suono dalla bocca e vorrei gridare qualcosa. Sono davanti a lui mentre l’uomo è girato di spalle, con la testa nel frigo, in una mano un pomodoro e nell’altra una birra. Sembra un barbone o roba del genere.
–Mi ucciderà ‘sto morto di fame! – penso.
Poi tutto d’un tratto mi dice -Ciao Salvatore, ti aspettavo! Sempre il solito! Cercavo del vino fresco ma hai sempre queste dannate birre!- sghignazza.
-Mi ha visto. Come ha fatto? Cazzo, sono spacciato!- continuo a pensare.
All’improvviso l’uomo si ferma. Posa lentamente la birra, il pomodoro e si gira verso di me. Sono immobile, mi sudano le mani, le gambe mi tremano e so di non essere bravo a difendermi.
-Avrà un coltello e mi ammazzerà, oppure una pistola! Mi darà un cazzotto in faccia, mi accascerò al suolo e mi truciderà! Poi Giulia, Vieri, no, devo difendermi, devo colpirlo, devo…!- mi ripeto nella testa.
-Tranquillo, sono venuto in pace!- fa lui con una voce calma, quasi appagante.
Sono sempre fermo. Arretro di un passo, appoggiando la schiena al mobile dietro di me.
-Chi sei? Come fai a sapere il mio nome? – gli chiedo con voce rauca.
-Io so tutto!- fa lui, voltandosi lentamente.
È un bell’uomo, calmo e sembra essere innocuo. Chiude il frigo e si avvicina a me.
-Lasciami stare o chiamo la polizia!- grido.
-Tranquillo, sono venuto in pace Salvatore! Tu proprio non mi riconosci?
Lo guardo attentamente ma la mia mente è rivolta solamente a come uscire da questa brutta situazione. Non lo sconosco, sembra un viso familiare, ma adesso non ricordo. Spero che Giulia venga in mio soccorso.
-Non mi faccia del male la prego signore! Ho un bambino, una donna che mi ama, la prego, la scongiuro! – lo supplico quasi in lacrime. (CHE EROE!)
Lui sorride.
-Tranquillo Salvatore, non ti farò del male, anzi! Sediamoci, sono stanco!
Mi mette una mano sulla spalla. Sento una strana sensazione, come di tranquillità. Non mi fa più paura. Ha un viso che mi trasmette positività.
Si siede prima di me. Prende una bottiglia e beve. Un lungo sorso d’acqua come a voler buttar giù tutto il resto. Mi siedo anch’io, con la diffidenza del caso. Lo guardo. Lui mi guarda. Ha dei bellissimi occhi blu color mare. La pelle olivastra, quasi color ebano e i lineamenti del viso regolari.
-Chi sei?- chiedo.
Sorride.
-Proprio non mi riconosci?- mi fa di nuovo.
Faccio no con la testa osservandolo meglio.
-Una volta ci vedevamo spesso. Mi venivi a trovare quasi ogni domenica. Mi ascoltavi e ogni tanto mi pensavi anche!
Non lo conosco. Oppure si. Lo guardo ancora mentre si strofina la barba con la mano destra. Si tocca il mento, la fronte e poi il collo. È calmo, io no, per niente.
-Quando viene Giulia a salvarmi?- mi chiedo insistentemente.
-Sei sempre il solito Salvatore!- mi dice scuotendo il capo.
-Sei come tutti gli altri, quando ti servo mi cerchi, invece quando non servo più, mi butti via come uno straccio!
-Finiamola con questa pagliacciata! Sono le tre di notte e tu sei in casa mia! Mi vorresti dire una volta per tutte chi diavolo sei?- mi alzo di scatto alzando la voce e battendo i pugni sul tavolo.
-Prima cosa non dire diavolo perché è una brutta parola- mi dice, sorridendo.
-Va bene, te lo dico!- mi fa, sospirando e alzandosi.
-Sono Dio, caro Salvatore. O Gesù, come meglio credi. O il Salvatore, redentore, rivoluzionario, Cristo, chiamami come vuoi. Ogni tanto passo a trovare qualche “pecorella” smarrita e cerco di riportarla lungo la retta via. Tu sei un tipo tosto, ma non voglio costringerti, assolutamente! Vorrei solo farti ragionare!
Le mie orecchie hanno sentito bene? Questo pazzo dice di essere Dio, o Gesù? Ora lo sbatto fuori!
-Tranquillo Salvatore vado via io! Non mi sbattere fuori, non arrabbiarti. Io sono venuto qui per una semplice visita. Ho mangiato qualcosa, devo dire di ottima qualità, ma ricorda sempre di tenere una bottiglia di vino! Basta con queste birre, gonfiano! Una volta ti piaceva il vino, ma ahimè, cambi idea spesso tu!
Mi guarda quasi con pietà. Sembra di vivere una situazione surreale.
Poi sorride. Si rufola nelle tasche, prende un fogliettino bianco e lo guarda attentamente. Annuisce e mi osserva di nuovo.
-Ora vado perché ho da fare un paio di altri giri! Se vuoi pensa al nostro incontro! Ora chiudi gli occhi!
Lo faccio, dopo due secondi li riapro e non c’è più, sparito. Resto basito, guardo l’orologio, le sei e trenta. La sveglia suona e mi sveglio ansimando. C’è Giulia accanto a me. Devo alzarmi per andare a lavoro.
Ho fatto un sogno incredibile, oppure era un incubo?

 

 

Salvo Barbaro.

L’INCONTRO INASPETTATO | di John Wicker | un racconto da incubo

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Elisa si trovava sul vecchio pontile dell’abitazione di montagna, appartenuta a sua nonna.
Quella casa aveva visto nascere suo padre. Probabilmente un piccolo Alberto Verni si era messo a correre proprio su quel pontile in costume da bagno, sorridente e spensierato.
Quando provava ad immaginare suo padre da bambino le veniva una fitta allo stomaco.
Era felice del fatto che quell’uomo avesse vissuto dei periodi felici prima dell’arrivo di Wall Street e di tutte quelle stronzate che gli avevano riempito la testa fino a fargli esplodere un aneurisma cerebrale.
C’era stato un tempo in cui suo padre era stato felice, ma lei non l’aveva vissuto.
Adesso si trovava in quella casa da cui lui era fuggito a sedici anni per andare a studiare a Torino, prima che una delle città più importanti del paese divenisse troppo provinciale per lui.
Un giorno, mentre ascoltava le notizie del telegiornale, lo vide alzarsi e dirigersi verso la finestra gigantesca del loro appartamento. Aveva in mente ogni dettaglio di quella giornata, quasi come se la stesse vivendo in quel preciso momento.
Suo padre si smarrì per un attimo, cosa più unica che rara per un uomo che non lasciava mai trasparire il mondo del di dentro, e disse ad alta voce -New York si sta trasformando in un paesino del cazzo.
Quello era suo padre. In quella frase c’era ogni aspetto ed ogni sfumatura dell’uomo che l’aveva cresciuta a pane e pragmatismo.
Una constatazione semplice è lineare: la grande mela sta diventando un paese.
Sua madre viveva a Roma e probabilmente l’avrebbe raggiunta dopo aver passato un po’ di tempo nella baita appena ereditata.
Non aveva idea di cosa fare con quel luogo. Poteva venderlo, affittarlo o addirittura andarci a vivere.
Si era laureata da poco e l’idea di starsene per un po’ di tempo in mezzo al verde la elettrizzava.
Molti penseranno che il termine “elettrizzante” poco si addica ad una circostanza come quella, ma dopo aver vissuto tra Roma e New York, la pace era un concetto da elettroshock per Elisa.
Si era laureata in legge ma non aveva nessuna voglia di proseguire quella strada e un qualsiasi lavoro l’avrebbe soddisfatta. Tra l’eredità paterna, il fondo fiduciario e tutto il resto, i soldi non erano di certo un suo problema.
Se si fosse trasferita lì, avrebbe dovuto prendere un cane. Non era abituata alla solitudine dei monti.
Il lago era molto romantico e lei era sola. Il momento era delicato e nessuno lo stava condividendo con lei. Era forte… l’avrebbe superata.
Accanto a sé aveva un libro che non aveva ancora iniziato. Leggere era uno degli obiettivi che si era prefissata.
Per via del suo percorso scolastico esemplare, si era gettata a capofitto in tomi e tomi di giurisdizione, tralasciando la narrativa che da ragazzina adorava tanto.
Adesso era arrivato il momento di staccarsi dalle serie televisive viste sul piccolo monitor del suo computer per dedicarsi agli autori che aveva trascurato per così tanto tempo.
Pensò quasi d’accendersi una sigaretta, nonostante il pensiero di smettere fosse molto forte nella sua psiche, minata dall’ipocondria generata dalla malattia del padre.
-Ciao.
Era convinta di essere sola.
-Dio… mi hai fatto venire un colpo.
-Io sono Marco. Abito dall’altra parte del lago.
-Io sono Elisa e… ho ereditato la casa qui sopra.
-Mi dispiace.
-Perchè… è una bella casa, dopotutto?
-Intendevo per la perdita.
-L’avevo capito; stavo solamente cercando di sdrammatizzare.- sorrise.
-Posso sedermi sul pontile?
-Certo.
-È bello che ci sia qualcuno qui. È una casa così triste e silenziosa. Il silenzio può essere molto pesante qualche volta.
-Non ti piace il silenzio?
-No… credo che non piaccia a nessuno. Forse qualcuno potrà anche mentire a riguardo, ma a nessuno piace. Ricorda troppo il nulla.
-Adesso so due cose di te: ti chiami Marco e odi il silenzio.
-È vero. Abito anche dall’altro lato del fiume, due case più in là.
-Io ho appena finito l’università. Tu cosa fai?
-Lavoro come aiuto meccanico giù all’autorimessa.
-Da Carlo?
-Esattamente.
-Non ci posso credere.
-Non avrei motivo di mentire a riguardo…
-Non intendevo in quel senso.
-L’avevo capita… questa volta.
-Anche mio padre lavorava in quell’autorimessa da ragazzino. Ha sempre descritto quel periodo della sua vita come uno dei più belli.
-Forte. Come si chiamava tuo padre? Se non sono indiscreto.
-Alberto.
-Anche noi abbiamo un Alberto. Comunque se vuoi posso chiedere se qualcuno si ricorda di lui.
-Ma sarà passata una vita. Comunque, avevo proprio bisogno di parlare con qualcuno in carne ed ossa. – sorrise Elisa.
-Mi fa piacere. Sai… mentirei se dicessi che qui passano tante ragazze bellissime con cui parlare.
-Hey, vacci piano… potrei essere tua zia.
-Zia… addirittura? Guarda che ho ventidue anni.- disse il ragazzo, accarezzandosi le guance come se sentisse una ricrescita improvvisa di barba.
-Ventidue?- rispose Elisa, maliziosa.
-Ok, bene… ho diciassette anni, ma a breve ne farò diciotto.
-Magari ci vediamo tra una decina d’anni…
-Quanti anni hai?
-Ne ho venticinque.
Marco sorrise, rimanendo muto.
-Ah… ti sei giocato la tua ultima possibilità, ragazzino… avresti potuto dire che ne dimostravo molti di meno.
-Non c’è n’è bisogno… sono sicuro che tu sappia di essere bella.
-Ok. Abbiamo appurato che ci sai fare con le ragazze. Potrei anche innamorarmi se continui così.
Stava scherzando, anche se il ragazzino che sedeva dall’altro lato del pontile era carino per l’età che aveva.
-Senti, ti chiedo scusa, ma devo rientrare perchè qui non c’è campo e devo proprio fare un giro di telefonate.- disse, guardando il suo iPhone.
-Cos’è quello?- chiese il ragazzo.
-È il mio telefono… ma non te lo do il numero… non ancora per il momento. Comunque se volessi cercarmi online, mi chiamo Elisa Verni.
-Non lo dimenticherò ho un amico che si chiama Verni ed Elisa è già diventato il mio nome preferito.
Le aveva fatto piacere chiacchierare con qualcuno, pensò, risalendo la collina.
Almeno qualcuno sotto i settant’anni era rimasto in paese e magari avrebbe incontrato anche gente della sua età, per bere una birra e fare due chiacchiere. Non sentiva la necessità d’instaurare rapporti interpersonali, ma non ne disdegnava comunque l’ipotesi.
Si voltò verso il lago non appena arrivò in veranda, ma Marco era sparito. Avrebbe voluto chiamarlo per invitarlo a bere una limonata o qualcosa di analogo. Volatilizzato.
Era giovane e i giovani sparivano sempre.
Dopo aver sbrigato le telefonate, Elisa decise di entrare in casa.
Le sarebbe decisamente piaciuto crescere in una casa col camino, pensò, trovandosi davanti a quello dell’abitazione che aveva dato i natali alla sua famiglia.
Il calore non faceva parte dell’universo di suo padre; era sempre stata sua madre quella eccessiva nelle manifestazioni d’affetto.
Accese il vecchio televisore a tubo catodico, collegato ad un decoder che doveva aver visto tempi migliori. Stavano dando la sesta puntata di un telefilm che lei aveva terminato di vedere quattro anni prima, approfittando dei siti che propinavano lo streaming gratuito dei network americani, dando il colpo di grazia alle produzioni di qualità.
C’era un qualcosa di estremamente tranquillo nel guardare dei personaggi che avevano, perlomeno nella sua testa, un percorso già definito. Si appisolò così davanti a quella trasmissione.
Quando venne svegliata dalla frastornante musica di una pubblicità scritta con l’intento di promuovere un rivoluzionario sistema di filtraggio dell’acqua, si accorse di avere lo stomaco completamente vuoto.
Aveva comperato lo stretto necessario per passare la prima notte, consapevole che anche in quel luogo sperduto erano presenti dei supermercati.
Pop-corn glassati al cioccolato e gelato al caramello. La perfetta alimentazione di una ragazza americana post-disturbo alimentare.
Prima d’iniziare a portar il cibo alla bocca, tirò fuori il suo computer portatile, impegnandosi nella ricerca di un qualcosa di vagamente decente da poter guardare mangiando i suoi snack-cena.
Era costretta ad utilizzare il credito del suo cellulare per poter usufruire del segnale internet, il che rendeva abbastanza difficoltà la visione della serie che aveva scelto per la sua cena.
-Ma come cazzo si fa a non avere campo. Uno più va in alto e più dovrebbe essere vicino al segnale, no? E che cazzo!
Il televisore era ancora lì e magari con un po’ di fortuna avrebbe trovato qualche programma interessante.
Come cambiava il mondo. L’Italia era indietro anni luce. Lo stato di New York cominciava a mancarle. Dopo qualche minuto trovò un programma simil reality con cui intrattenersi, ingurgitando schifezze.
Il problema cena era stato risolto.
Cosa rimaneva di suo padre? Dei suoi nonni? Forse quello non era un buon periodo per starsene tutta sola in un luogo desolato, ma doveva in qualche modo prendersi del tempo per lei, prima che la vita le spezzasse le ali impedendone il volo.
Le paranoie notturne abbandonarono completamente il suoi pensieri non appena il sole entrò nella sala.
Si era addormentata sul divano, poco dopo aver spento la televisione.
La fame iniziò a farsi sentire nuovamente, ma questa volta sarebbe stata costretta a scendere in paese per comprare qualcosa da mettere sotto ai denti.
Una svelta lavata di faccia e via, verso la macchina che sua madre le aveva prestato per il viaggio.
Quella era un’altra nota positiva dell’essersi allontanata dalla grande mela… per un po’ non sarebbe stata costretta a truccarsi per trentacinque minuti ogni mattina prima d’uscire di casa. Lo standard di quel paesino era decisamente basso e finalmente poteva smetterla con tutta quella routine proto-consumistica dettata dalle pubblicità di moda che cercavano di venderti soluzioni colorate per vite funeree.
Finalmente poteva dedicarsi alla flanella e ai capelli legati.
Era davvero un bel posto. Tutto quel verde non faceva che risplendere al sole, come se tutte le brutture dell’universo potessero essere annientate dal canto di un uccellino.
Non l’avrebbe mai detto ad alta voce, perchè la sua reputazione da cinica doveva essere difesa in qualche modo, ma lo stava pensando realmente.
Il supermercato si trovava allo svincolo successivo, tuttavia Elisa decise di girare prima, dirigendosi verso l’autofficina.
Avrebbe salutato il suo amico adolescente, chiedendogli magari di passare da lei più tardi per fare due chiacchiere. La solitudine poteva essere difficoltosa da quelle parti.
Era incredibile; la maggior parte delle persone in quel posto sembrava uscita da una reunion del cast di “Hazzard”.
Scese dall’auto e, dopo aver parcheggiato, chiese ad un uomo di Marco.
-Marco, Marco… qui non lavora nessun Marco.- rispose, aspirando lentamente dalla sua sigaretta.
-Guardi, mi dispiace ma è semplicemente impossibile… io ho parlato ieri con lui e mi ha detto che lavora qui.- sorrise, trattandolo un po’ come se si trovasse davanti allo scemo del villaggio.
-Guardi, io sono il capo qui e questa è l’unica autofficina del paese, quindi… le posso assicurare che non troverà nessun Marco né qui, né altrove.
Era stato conciso, ma alquanto scortese. C’era un qualcosa che non le piaceva nella voce di quell’uomo.
-Aspetti… in effetti un Marco c’è, non lavora qui, ma ci consegna i bulloni. Se vuole posso darle il suo numero di telefono.
-Ero sicura di quello che dicevo, ma non volevo risultare maleducata.
-Si figuri… non mi è venuto in mente perchè il vecchio Marco non parla mai con nessuno e non l’avrei mai collegato ad una ragazza giovane come lei.
-Scusi, ma quanti anni ha questo Marco?
-Almeno settantadue.
-Allora è un Marco differente dal mio.
D’un tratto lo sguardo della ragazza venne rapita da un immagine attaccata al muro. Proprio a fianco al vecchio calendario di ragazze svestite notò una foto in cui compariva suo padre.
-Cristo santo, quello è… è mio padre.- disse, accorgendosi di sembrare pazza.
Si asciugò furtivamente una lacrima dal viso.
-Mi scusi, mio padre è mancato da poco e quello lì e lui… beh, lui da ragazzino.
-Che mi prenda un colpo, tu sei la figlia dell’Alberto? L’Albertino che è andato in America.
-Sì.
-Sapessi quanto m’è dispiaciuto per il tuo papà. Certo che ha lavorato qui da ragazzino. Lo conoscevo bene, abbiamo lavorato insieme… poi lui l’ha capita e s’è levato dalle balle. L’Albertino, ma pensa un po’. Che bella figlia che ha tirato su.
-Grazie.- rispose, mentre il suo sguardo veniva catturato da un altro particolare, notato all’interno di quella fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo.
Si avvicinò con fare interrogativo.
-Se stai cercando me, lì non mi troverai… non c’ero quel giorno.- disse l’uomo, asciugandosi le mani sporche d’olio motore.
-Ma questo qui…
-Quello si chiamava Marco, come il tuo amico. Non ha fatto una bella fine. È morto poco prima della partenza di tuo padre. Se l’è portato via una macchina bastarda. pace all’anima sua… era un ragazzo così simpatico. Se gli davi da parlare, parlava anche con le pietre.
-Mi creda, questo è esattamente il ragazzo che ho conosciuto ieri. Aveva gli stessi identici vestiti.
-È impossibile tesoro, ti stai confondendo. Quel ragazzo lì è morto proprio di fronte a casa di tuo padre. La macchina se l’è portato via in prossimità del pontile. Abitava…
-Dall’altro lato del fiume… due case più in là.- concluse la ragazza, impedendo all’uomo di continuare.
-E tu come fai a saperlo?
Un brivido le percorse la schiena.

 

 

J. Wicker