Novembre 2016

DREAM | un romanzo di John Wicker | L’Infernale Edizioni

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Finalmente posso svelare tutto ciò che riguarda il nuovo romanzo di John Wicker, primo autore pubblicato dal progetto editoriale “L’Infernale Edizioni”.

John Wicker è uno pseudonimo che ho utilizzato per pubblicare una serie di racconti molto lontani dal mio stile letterario.

L’affetto che i lettori del web hanno dimostrato verso il lavoro di questo scrittore mi convinse ad iniziare un romanzo in tinte horror-weird, con l’intenzione di pubblicarlo con il progetto editoriale del blog.

Ho lavorato intensamente a questo romanzo, immergendomi completamente in un universo che mi ha trascinato in un’avventura unica. Scrivere “Dream” è stata una bellissima esperienza, anche grazie al supporto di chi mi chiedeva quando questo fantomatico scrittore italo-americano avrebbe partorito il suo primo romanzo.

Nonostante questo manoscritto non sia altro che il mio quarto romanzo, è a tutti gli effetti anche il primo libro di John Wicker, quindi l’emozione è duplice per me; senza contare che proprio con questo libro si aprono le danze del il progetto editoriale “L’Infernale Edizioni”.

La storia parla di un uomo come tanti, intrappolato in un lavoro sopportabile e in una vita monotona. Durante la notte, Fred viene risucchiato in un mondo onirico popolato da cavalieri e imperi antichi. Ben presto il mondo dei sogni finirà per miscelare le sue tinte con quelle della vita reale, trasportando in questo universo oscuro una collega di Fred.  Le circostanze finiranno per intrappolare Fred in un limbo in bilico tra il reale e il surreale.

DREAM parla della vita e della voglia di evadere dal mondo, ma l’evasione diventa solamente un pretesto per dimostrare a se stessi che, nonostante tutto, qualcosa può cambiare.

Potrete acquistare DREAM direttamente da Amazon e  dal Kindle-store e in un attimo potrete leggerlo sul vostro Kindle, computer, iPad, smartphone e chi più ne ha più ne metta.

 

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Cordialmente Vostro

John Wicker (Ferdinando de Martino)

La parata degli elefanti | di Emil Brune

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Avvicinando la sedia al confine – poco più che immaginario – che divide il palco dal pubblico, osservo la sagoma di Nicolò al di sotto dei riflettori che, pian piano, vanno sfumando. È sudato e provato per lo spettacolo appena concluso. Poco distante da lui, un ‘ragazzetto’ biondo e soddisfatto abbandona la sua postazione alla batteria ancora carico come una molla per l’adrenalina dello show.
Non ho mai capito come facciano i musicisti a resistere per ore sotto quei bat-segnali. Io, probabilmente, sarei liquefatto al quarto pezzo, in preda a convulsioni e bassa pressione.
Nic mi osserva trascinare la sedia. Il suo braccio sinistro è steso – pigro – sulla tastiera mentre sorseggia placido dal bicchiere.
È la prima volta che parlo con lui. Dieci minuti fa, dopo essermi presentato, gli ho chiesto se fosse stato disposto a fare due chiacchiere non appena il pubblico e i ragazzi del gruppo avessero smobilitato. Nel rispondermi affermativamente, aveva in dotazione un’espressione che poteva essere un misto tra la curiosità e il divertito. Almeno credo.
Pur essendoci appena conosciuti, nei mesi passati avevamo avuto delle lunghe conversazioni, io e lui. Il suo LP, volteggiando sul mio giradischi, aveva generato il peso di centinaia di elefanti. Forse migliaia. L’immensa mole di una musica che mi costringeva al dialogo. Era qualcosa che andava al di là di melodie spumose e sensuali, capacità tecniche importanti, o testi che offrivano una visione del mondo tagliente e poetica. Ma, del resto, questo è solo il pensiero di un modesto ascoltatore. Non sono un critico.
Mai stato, grazie al cielo.
“Un uomo diventa un critico quando non può essere un artista, così come un uomo diventa un traditore quando non può essere un soldato”, giusto?
Ma persino un profano è in grado di intuire quanto Niccolò abbia la capacità di parlare all’anima di chi sa ascoltare realmente. È una qualità che possedevano i grandi musicisti del passato. E chissà che pure lui non possa arrivare ad esserlo. Per questo motivo avevo deciso di ascoltarlo dal vivo e, se possibile, scambiarci quattro parole. Per questo sono qui davanti a lui adesso.

Finisce di bere, mi sorride, aspettando che io dica qualcosa. Forse ha pietà di me e del mio imbarazzo (maledetto, pensavo di averti lasciato a casa), e ci fa la cortesia di rompere il ghiaccio.
– Allora…piaciuto il concerto?
– Un casino. Davvero un casino. Siete stati grandi. Il pubblico respirava a tempo con voi – rispondo piuttosto goffamente.
– Bene, sono contento – dice sincero – Simpatica l’idea di far salire tutti i ‘colleghi’ sul palco a cantare, no?
– Molto.
– Ottimo. Ottimo davvero. Sono felice se qualcuno si è divertito. Ma ora…parla! Cosa volevi dirmi?

“Bioparco. Mi ha colto alla sprovvista”.
Quindi gli butto là un – Beh, ecco. Io…volevo solo ringraziarti –

Dopo questa maldestra – e buffa – dichiarazione, la sua faccia si fa dubbiosa. Non intuisce dove voglio andare a parare, immagino.

– E per cosa?

A questo punto lascio che sia il mio stomaco a esprimersi. Lo annaffio con tutto ciò che mi è fermentato nel cervello da un po’ di tempo a questa parte.

– Per la tua musica. Per il tuo modo di esprimere quello che ti si agita dentro. Che raspa – ruvidamente – dentro molti di noi. Non è una cosa particolarmente comune da trovare. Riesci a parlare – qui calco a dovere – davvero al tuo ascoltatore. Come Alice, del resto. È stato forte il vostro pezzo assieme. Quindi grazie. Grazie davvero.
Okay. Ora è davvero a disagio. Dopo che gli sbrodolo in grembo questa manciata di duodeni zuccherosi è decisamente spiazzato. Ci sta, è comprensibile.
Nel frattempo, il mio amico di prima – il signor imbarazzo – se ne è andato affanculo. Non c’è più. È stato come una scarica di mal di pancia: vai al bagno e la spari via.
Datemi un ‘amen’ fratelli.

Niccolò mi guarda con l’aria di uno che sta pensando a cosa cazzo rispondermi, quasi avesse l’imbarazzo della scelta tra le frecce con cui auto-schernirsi. Devo dire che se la cava egregiamente.

– Cavoli…grazie! Sai, non è comune neppure sentirsi fare un complimento del genere. Pensa che l’ultima volta che una ragazza mi ha fermato dopo un concerto, a Volterra, mi fa: “Sei un grande! Non hai capito quanto mi strapiace la tua musica! Pensa che ti ho messo pure in playlist su Spotify!” – dice con un gran sorriso.
– Ahi! Vabbè, sarà stata piccina, dai. Quanti anni aveva?
– Non meno di venticinque, – risponde secco. Ride.
– Ah beh. Non proprio bene, allora!
– No, dai, non la vedo tutta a senso unico. Non sarebbe giusto. Cerco di non catalogare le persone solo dopo una prima impressione, senza sapere chi sono davvero. Sono sicuro che, per lei, quello era un gran complimento. Voleva essere carina.
– Ma avresti preferito una bella considerazione su Milano Est, nè? – gli faccio, ironico, spezzando il filo emotivo della discussione.
– Che ha che non va Milano Est? – risponde falsamente stizzito.
Un sorriso gli brilla negli occhi. Ma è una recita simpatica. Sto al gioco che io stesso ho cominciato.
– Nulla! Così come non c’è nulla che non va in Lambrate. Tranquillo. Non te la offendo la tua madonnina. È solo che giusto tu, il “prof”, e pochi altri, riuscite a dissertare poeticamente di nebbia, grigiore e della stazione centrale. O delle gite sulle grazielle lungo i Navigli. Facendocele ‘sentire’ davvero. Annusarle, toccarle. È un complimento!
Ride di nuovo.
– La nebbia è bellissima, dai. C’è leggerezza nella nebbia. C’è nostalgia, mistero. Non c’è nulla di brutto nella nebbia.
– Toh! E io che pensavo che la bellezza fosse un tramonto sul mare visto dal monumento dei mille. Ma magari sbaglio – lo pungo.
– Ah ah. Allora avevo colto bene l’accento.

Il sudore gli fa scivolare gli occhiali lungo il naso. Se li risistema con l’indice ridacchiando.

– Sei un bel soggetto tu. Vai a ruota libera, mi par di capire.
– Solo con chi mi sembra disposto ad accettarlo e a fare altrettanto. Con i colleghi che, di tanto in tanto, fanno a baruffa col mondo – rispondo.
– Beh, prego! Vadi, vadi pure, se le va. Prosegua!
– Se mi inviti a farlo, non vedo perché no…vuoi sapere perché la tua musica funziona, al di là di ritmi talmente dolci, puliti ed efficaci da diventare orecchiabili? O di pensieri che valgono tanto?
– Spara
– Perché riesci ad accontentare tutti. Ti apprezza il coglione, che neanche capisce di cosa diavolo tu stia parlando quando sei davanti a un microfono. Mentre pigi sui nerobianchi.
Ti canticchierà la mattina mentre caga, o accendendo lo schermo per guardare la finale di Grande Fratello Vip. Lo farà. Davvero! Lo sai anche tu che è così. E, allo stesso tempo, ti apprezza chi riesce ad avvertire le vibrazioni che arrivano dai tuoi testi o all’inclinazione che prende – a seconda del caso – la tua voce.
La tua musica funziona perché è polivalente: piace a chi soffre insieme a te in ‘Blacky’, così come a chi è arido come la figa di una puttana della maddalena. La può amare sia chi è intelligente, sia chi ha la prontezza di pensiero di un rafano.
Per la seconda volta, mi guarda sorridendo, senza dire nulla, evidentemente in imbarazzo.
– …e anche perché canti degli astronauti, certo. – smorzo – Perché, nonostante la sensazione di pesantezza del mondo che ci schiaccia, sei in grado di riderci sopra. Di scherzarci, cantando anche di ciò che c’è ancora di bello e colorato. Perché hai il fegato di guardare – e cantare – del buco del culo delle cose.
– Ora però, franandomi addosso così, a valanga, mi destabilizzi un po’, ragazzo.
– Dico solo quello che penso, come hai già intuito –
– E dimmi, mio caro fan – sorride a cinquantotto denti – cosa sai di me, effettivamente?
– Un cazzo. Conosco il tuo nome. E quello che di te metti in musica. Tanto basta.
– E tu?
– Io che?
– Tu chi sei? Cosa fai?
– È davvero importante? Non roviniamo un discorso interessante con l’anagrafica. Sono uno che apprezza il tuo lavoro: questo è il focus di serata. Non divaghiamo.
– Propongo un patto, allora: non si divaga in maniera classica.
– Andata.
– Mmh. Cosa ti fa paura? – domanda.
– L’assenza di curiosità. Una nazione più preoccupata del ‘closing’ di Berlusconi coi cinesi che del risultato di un referendum. La pagina bianca. La gente con lo sguardo incastrato nei quotidiani mentre passa il vecchio in pantofole che fa l’elemosina nel vagone della metro. E altre cazzate. A te?
– Il mondo degli automi. Quelli che girano per la strada. Videopoker, distributori e tram. Tutti quelli che non ricordano di essere venuti dal profondo del nero – risponde con un gran sorriso.
– Dai. Sii serio.
– Lo sono! Va bene, abbandoniamo l’auto-citazionismo sennò sembro davvero un artista.
– ‘E non chiamarmi artista, ma cazzaro’. Ochei, citiamo altri, va meglio? – lo accontento.
– Sempre. ‘Cazzaro alla radice’ – risponde a tono con quel ghigno che, ormai, pare essere perpetuo.
– Ho paura del protagonismo esasperato delle persone. Quella volontà granitica di dire sempre la cosa più intelligente, simpatica e brillante di tutti. Il prima possibile. Mi spaventano quelli che vogliono ‘essere qualcuno’.
– Ti riferisci ai colleghi della scena musicale attuale?
– Non solo loro. È un discorso che vale per molti. Tanti. Tantissimi. Basta aprire un qualsiasi social, cazzo. Tu ce l’hai Facebook? Instagram? Non capita anche a te? Tutti fotografi, scrittori, opinionisti politici, statistici. Il mondo dei supereroi della tastiera.
– Sì, certo, lo vedo anch’io. E tu?
– Io cosa?
– Non vuoi fare strada? Assieme alla tua musica. Trasformarsi in ‘qualcuno’ è così orribile? In ogni sua forma o modalità?
– Sinceramente, la cosa che mi preoccupa maggiormente, è quella di tentare di essere una versione decente di me stesso.
– Belin, che frase ad effetto. Posso rivendermela? Scherzo, so che è vero. Ma la domanda resta: non vorresti che la tua musica arrivi a più persone? Voglio dire, cazzo: se cerco i tuoi testi su internet, il massimo che posso ottenere è qualche passaggio da “Il sentiero dei nidi di ragno”. È una maledetta baggianata. Non ha senso.
– Il sentiero dei nidi di ragno?
– No! Dai che hai capito, per Dio!
– Sì, avevo intuito che non ce l’avevi con il buon Italo. Certo che mi piacerebbe. Ma arrivandoci pian piano. Me lo devo guadagnare pezzo dopo pezzo: solo così saprò che se arriverò a quel punto, sarà perché ho convinto le persone. Perché riesco a dire loro qualcosa, come succede con te. E questo si collega a una delle cose che più mi spaventano in questo mondo.
– E sarebbe?
– La gente che canta davanti a quattro poltrone girate di schiena. Ho paura dei pulsanti e di applauditori che pilotano le ovazioni del pubblico. Le finali mi terrorizzano. Mi fanno paura i ‘pressure test’ e le eliminazioni. Che cazzo ci sarà da eliminare dalla musica, poi?

È modesto e gentile. Questa volta è il mio turno di sorridere. Ho ottenuto quello che volevo e non ho per l’anima di bloccarlo lì tutta la notte.
Lo ringrazio, gli stringo la mano e faccio per andarmene.
Sulla soglia del locale, mi volto, e lo vedo ancora lì, sotto la luce rossastra, intento a trapanandosi materia grigia con chissà quale pensiero bislacco.
– Ehi, cantautore! – lo chiamo – a te piace perdere il controllo, giusto?
– Sempre. Mai cedere a un sistema di blocco prestabilito. Qualunque esso sia. Sociale, emozionale o qualsiasi altra stronzata. Perché?
– Allora dimmi qual è il tuo sogno. Uno dei tuoi desideri per il genio della lampada – gli chiedo con la mano sulla porta aperta a metà.

Ci perde sopra almeno una ventina secondi. Dall’esterno, Milano cerca di entrare a forza soffiando gelide correnti scombinacapelli.
Poi il suo volto si illumina.
– Vorrei una parata di elefanti colorati che scorre per corso Buenos Aires di sabato pomeriggio.
Grossi, enormi elefanti di ogni colore più stupido: gialli, verdi, fucsia e ramati. Vorrei osservare la gente che guarda felice, senza neanche un telefono che rubi quello spettacolo assurdo e perfetto.
Sento il cuore sorridergli ampiamente.
– Sei proprio un sognatore del cazzo – gli dico ridendo forte. – Vai a un talent, va’, Niccolò!
– Sé! Ci vediamo là! – risponde mentre sparisco dietro la porta.

 

Emil Brune.

 

Come nasce uno scrittore | VOGLIA | di Salvo Barbaro

Giro in macchina da più di un’ora senza meta. Mi annoio. Lo stereo in sottofondo balza tra una canzone ed un’altra e sembrano annoiarsi anche i cantanti che si alternano.
Avellino in questo periodo è deserta, non c’è un’anima viva. Le persone, alla prima occasione, si catapultano nelle spiagge più vicine in cerca di un po’ di refrigerio, al riparo dall’estate che ormai incombe.
Sudo anche con l’aria condizionata a palla. Sono quasi le quattro del pomeriggio e non ho voglia di tornare a casa per sorbirmi le solite isterie dei miei che non approvano nulla di quello che faccio.
Mi fermo all’unico bar aperto: una sorta di bugigattolo illuminato a festa, con le luci che ti accecano più del dovuto.
Entro e ordino un caffè al giovane barista, alto, secco e stempianto. Avrà avuto su per giù vent’anni, ma ne dimostra almeno. Mi scruta nervosamente perché l’ho interrotto dalla sua “emozionante” lettura di un quotidiano locale.
Sbuffa, si alza dalla sedia e inizia a lavorare alla macchina del caffè. Mi porge delicatamente la tazzina piena e bevo quella poltiglia nera, orribile, che appena tocca la mia lingua mi viene da vomitare. Poggio un euro sul bancone e il mio sguardo cade sul giornale.
-Posso? – chiedo al simpaticone.
Lui annuisce e si risiede fissando il vuoto.
Leggo passando da una pagina all’altra, annoiandomi anche di questo. Poi, ecco, gli occhi si soffermano su degli annunci molto particolari: QUARANTENNE ANNOIATA IN CERCA DI FACILI EMOZIONI. TELEFONARE POMERIGGIO, ZONA AVELLINO CENTRO.
La mia vena alla testa inizia a pulsare, le mani sudano e prendo, in un nano secondo, la “malsana” decisione di telefonare. È un periodaccio sessualmente parlando: vado avanti ad estenuanti seghe mentali e fisiche.
Segno il numero sul cellulare, esco dal bar senza neanche salutare e chiamo la quarantenne.
-Pronto?- la voce di lei è sensuale.
-Ciao. – faccio io emozionato.
-Dimmi amore…cercavi me?
-Si, ho letto l’annuncio e vorrei, come dire, vorrei vederti!- dico tutto d’un fiato.
-Allora, sono 100 euro e faccio tutto!
-Come sei?
-Sono alta uno e settanta, quarta di seno e un culo perfetto!
-Wow! – faccio io, -In che zona sei?
-Sono in via De Concilii, il palazzo accanto alla scuola, conosci?
-Certo! Sono qui vicino!
-Allora quando volevi venire?
-Beh…ora!
-Ok, mi preparo e quando sei al portone richiamami e ti apro!
-Ok!
Riattacca. Sono arrapato e curioso. La mia curiosità mi fa fantasticare, penso che dalla voce sia davvero una gran gnocca.
Al primo bancomat prelevo la somma pattuita e mi avvio a piedi a destinazione. Arrivo davanti al palazzo, prendo il cellulare e faccio lo squillo alla “signora”.
-Ti apro! Primo piano! Prima porta destra!
Il portone si apre. L’androne è buio, non si riesce a vedere niente. Salgo le scale con quella paura mista a eccitazione. Ho l’affanno e subito sono al primo piano. Davanti a me tre porte. Non capisco niente.
All’ improvviso sento un rumore di chiavi che girano nella toppa.
-Ehi, ehi, dico a te! Eccomi, vieni!
Mi giro e magicamente una di queste si apre. Mi avvicino.
-Ciao amore! Deluso?
La scruto. La osservo dalla testa ai piedi e in un lampo l’eccitazione di prima svanisce in un secondo.
Di fronte a me un tricheco vestito con la langerie nera e tacchi a spillo.
Resto immobile e senza fiato.
-Allora? Che c’è?- fa lei visibilmente scocciata.
-No, no, forse ho sbagliato!- dico, mentre la porta si chiude alle mie spalle.
-Non ha sbagliato!- mi dice.
-Scusa, e che mi sono dimenticato che…, anzi ho avuto una chiamata! Devo scappare! Scusa, ti pago, ma scusami!
Nella mia testa immagino il suo “protettore” che esce da una stanza con una spranga di ferro deciso a rompermi il cranio.
-Vaffanculo stronzo!- fa lei semplicemente.
Mi apre la porta e fuggo via a gambe levate tra l’imbarazzo e lo schifo.
Arrivo al portone sudato e disidratato. Fuori dal palazzo un’afa tremenda. Dentro di me il gelo e il vuoto.

Salvo Barbaro.

La vita di Marco Montemagno | Stay hungry, stay Monty | di Ferdinando de Martino |

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Da scrittore non posso che rimanere ammaliato dalla capacità comunicativa di un autore, di una pubblicità, di una canzone o, come in questo caso, da un personaggio come Marco Montemagno.

Premetto: sono un fan-boy dell’imprenditore italo-britannico.

Giornalmente guardo i suoi video, cercando di soffermarmi più sulle sfumature che sulle tinte forti del format giornaliero in questione. La freschezza degli argomenti è senza dubbio uno dei punti di forza di Montemagno, perchè in un modo o nell’altro su tre video almeno uno riguarda qualcosa che statisticamente andrà a toccare la sfera personale di un esponente del popolo del web.

Non bisogna mai sottovalutare la ricerca del contenuto, perchè (personaggio a parte) ciò che canalizza l’interesse più d’ogni altra cosa è l’idea che quel singolo video stia parlando a te e solamente a te.

Questa è una sensazione che solitamente si prova durante la lettura di un romanzo, proprio per questo Montemagno riesce a fare numeri importanti senza svilire un format costante  e lineare.

Personalmente, quando analizzo i suoi contenuti, mi chiedo sempre : perchè non ho un Montemagno portatile de sfruttare quando vado a comprare una macchina o quando interagisco con un cliente?

La vita di Marco Montemagno la immagino in maniera molto idealizzata, quasi stagnante nell’iperuranio, ma si sa che sono un personaggio abbastanza psicotico.

Se fossi Montemagno, con quel timbro di voce sicuro e rasserenante, a quest’ora avrei conquistato Rihanna, guidato un paese verso una forma di governo utopica, vincendo parallelamente decine di tornei di ping-pong, il tutto con lo sguardo sereno di chi riesce a divertirsi con una birra e un panino, mantenendo i piedi per terra.

Seriamente… la stima che ripongo nei creatori di contenuti giornalieri è immensa ed è proprio grazie a  personaggi come il caro e vecchio Monty che riesco a vedere un futuro idilliaco per la comunicazione del web.

La controparte dell’intrattenimento da click-bait è senza dubbio la ricerca estenuante dei contenuti e la capacità comunicativa di esprimere concetti complessi, semplificandone gli aspetti.

Invito tutti i lettori dell’Infernale a passare un po’ di tempo sulla pagina di Montemagno, spulciando i suoi video; non rimarrete delusi.

Stay hungry, stay Monty.

Ferdinando de Martino.

JOHN WICKER | DREAM | presto su Amazon

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Stiamo lavorando agli ultimi ritocchi al nuovo romanzo di John Wicker “DREAM” e mi ritrovo qui, con questo romanzo tra le mani .

Partire con il progetto editoriale dell’Infernale è un piacere inimmaginabile.

Le uniche anticipazioni che possiamo darvi sono relative al genere: DREAM  è un misto tra la classica narrativa weird e l’horror grottesco.

Ho iniziato a leggere le prime pagine di questo romanzo e mi sono sentito subito trascinato in un mondo fatto di avventure in tinte cupe e vite normali, tramutate in qualcosa di estremamente prezioso.

Sono sicuro che avrete avuto il tempo di apprezzare questo scrittore sul nostro portale, leggendo i suoi racconti e se non l’avete ancora fatto… potete trovarli qui: http://linfernale.altervista.org/j-wicker/

Comprare un libro è un po’ come firmare un contratto con se stessi, una sorta di sfida contro il mondo esteriore pre accrescere quello interiore.

 

John Wicker è uno scrittore sensazionale, capace di commuovere ogni molecola del corpo del lettore.

A breve parleremo anche della trama del primo volume di questa trilogia.

Ah, è vero… mi ero dimenticato di dirvi che DREAM sarà una saga d’autore.

Un saluto a tutti i lettori del blog

 

Ferdinando de Martino.

Enòglie 5,1-20 | Un racconto originale di Emil Brune |

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Enòglie

5,1-20

Mentre l’auto di servizio mordeva l’asfalto a grande velocità, Jeff continuava a guardare nervosamente nello specchietto retrovisore controllando il prigioniero attraverso la grata che li divideva. Affianco a lui non c’era nessuno, il sedile del passeggero era desolatamente vuoto, e la cosa lo innervosiva parecchio.

“Dannazione. Come possono mandarci in strada a rischiare la pelle senza un compagno? Perché non c’è Lewis qui con me? O Gomez? Capisco i tagli al budget. So anche che non siamo a New York. Il capo ha le mani legate. Ma…cazzo. Spedirci di pattuglia da soli è una maledetta follia”.

Era in polizia da poco più di tre anni. Quelli appena necessari per revocargli lo status di ‘novellino’, senza però farlo accomodare nei panni del veterano. Non era né carne né pesce. E, quella notte, mentre tornava in centrale con quel tizio in custodia se la stava davvero facendo nei pantaloni.
L’operatrice lo aveva contattato alla radio quarantacinque minuti prima gracchiandogli addosso un codice quindici. Una stramaledetta segnalazione di violenza domestica. In teoria doveva essere una faccenda di routine: la classica moglie cornuta che schianta qualche porcellana sul marito fedifrago di turno.
Ma il destino aveva in serbo qualcosa di diverso per l’agente Daniels.

– Uno nove due, uno nove due. Jeff, hai un codice quindici al 33 di Hampton Road. I vicini hanno sentito rumori violenti e urla di una donna all’interno 3c, registrato a nome di Charline Harriett. Vedova.
Pare che un uomo si sia introdotto a forza nell’appartamento. Vai a controllare. Chiama se hai bisogno di supporto. Chiudo –

Una volta arrivato, aveva trovato la porta forzata.  Il legno all’altezza della serratura era completamente sbriciolato. Forse un piede di porco.
Nella casa regnava il caos. Sembrava che ci fosse stato un tornado o, quantomeno, un terremoto violento: i quadri che un tempo erano appesi sulle pareti giacevano a terra in frantumi. Stoviglie, pentole e soprammobili erano sul pavimento, ormai ridotti a spazzatura e tristi brandelli. Nell’angolo del piccolo cucinino, Jeff trovò una donna in lacrime. Qualcuno aveva fatto scempio del suo corpo. Aveva un occhio gonfio e un incisivo spezzato. La vestaglia che si stringeva addosso era stracciata come se l’avesse azzannata un rottweiler.
Tremava come una foglia, senza dire una parola. Nemmeno si accorse di Jeff che, con estrema cautela, mano sulla fondina, avanzava cercando di fare meno rumore possibile. Una volta che le fu di fronte, con l’indice sulle labbra, le intimò di non parlare. Gli parve che non lo vedesse nemmeno.
Nessun segno dava l’idea che avesse colto il silenzioso comando impartitole da quel ragazzetto dai capelli color paglia.
Il giovane agente, a quel punto, si inginocchiò di fronte alla donna e le agitò il palmo della mano davanti agli occhi. Niente da fare: continuava a fissare ostinatamente le profondità del nulla.
Era persa in una dimensione lontana, popolata da mostri violenti e da un’agonia perpetua. Vi era stata confinata da quando aveva ricevuto la visita del demonio che l’aveva ridotta in quel modo.
Ma Jeff tutto questo non lo sapeva.
Esaminò meglio quel corpo devastato e vide che aveva dei tagli profondi sulle cosce. Regolari e ritmici. Precisi. Il sangue era colato copioso sul pavimento insieme a quello che, a tutti gli effetti, pareva essere del liquido seminale. Quasi certamente era stata violentata.
Le prese – con delicatezza – il mento fra le dita e sussurrò: – È ancora qui? –
Quel contatto delicato parve rianimarla. Gli occhi di lei si sgranarono per il terrore e prese a tremare ancor più violentemente, come se il ritorno nella loro dimensione le risultasse intollerabile. Poi il suo sguardo si spostò verso l’unica altra stanza dell’appartamento, quasi ad indicargli che sì, c’era ancora, ed era proprio là dentro. Jeff le fece una rapida carezza, sbottonò il laccio di cuoio della fondina e fece per dirigersi verso la camera da letto.

Nell’attimo in cui fletté le ginocchia per alzarsi, le mani di lei saettarono verso la sua, trattenendolo. I loro occhi si intrecciarono per un istante eterno. Quelli della donna, azzurri, gonfi e rossi per il pianto, erano pieni di un terrore che lui non avrebbe mai più visto in vita sua.
Era come se quella creatura sfatta e impaurita avesse incrociato la strada del diavolo in persona.
Mentre Jeff si alzava, divincolandosi dalla presa della donna, lei ruppe il silenzio che aveva regnato fino ad allora. Biascicò un flebile “no, non andare”. Quella reazione lo impietrì. Un gargoyle bloccato dalla paura.
Cosa accidenti le avevano fatto per ridurla in quello stato?
Il poliziotto le fece nuovamente cenno di restare in silenzio, ma lei continuò a supplicarlo disperatamente di non andare. Gli si aggrappò alla gamba come una vergine pronta al martirio. Dovette sottrarsi con decisione alla presa per riuscire a procedere.
A quel punto, il giovane in uniforme prese ad avanzare lentamente verso la porta della camera. Era in un bagno di sudore. Poteva sentire il ritmo folle delle sue pulsazioni attraverso la vena sulla tempia che pareva volesse schizzargli fuori dal volto. La guaina di pelle del cappello d’ordinanza scivolava pericolosamente sulla fronte rischiando di accecarlo da un momento all’altro.
Decisamente un tempismo inopportuno.
Mentre impugnava saldamente la pistola di fronte a sé, sentì le braccia irrigidirsi sempre più. Articolazioni di piombo. Poi, finalmente, la scarica di adrenalina raggiunse il suo apice: entrò nella stanza. Era piccola e angusta. Lungo tutta la parete di destra c’era un grosso armadio di legno. Sul lato opposto alla sua posizione, una finestrella mostrava unicamente il nero pece della notte. Non si vedeva un accidente. Al centro dell’ambiente c’era solo un grosso letto matrimoniale. La luce di una piccola abat-jour sul comodino vicino alla finestra illuminava appena la figura di un uomo che se ne stava seduto sul bordo del materasso a capo chino.

– Ehi, tu. Non ti muovere. Alza subito le mani!

Il tizio non si mosse di un millimetro e non rispose. Jeff respirava pesantemente e gran velocita. Gli capitava spesso di iperventilare nelle situazioni di tensione. Alzò il cane della pistola, sperando che il ‘click’ prodotto dal revolver fosse una minaccia sufficiente per fare eseguire il suo ordine.
Nulla da fare. A quel punto riprovò.

– Ehi, stronzo! Ti ho detto di tirare su le braccia. Alza le mani e uniscile dietro la nuca, sennò ti spedisco al creatore! Mi hai sentito, bastardo?! Forza, obbedisci! Ora!

Silenzio. Assordante silenzio.
Jeff, a quel punto, era schiantato dal panico. Era la prima azione che intraprendeva in solitaria, e la procedura era decisamente più complessa senza un compagno che lo aiutasse nell’arresto. La radio che portava agganciata sopra la spalla era perfettamente inutile fino a quando non fosse riuscito ad immobilizzato il sospetto.
Così agì d’impulso.
Fece rapidamente il giro del letto e si ritrovò di fronte all’individuo. Indossava un lungo paltò nero. Al di sotto di esso portava solo dei jeans lerci e un paio di anfibi senza lacci. Il busto, privo di indumenti, si mostrava tetramente allo sguardo di Jeff pieno di tatuaggi assurdi. Al centro del petto si stagliava una grossa stella nera. Da lì si diramavano una serie di angoscianti figure. Larve, scarabei mostruosi, chiese in fiamme e lupi con zanne grondanti saliva osservavano minacciosi la bocca della pistola.
Sotto la spalla vide il disegno di un gigantesco uomo con la testa d’uccello seduto su un trono nell’atto di defecare piccoli esseri umani urlanti.
Jeff, con le mani tremanti, fece scorrere l’arma lungo quel petto mostruoso fino a raggiungere il mento dell’uomo. Applicò una pressione decisa verso l’alto spingendo alla luce i due baratri neri che quell’essere aveva al posto degli occhi. Una barba folta e ispida gli copriva la faccia e buona parte del collo.
La zona centrale della testa era completamente calva, mentre dai lati scorreva una lunga cascata di capelli lerci.
Quando i loro sguardi si incontrarono, Jeff ne fu come schiantato. Non c’era nessuna luce in quelle pupille.

Era come se stesse osservando gli occhi di uno squalo bianco. O di un Grizzly: due palle nere, vuote e senza vita.
Fu colto a tradimento da un sussulto involontario e indietreggiò impercettibilmente.
Di fronte a quella reazione spaventata, le labbra dell’uomo si incresparono leggermente, facendo correre un brivido gelido lungo tutto il corpo di Jeff.
Decise di reagire. “Non ho paura di te, maledetto bastardo”, mentì a sé stesso.
Spinse la canna della pistola sulla testa del sospetto con decisione, esattamente al centro della stella nera (“ma che diavolo…?”) che portava tatuata sulla fronte.

– Te lo ripeto. Alza le mani e uniscile dietro la testa. Altrimenti sparo. Qui e ora. Ti dirò la verità: non mi piaci neanche un po’. Non mi piace cosa hai fatto a quella donna, e sono da solo a fare un lavoro per due. Dammi una ragione, solo una, e sparpaglio il tuo fottuto cervello per questa cazzo di stanza. –  gli urlò contro. A questo punto schiacciò la pistola in avanti, contro quella stella maledetta, in parte per minacciarlo, in parte per farsi forza.
Come se stesse cercando di convincere sé stesso di quello che aveva appena detto.

Il sorriso storto dell’uomo si fece più marcato e minaccioso. In realtà non era un sorriso. Era un ghigno. Mentre – lentamente – univa le dita dietro i lunghi capelli di corvo, sogghignava sinistramente.
Jeff gli fece scattare le manette ai polsi e agguantò rapidamente la radio.

– Centrale. Qui agente Daniels. Ho arrestato un sospetto nell’appartamento segnalato. C’è bisogno di un’ambulanza per la donna. È ferita…e…credo che sia stata violentata. Chiudo –

Lo spinse fuori dalla camera dopo averlo perquisito. Era disarmato. Non aveva nulla con sé.
Solo lanuggine, sporcizia, tatuaggi inquietanti e quella maledetta faccia da psicopatico.
Mentre passavano in cucina, l’uomo senza nome guardò la donna, si leccò le labbra e, sorridendo, le soffiò un – arrivederci Charline. È stato delizioso. Ci rivedremo presto, ne sono convinto. Molto presto –
Era la prima volta che sentiva la voce di quel tipo. Era profonda e vibrante, come le fusa del gatto della strega. Non era piacevole. Per nulla.
Lei si coprì il viso con le mani e, urlando, riprese a piangere. Jeff si chiese com’era possibile che avesse ancora lacrime da versare. Pensava che le avesse finite da un pezzo.
“Come fa ad avere ancora fiato per urlare?”.

– Muoviti, sacco di merda – gli intimò con uno spintone.

Lo caricò sul sedile posteriore della vettura, dopo di che rientrò nella casa per attendere i paramedici con la donna. La ritrovò seduta al tavolo, in mezzo a quella che fino a poco prima era la sua cucina. Fumava una sigaretta senza filtro facendo una fatica tremenda nell’aspirare il fumo, dato il gonfiore che le deformava parte viso. Piangeva silenziosamente guardando il pavimento.

– Stia tranquilla, signora. È tutto finito. I medici saranno qui tra poco. Avranno cura di lei, mentre io accompagno quella bestia in cella.

La donna annuì silenziosamente senza dare realmente l’impressione di capire ciò che le veniva detto. Sembrava ancora immersa in un’altra dimensione, senza alcuna possibilità di evasione.

– So che non è il momento migliore, ma devo farle alcune domande. Se preferisce posso venire più tardi in ospedale.

Lei scosse leggermente la testa in segno di diniego.

– Va bene, via il dente via il dolore, giusto? – accennò sorridendo.
Non aveva idea di come comportarsi con una donna in stato di shock e quindi il risultato finale fu piuttosto goffo e impacciato. Ma era evidentemente un atteggiamento sincero, dettato dal cuore, quindi la donna gli rispose con un sorriso e un breve su e giù col capo.

– Bene. Mi dica… Conosce quell’uomo?
– No – mormorò appena.
– E non lo aveva mai visto prima di stasera?
– No

Jeff fece un profondo respiro e le chiese se aveva voglia di raccontargli quello che era successo prima del suo arrivo.

– Stavo…stavo preparando la cena. Nulla di speciale. Solo per mangiare qualcosa prima del turno – si interruppe e strizzò gli occhi. Come se ciò che stava ricordando le stesse scarnificando l’anima.
– Poi l’ho sentito… – si interruppe con un singhiozzo.
– Cosa…cosa ha sentito Charline?
La donna non rispose. Aveva i pugni serrati sulle ginocchia e gli occhi chiusi. Le nocche erano viola da quanto stava stringendo la presa.
– Cosa ha sentito, Charline? – la incalzò.

– Un ticchettio… Un ticchettio sulla porta. Come se qualcuno la stesse colpendo con un’unghia del dito.
Si fermò a prendere fiato. Il labbro inferiore tremava.
– Poi ho sentito un sussurro. Mi chiamava. Invocava il mio nome.

Con uno sguardo invasato, posseduta da quel ricordo angoscioso, prese a fissare intensamente Jeff diritto negli occhi.
– ‘Charliiiine…Charliiiine. Apri la porta. Charline, sono qui per te. Sono venuto a prenderti’ – disse replicando con cura angosciante la voce minacciosa del mostro che si era introdotto nella sua casa.

– Ho risposto, pensando che fosse uno stupido scherzo. Quando mi sono resa conto che non era nessuno che conoscevo e quel…quel…quell’uomo continuava a picchiettare e a sussurrare il mio nome, allora ho iniziato ad urlare. Ho minacciato di chiamare la polizia. Ho chiamato i vicini. Poi…  –

– Poi…?
– Ha sfondato la porta.
– Come ha fatto? La porta sembra robusta. Ho visto dei segni sullo stipite. Cosa ha usato?
– Le unghie. Ha usato le unghie.

“Okay. È in shock, Jeff. Passa oltre”.

– E dopo che è successo?
– È entrato. Mi guardava fisso mentre si avvicinava. Quegli occhi. Dio mio, quegli occhi.

Si perse nuovamente in un pianto che pareva senza fine. Lui si alzò e le strinse la testa al petto cercando di calmarla. Tra un singhiozzo e l’altro la sentì pignucolare: – Rideva. Mentre lo faceva, rideva, quel maiale. Ho lottato. Non ce l’ho fatta. E rideva. Ancora. E ancora. Le sue unghie, dio mio. Era troppo forte. Troppo. Dio mio –
Alzò lo sguardo su di luì e, con un’espressione sospesa fra terrore e allucinazione, prese a ripetere – Ha detto che tornerà. Tornerà per me. Uccidilo. Ti prego uccidilo. Ma anche se lo ucciderai tornerà. Dio mio tornerà. Oh mio dio. Oh mio Dio  –
– Charline. La prego. Lei è sotto shock per quello che le è successo. Si calmi. Tra poco i medici saranno qui – disse cercando – senza troppa fortuna – di calmarla.

Fortunatamente per Jeff, i barellieri arrivarono poco dopo e la portarono via. Anche dopo essere stata legata alla lettiga, continuava a urlare che sarebbe tornato. Sarebbe tornato per lei.
Mentre usciva in strada guardò verso la macchina di servizio e, sul sedile posteriore, vide la sagoma indistinta di quell’uomo. Aveva la sensazione che lo stesse osservando. Non poteva esserne sicuro: la distanza era troppa, e il buio sicuramente non aiutava. Tuttavia, i lampeggianti rossi dell’ambulanza si riflettevano ad intermittenza in due punti ravvicinati, appena dietro il finestrino dell’automobile.
“Cristo, sono i suoi occhi”.
Si autoconvinse che si trattasse di suggestione e respinse a calci dal proprio cervello la voglia crescente di chiamare dei rinforzi per il trasporto.
Pianificò mentalmente di accendere la sirena e dirigersi a tutta birra verso la centrale. In venti minuti sarebbe arrivato. Non era un tempo eccessivo.
“Via il dente, via il dolore”, pensò mentre sedeva rapidamente al posto di guida.

E così, adesso, erano entrambi sull’auto. Con Jeff che se la faceva nei pantaloni e spiava freneticamente nel retrovisore per controllare il suo prigioniero. I lampioni della statale illuminavano il volto dell’uomo solo a metà. Nel buio del sedile posteriore, infatti, si intravedevano a malapena le linee del viso al di sotto del naso. Gli occhi sguazzavano anonimamente nell’oscurità.
Nonostante l’agente Daniels non riuscisse a coglierne lo sguardo, era certo che lo stesse osservando.
Lo percepiva.

– Che hai da guardare? – azzardò

Le labbra dell’uomo in manette si incresparono maligne.

– Ti ho fatto una domanda. Rispondi.
– Guardo la nuca del prode agente Daniels – biascicò rauco – L’uomo che mi ha colto in flagrante mentre me ne stavo seduto su un letto. Davvero eroico – disse prendendosi gioco di lui.

Ogni parola era scandita in modo fastidioso. Era chiaro che anche solo la voce di quell’uomo avesse il potere di fargli torcere le budella. Senza neppure il bisogno di guardarlo.
Jeff era disorientato e infastidito. Una paura insensata gli alitava veleno sopra il cuore. E non c’era verso che riuscisse a spiegarsi l’ansia che gli stava divorando il cervello.
“Lui è ammanettato lì dietro, mentre io sono qua davanti, al volante. Armato” si auto-confortò.
“Lo stai portando dietro solide sbarre d’acciaio spesse cinque centimetri. Stai tranquillo. Non accadrà nulla”.
Ciò nonostante continuava ad avere la sensazione di non avere il pieno controllo su quella situazione.
Come se fosse stato impotente nei confronti di quello strano tizio nascosto nell’ombra.

– Come sai come mi chiamo? Non mi sono qualificato. Come sai il mio cognome? – gli domandò a disagio. L’uomo sorrise ancora. Jeff non riuscì a vedere se gli occhi sorridessero in accordo con il movimento delle labbra, ma covava il pensiero che non ci fosse nessuna gioia in quelle fosse nere.
Sapeva per certo che non c’era nessuna armonia in quell’espressione.

– Quante volte devo ripetermi? Devo fermare la macchina e farti conoscere il mio amico manganello?
Come. Cazzo. Conosci. Il. Mio. Nome – scandì, ormai in ebollizione.
– Ce l’hai appuntato sul petto, agente Daniels. Sul distintivo.

“Merda”. Si sentì mortalmente stupido.

– Ah, giusto. E invece, dì un po’. Qual è il tuo nome? Non hai documenti con te.
– Mi chiamo Enòglie.
– E che razza di nome sarebbe?
– Antico.
– Va bene. Allora…Enòglie, sentiamo… Perché hai aggredito quella donna?
– Charline? Che donna deliziosa – disse con tono sognante.
– Stai attento a quello che dici – gli ringhiò contro.
– Beh. È vero. Una femmina davvero amabile quella Charline…Tu chiedi perché.
Perché, perché, perché…ti serve proprio un perché? Perché mi andava. Perché volevo scopare. Perché volevo picchiare. Volevo vedere che colore aveva il suo sangue. Volevo straziarne la carne e l’anima. Volevo inciderla. Ti bastano come ‘perché’? Ne hai avuti a sufficienza?
– Dio mio… Sì, più che abbastanza – disse Jeff sottovoce.
– E tu perché non lo fai?
– Cosa? Picchiare una donna? – rispose ironico.

Enòglie saettò come un predatore feroce contro la griglia provocando un tonfo metallico. Jeff sterzò per lo spavento, riprendendo quasi subito il controllo. Il cuore gli martellava nelle orecchie paonazze e incandescenti.

– Esatto! E poi riempirla col tuo seme. E tagliarla. Schernirla. Sputarle addosso – disse ridacchiando – Perché non fai il male? –
– Tu sei pazzo.
– Te lo dico io il perché, caro il mio agente Daniels – continuò, ignorandolo – Perché sei debole. Perché non sei libero.
– A me sembra che l’unico ad essere in gabbia, qui, sia tu – rispose Jeff con aria spavalda, cercando di nascondere l’angoscia che gli cresceva in petto come un alieno.
– Non te l’hanno mai detto che il sarcasmo ha la lingua forcuta del serpente, agente Daniels? Non te l’hanno spiegato a catechismo? –
Mentre Enòglie pronunciava queste parole, infilò la punta della lingua tra le maglie della grata sibilando come un cobra. Jeff guardò nuovamente nel retrovisore.

I suoi occhi neri saettavano convulsamente per tutto l’abitacolo. Da destra e a sinistra. In alto e in basso.
Proprio come i pescecani in frenesia alimentare. Quando sentono l’odore metallico del sangue.

– C…cosa c’entra  adesso il catechismo? – tentennò.
– Su, agente. Vuoi dirmi che non sei un bravo cristiano? Che non vai a baciare il piediforati ogni domenica? Non ti riunisci insieme alla tua piccola, misera, congrega di cannibali per bere il sangue del redentore?
Bof… Ti conosco meglio di quanto tu non creda, agente Daniels. Una vita casa e chiesa con moglie e figli. Dogmi, regole e leggi da rispettare. Sei un triste essere, agente Daniels. Sei noioso – disse con fare annoiato, lasciandosi cadere con uno sbuffo di pelle sul sedile posteriore.

– E tu, invece? Che saresti? – rispose Jeff scaldandosi. – Tu chi cazzo sei? Che uomo è uno che fa ciò che hai fatto tu? Eh?! Rispondi! Chi è un uomo senza identità, lercio, violento e violentatore come te? Saresti meglio di me?

Ci fu qualche secondo di silenzio, poi la voce roca di Enòglie si raspò una via di fuga attraverso la gola. Esplose rabbiosa, come la piena di un fiume sopito.

– Chi sono? Io sono libertà. Sono divertimento. Io sono anarchia. Non ho né Dio, né patria, né leggi. Non ho amore per niente e nessuno. Nemmeno per me stesso. Io comprendo perfettamente la caducità del mondo che abbiamo intorno. L’inutilità dell’esistenza. Di ogni cosa pronta a farsi stuprare dagli affronti del tempo. Che sia carne, arte, amore, felicità. Bene materiale o spirituale, senza differenza alcuna. Tutto si dissolve e nulla ha senso, per quanto ci possa fare comodo pensare il contrario. Abituatici, figliolo.
Quindi, l’unica cosa che ti resta da fare è abbracciare il nulla. Farlo tuo. Proprio perché nel nulla risiede il senso più profondo: il caos. Quindi, sì, agente Daniels, prendi ciò che vuoi. ‘Scopa, uccidi e caga’, dico io. Domani sarai cibo per vermi. Quindi vai e agisci. Ma fallo ora. E fai ciò che vuoi. Questo è ciò che sono.

– Non sono tuo amico. E tu sei pazzo. Sei completamente pazzo. Non sai quello che dici. Se sei ciò che affermi di essere…o meglio…se hai fatto ciò che hai detto di aver fatto, tra non molto finirai appeso per il collo. E se mi andrà di farlo, potrei addirittura decidere di essere lì per assistere allo show, maledetto bastardo. Anzi, sai che ti dico? Lo farò, te lo giuro.

La risata fragorosa di Enòglie mise in mostra tutti i denti che gli mancavano. Jeff notò – inorridendo – che ne aveva solo una manciata, in quella bocca disgustosa. Sei uncini storti e neri.
– Così mi piaci, mio piccolo, audace poliziotto di campagna. Per una volta sei stato sincero. Così si fa. Abbandonati all’istinto più basso che possiedi e non te ne pentirai – disse ridacchiando – Ad ogni modo non mi fermerà nemmeno lo scorsoio. Tornerò per Charline. Il mio cammino è ancora lungo. Ne ho presi molti prima di lei, e quella puttanella non sarà di certo l’ultima. Quindi non sarai tu ad arrestare il mio cammino. Non tu, né le manette o la pistola. Ricordalo –
– Cosa vuol dire che hai presi altri? Intendi dire che hai ucciso delle persone?

I peli della barba di Enòglie passarono di nuovo attraverso la grata che lo dividevano dal poliziotto. Jeff ne poteva sentire il fiato fetido sul collo.

– Esatto – gli sibilò all’orecchio.
– Stai indietro. Allontanati, o te ne pentirai.

Guardò indietro e vide lunghe unghie nere passare attraverso la griglia metallica. Sembravano degli artigli. Quando gli aveva messo le manette non le aveva notate.
Jeff stava scivolando sempre più a fondo in una situazione paradossale. Un grandguignolesco spettacolo il cui protagonista era personaggio senza alcun senso. Una maschera dell’orrore piovuta da chissà dove per spargere il seme del male e della follia.
Mancavano ormai pochi chilometri alla stazione di polizia, e l’agente Daniels pensò che avrebbe potuto approfondire l’argomento non appena una telecamera avesse potuto registrare la confessione di quel mostro. “Sì…meglio riparlarne dentro una stanza da interrogatorio, con davanti un bel caffè”.
Non lo avrebbe mai ammesso, ma non ne poteva più di quella conversazione. Di quella situazione, di quella serata e di quel maledetto arresto. Non desiderava udire più quella voce nascosta nell’ombra del sedile posteriore. Non tollerava più la vista di quelle unghie da puma, dei denti marci e di quei folli tatuaggi. Voleva solo lasciarlo in custodia ai colleghi e andarsene a casa.
Avrebbe redatto il rapporto in seguito. Così fece.

Il giorno dopo venne a sapere che Enòglie aveva candidamente confessato di aver compiuto la bellezza di trentasette omicidi in giro per tutto il paese. Nelle successive settimane, i dipartimenti federali lavorarono coordinandosi fra di loro per ritrovare i corpi delle vittime che quella belva aveva disseminato per quattro stati diversi. Ne furono ritrovati appena diciannove. Alcuni erano in via di decomposizione, di altri rimanevano solamente le ossa.
Molti erano fatti a pezzi. Ad altri ancora mancavano degli arti. Enòglie sostenne allegramente di averle mangiate. Durante la deposizione ufficiale, cantilenò i nomi dei morti e dei pezzi che diceva di aver divorato seguendo il ritmo di una filastrocca per bambini.
Non furono in grado di accertare la sua identità dato che si era cauterizzato le punta delle dita per rimuovere le impronte digitali. Allo stesso modo, per ovvi motivi, il calco dei denti risultò del tutto inutile.
Era un perfetto signor nessuno. Un vagabondo qualsiasi, un autoeletto emissario del caos, portatore infetto di morte e incubi.

Nei mesi durante i quali si svolse il processo – che Jeff seguiva costantemente sui quotidiani – non riusciva a fare a meno di pensare che l’intera faccenda non avesse alcun senso. Perché Enòglie non aveva ucciso anche Charline quella sera? E soprattutto perché era rimasto seduto sul letto, in quell’appartamento, aspettando che arrivasse qualcuno per catturarlo?
Ne parlò con Gomez e Lewis. Loro erano in polizia da più tempo, e di cose bizzarre ne avevano certamente viste più di lui.

– Alcuni di quei pazzi bastardi vogliono essere presi, Jeff. Anzi, è così per la maggior parte di loro. Mandano messaggi come amanti in calore. Ci contattano, o scrivono ai quotidiani per saziare il loro egocentrismo. “Ehi! Guardatemi! Sono il maniaco primo della classe!”. È successo con Zodiac, o anche con quel pazzo fottuto di Milwaukee. Credo che anche lui avesse telefonato alla polizia locale – abbozzò Gomez mentre Lewis annuiva.

Jeff si fece bastare quella spiegazione, ma senza troppa convinzione. Non ne fu mai convinto per davvero.
Ad ogni modo, Enòglie venne giudicato colpevole per 19 capi di omicidio aggravato e condannato ad essere appeso finché morte non fosse sopraggiunta. Le fotografie sui giornali mostravano il suo volto – dopo la sentenza – felice e soddisfatto, come se non avesse potuto desiderare verdetto migliore.

Il giorno dell’esecuzione, l’agente Daniels era presente tra i testimoni. Non sapeva esattamente cosa lo avesse spinto ad essere lì. Forse la volontà di adempiere alla promessa fatta la notte che lo aveva portato dietro le sbarre. O magari il desiderio irrefrenabile di sentire il suo collo spezzarsi per avere la tranquillità definitiva. La certezza assoluta che il vecchio Enòglie non avrebbe più camminato nel mondo dei vivi.
Che non avrebbe più avuto modo di falciare nessuna vita innocente.

Il palco dell’esecuzione era stato allestito nel refettorio della prigione. Quello spazio era il luogo dove i detenuti si ritrovavano per attività ricreative dove o, nelle feste comandate, si svolgevano le recite teatrali che i reclusi mettevano in scena davanti a parenti e secondini violenti.
Nella sala c’era un intenso odore di disinfettante e zuppa di cavolo.
Davvero un modo pessimo per andarsene.
Davanti al patibolo erano state allineate due ordinate file di sedie. Lo spettacolo di morte poteva iniziare.
Alle 21.30, due agenti di custodia accompagnarono il condannato al patibolo. Aveva i pantaloni grigi della divisa e, sopra di essi, il nulla. Era a torso nudo. Per la seconda volta Jeff si ritrovò ad indagare con lo sguardo su quel corpo allucinante. Scorse una testa di capro che, la prima volta che si erano visti, gli era sfuggita. Ogni costola era segnata da una croce rovesciata. In orizzontale, seguendo le scanalature di quel corpo ossuto, bruciavano tutte. Una tela dell’orrore.
Enòglie entrò sul palco sorridendo, come di consueto, e i suoi occhi presero a frugare avidi fra il pubblico, animati da una  curiosità feroce. Come se stesse scandagliando visi di uomini e donne alla ricerca di qualcuno in particolare. Quando vide Jeff, ad appena sette metri sotto lui, il sorriso si allargò a dismisura. Con la piena illuminazione della stanza, la cosa risultava ancor più inquietante e disgustosa. La sua bocca era un pozzo nero adornato da quelle sei schegge grigio-giallastre. Faceva venir voglia di voltare la testa a chiunque osservasse. Jeff sostenne il suo sguardo, seppur con qualche difficoltà: avrebbe voluto fuggire lontano da là. Si pentì di essere andato alla prigione per l’ultimo show di quel demonio.
La corteccia motoria del ragazzo aveva già comandato il movimento alle ginocchia, pronte a guidarlo lontano, fuori da quel posto. Ma qualcosa lo interruppe.
Enòglie, trattenuto dagli agenti di custodia, inclinò leggermente il busto in avanti, e gli sussurrò

– Hai mantenuto la promessa. Bravo. Anche io manterrò la mia. Tornerò. Per Charline –

Poi gli fece l’occhiolino. Dopo di che, prese a fissare il vuoto davanti a lui.
Jeff era livido: avrebbe visto il bastardo morire. Non sarebbe scappato. Non di nuovo. Incrociò le gambe e prese a fissarlo con attenzione, cercando di sfoggiare la sua migliore espressione di godimento. Stava guardando un grosso cono al pistacchio che stava per essere appeso al nodo definitivo.
Adorava il pistacchio.
L’ufficiale addetto all’esecuzione lesse la condanna e domandò all’uomo se avesse delle ultime parole.
Enòglie, udita la domanda, mosse di scatto la testa verso Jeff e disse solamente

– Via il dente, via il dolore. Giusto? –

Poi prese a ridere come se avesse appena pronunciato la più gustosa delle battute.
Era una risata folle, malata e sguaiata. I testimoni rimasero gelati da quella scena, e cominciarono a guardarsi fra loro, smarriti, senza capire cosa diavolo stesse succedendo in quell’auditorium che puzzava di lisoformio, cavolo e morte.
La botola si aprì con uno schianto facendo schioccare la corda come una frusta.
Ma il collo di Enòglie non si spezzò.
I suoi piedi danzavano furiosi, scalciando con malagrazia la ballata degli impiccati mentre continuava a grugnire quella che, in tutta evidenza, era un’angosciante risata strozzata.
Un lungo rivolo di bava biancastra gli segnava la barba. I suoi occhi di tenebra erano vivi. Ridevano.
Per la prima volta Jeff vide una luce là in fondo.
Ballò per loro per circa un minuto e mezzo, fra suoni gutturali e schizzi di saliva. Poi, la stella nera sul suo petto smise di ciondolare, quieta, forse come mai era stata prima di allora.

A distanza di un anno dalla morte di Enòglie, Jeff aveva fatto richiesta di essere messo dietro una scrivania. Il capo non si oppose con troppa veemenza. Sapeva bene che il ragazzo era rimasto bruciato da quella faccenda e aveva intuito quanto il servizio in strada non facesse per lui.

Un giorno, riordinando casa, sotto pile di giornali, trovò sul tavolino del suo salotto una vecchia cronaca del processo. Rivide quegli occhi. Quei due profondi baratri osceni.
L’indomani, pungolato da quel ritrovamento, guidò fino a Hampton Road. Desiderava vedere come se la stesse cavando Charline. Se fosse riuscita a nascondere sotto il tappeto della sua mente la violenza patita per colpa di Enòglie. Se era stata tanto fortunata da aver trovato qualcuno – o qualcosa – in grado di lavare via quello schifo dall’archivio dei suoi ricordi. Anche solo in parte.
Quando suonò al campanello, si meravigliò nel sentire nel suo cuore una viscida patina di angoscia. Stare di nuovo sull’uscio di quell’appartamento lo metteva in agitazione.
“Brutti ricordi” si giustificò.
La porta era stata sostituita, ma lo stipite interno portava ancora i segni della brutalità del lupo cattivo dai lunghi artigli neri. Ad aprirgli la porta fu un uomo sulla settantina.

– Sì?
– Buongiorno, sto cercando miss Harriett.
– Non la conosco – bofonchiò scortesemente il vecchio, incominciando a chiudere la porta.
– Mi scusi…mi dia solo un attimo. Questa donna abitava qui. Probabilmente doveva essere l’inquilina precedente – disse Jeff con una nota di supplica nella voce.
– Io non ne so nulla. Sto qui in affitto da un pezzo. Arrivederci.

Da buon topo da ufficio quale era diventato, fece la cosa più razionale che gli potesse balenare in mente: correre alla centrale e controllare sul proprio terminale che fine avesse fatto Charline.
Mentre guidava la sua Ford bianco sporco verso la stazione di polizia, si domandò se la donna avesse cambiato casa per sradicare dalla sua quotidianità l’evenienza di ricordi spiacevoli.
Forse aveva addirittura cambiato città.
“Molte vittime di violenza tranciano i ponti di netto. Smantellano baracca e burattini e si lanciano verso l’orizzonte, alla ricerca di un nuovo inizio” frullò razionalmente nel cervello.
Raggiunto l’ufficio, si preparò una tazza di caffè e sedette sul suo scomodo trespolo di legno.
Il vecchio macinino che si ritrovava per computer arrancava con una lentezza esasperante mentre lui tamburellava nervosamente sulla scrivania.
Poi, finalmente, apparve il file.
Più gli occhi di Jeff saettavano da sinistra a destra, verso il fondo del monitor, maggiore era il tremito che  animava le sue mani.
Lo schianto della porcellana riecheggiò nel vuoto domenicale degli uffici deserti.
Un vapore leggero aleggiava sinuoso sopra schegge di vetro e pozze di liquido nero.
Charline Harriet era scomparsa sette mesi prima.

Emil Brune.

I Daiana Lou vincono X Factor 10 (lasciandolo) | Lezione di stile | di Ferdinando de Martino

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Le luci fiammeggianti e studio ghermito di un pubblico abituato ad abboccare all’amo mediatico della musica preconfezionata… lo spettacolo può cominciare.

Tre concorrenti (tra cui un gruppo) rischiano l’eliminazione. Un rapper e un cantante in bilico tra il vendere la propria madre e l’andare a letto con Costanzo pur di restare all’interno del format più seguito di Sky, stanno sudando freddo, consapevoli della bravura dei “Daiana Lou”, gruppo italiano uomo-donna proveniente dalla Berlino della strada.

Ad un certo punto i Daiana Lou prendono il microfono e palesano la decisione di auto eliminarsi.

Il pubblico è sconcertato. Per dovere di cronaca, ricordiamo che il pubblico medio di X Factor non ha la più pallida idea di chi sia Lou Reed, ma conosce alla perfezione la discografia (un solo disco) di Lorenzo Fragola, quindi non è poi così difficile da destabilizzare.

Le motivazioni del gruppo lasciano tutti di stucco -Lasciamo X Factor perchè non siamo a nostro agio in questo ambiente. Passare da un memoriale per ragazzo morto alla pubblicità delle patatine per noi è troppo.

Per quanto mi riguarda, un duo di fricchettoni italo-berlinesi ha definito la televisione con una descrizione lapidaria e inattaccabile.

Il messaggio è il seguente: chiunque abbia un minimo di contenuto non può fare X Factor.

Ovviamente tutto è passato in secondo piano, perchè Fedez ha limonato con un una sua concorrente.

E voi cosa ne pensate?

Ferdinando de Martino.

Lo so, sono uno stronzo… | Il nobel? Non ho tempo | di Ferdinando de Martino

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Carlo Verdone insulta, tramite Dagospia, il noto menestrello americano.

L’accusa è quella di soffrire di una totale mancanza d’umiltà. In pratica… Verdone ha scoperto che Bob Dylan è uno stronzo.

Probabilmente domani l’attore romano scoprirà che Jim Morrison si drogava e che a quanto pare Tenco si è sparato.

Che Bob Dylan sia uno stronzo conclamato è risaputo a tal punto che qualcuno ha perfino pensato di fare un film sull’argomento, coinvolgendo una carrellata di attori fenomenali; quindi non stupiamoci del carattere del ricciolino più famoso d’America.

Dopo intere settimane di silenzio è finalmente arrivata la notizia del menestrello beat -Non andrò a ritirare il Nobel, perchè ho un impegno.

Nonostante tutto Dylan è una persona semplice, da un po’ di tempo ha deciso di dedicarsi agli acquarelli, dipingendo un’America retro-utopica e questo occuperà sicuramente gran parte del suo tempo. Ogni artista è a suo modo un misantropo e ogni misantropo ha il sacrosanto diritto di fottersene di chiunque sulla faccia del pianeta, perchè il suo unico lavoro è quello di produrre opere convincenti e non quello di ritirare premi.

Molti artisti avrebbero venduto un rene per il Nobel, mentre per Bob Dylan tutta questa frivola attenzione mediatica è solamente una rottura di coglioni, perchè lo avrà costretto a sollevare la testa dai suoi progetti.

Mi dispiace per la sfuriata di Verdone, ma personalmente credo che Bob Dylan non sia un nostalgico, ma un esemplare unico di ARTISTA. Non si può chiedere ad un tizio che faceva colazione con Ginsberg di diventare un burattino mediatico… dopotutto stiamo parlando d’arte e non di Justine Bieber.

Purtroppo siamo abituati a vivere in un’epoca in cui le cantanti leccano martelli (e probabilmente non solo quelli), gli scrittori fanno radio, i poeti si fotografano i bicipiti tatuati in palestra e gli attori scrivono romanzi, gli sportivi incidono dischi, e gli spacciatori internazionali sono le vere rockstar. Insomma… è andato tutto a puttane senza che ce ne accorgessimo e adesso siamo troppo in ritardo per sistemare le cose.

Kurt Cobain non sarebbe entrato ad X Factor perchè ad Alvaro Soler non sarebbe arrivato e probabilmente Burroughs non avrebbe mai pubblicato un libro, perchè il suo profilo social non era trendato abbastanza.

Il deserto di contenuti che ci stiamo progettando a tavolino farà credere alle nostre figlie che per fare la cantante basterà essere zoccola e mimare un amplesso con il microfono in mano e ai nostri figli che esseregli artisti bisognerà fare gli sportivi.

Dovremmo sinceramente essere grati a Bob Dylan, perchè la lezione che ci sta (gratuitamente) regalando è una ed una soltanto: abbassate la testa sui libri e smettetela di pensare a queste puttanate.

Se Mr. Tambourine man non ha tempo per il nobel, forse noi inizieremo a trovare il tempo di essere meno rincoglioniti.

 

Ferdinando de Martino

Lettera apocrifa di Gesù | di Ferdinando de Martino

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Mi avete tradito. L’avete fatto in milioni di modi differenti, alcuni dei quali denotano addirittura una notevole accezione demoniaca.
Oggi voglio essere esaustivo, quindi procederò per gradi, in modo che possiate comprendere la mia parola senza fraintenderla.
Partirò proprio dal fraintendimento.
Tutto ciò che io ho detto si potrebbe riassumere in una sola frase: Aiutate tutti e non chiedete mai soldi.
Mi sono sforzato per anni, cercando di capire come abbia fatto la chiesa cattolica a rigirare questo mio concetto in: dateci i vostri soldi per comprare case, appartamenti, auto, conti in Svizzera, obbligazioni, aneli e per aiutare qualcuno, semplicemente come specchietto per le allodole per fregavi tutti, allocchi bifolchi.
Avete trasformato un amore romantico per il genere umano in una sorta di baccanale votato all’accumulo, predicando una povertà della quale non ricordate nemmeno il significato.
E voi, cristiani che affollate le chiese di tutto il mondo ogni domenica, come diavolo fate a mettere dei soldi nel cestino delle offerte?
Non vi accorgete da soli che gli intermediari non servono a niente?
Se volete donare ad un povero cinque euro, donateglieli quando lo incontrate per strada, al posto d’ignorarlo come se vi stesse per stuprare l’anima. Anche se non vi vedrà nessuno, dateli direttamente a lui, perchè l’elemosina non è un modo per farsi belli agli occhi di decine di vecchiette ingioiellate.
Non fatevi ingannare dal fatto che la chiesa si sia autoproclamata intermediario tra il vostro denaro e i poveri; non serve nessun maledettissimo intermediario tra voi e un uomo per strada.
Voi continuate a donare, i poveri rimangono poveri e i vescovi hanno degli anelli con rubini. Da dove crediate che arrivino quei rubini? Come pensate che la chiesa li abbia acquistati?
Io detesto i rubini, così come detesto i diamanti, l’oro, l’incenso e anche la mirra.
Tutto è diventato denaro. I miei portavoce hanno un unico e vile mantra: dateci i vostri soldi.
Vi ricordate quando nel tempio venni arrestato dalle guardie romane? Immaginate cosa potrei fare davanti alla raccolta delle offerte la domenica pomeriggio? Per non parlare del vaticano…
Guardatevi dentro l’anima, se ancora ne avete una, sprofondando nell’amore che ho tentato invano di donarvi.
Il mio compito è quello di amare tutti, anche i preti che sodomizzano i bambini, mentre il tuo compito, carissimo Papa, è quello di denunciare e punire le ingiustizie.
E non provate nemmeno a dire che il vostro compito non è quello di amare, perchè non vi siete fatti nessun problema a sterminare gli indiani e benedire i campi di concentramento. Avete bruciato centinaia di persone, lucrando addirittura sul Best Seller medievale “Malleus Maleficarum”, sempre in mio nome.
Le indulgenze… quelle continuano ad esistere in forme differenti. Immagini sacre col volto dei santi: dammi i tuoi soldi. Otto per mille: dammi i tuoi soldi. Palme pasquali: dammi i tuoi soldi.
Tutto quello che toccate diventa MALE.
Continuate a crocifiggermi, giorno dopo giorno, dentro ogni aula di scuola, crocifiggendomi in ogni parete solamente per un motivo: datemi i vostri soldi.
Prendete ogni scuola, un crocifisso in ogni aula, perchè? Per i soldi. Non c’è nulla di religioso in tutto questo. Al posto di espormi come un animale sviscerato, chiedendo del denaro in cambio, provate a vendere tutto ciò che avete, risanando in un solo giorno il terzo mondo.
Il gioco si romperebbe. Senza la grande esca, nessuno riempirebbe le vostre casse.
Un prete grasso è inaccettabile in un mondo in cui i bambini africani muoiono di fame.
Quello che vi auguro è che un giorno capiate da soli che il mondo perfetto dovrebbe essere pieno di preti che muoiono di fame e bambini africani grassi.

Cordialmente

L’uomo che continuate a crocifiggere ogni maledettissimo giorno.

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Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore | Compleanno | Salvo Barbaro

Oggi è il giorno dei giorni. Mi hanno sempre detto che festeggiare i diciotto anni, anni della maturità, anni del “cazzo, posso fare quello che voglio, senza che i miei possano rompermi”, sia il giorno più bello di tutta la tua vita, indimenticabile.
Non è vero. Per me è una grossa stupidaggine. È un giorno come tanti, assolutamente uno dei tanti. C’è chi ti lecca il culo se lo inviti alla tua festa, c’è chi te lo lecca per essere invitato, c’è chi ti dice -Ti vedo benissimo oggi, più maturo!-, c’è chi, invece, non ti calcola comunque.
Io la famosa “festa” non la faccio. Festeggerò con i miei “magnifici” parenti la domenica prima o quella dopo, ma sono l’unico e dico l’unico della mia generazione a non farla. Mio fratello, quattro anni prima, ha festeggiato con i suoi amici, io no. I miei mi hanno chiesto se volevo farla, ho dubitato, ho perso tempo, forse troppo, mi sono giocato la “grande occasione”. Nulla, niente festa.
Vado ancora a scuola. Faccio il penultimo anno di ragioneria. Stessa scuola di mia madre e di mio fratello, stesso istituto, stesso percorso.
Mi sveglio verso le sette del mattino. Mia nonna mi porta il caffè a letto. Un onore per me, una gioia sentirla entrare con il passo veloce, aprire le persiane della finestra di camera e toccarmi la spalla dolcemente. Il profumo che proviene dalla tazzina è quello che nella vita non scordi mai, un tenero ricordo. Poesia allo stato puro.
Bevo lentamente e penso. Penso che non voglio andare a scuola, oggi proprio non me la sento. Voglio regalarmi un bel “filone”. A pensarci bene sono maggiorenne, posso firmarmi le “giustificazioni” da solo, bellissimo. Sospiro, mi alzo e mi preparo alla meglio. Mi guardo allo specchio. Sono brutto, mi vedo un cesso. I miei amici alla mia età già hanno avuto la loro prima esperienza, io no. Mai una ragazza, mai un misero bacio. Forse non piaccio, forse mi vergogno, sono timido. Forse ho paura. Preferisco fumare e poi mangiare, abbuffarmi davanti la tv fino a tarda sera, masturbarmi davanti a un bel film porno. Mi piace la solitudine, la calma, la noia.
Dopo il solito rito degli auguri, delle risate di circostanza che personalmente odio, saluto nonna, mio fratello ancora assonnato e mio padre. Mi dirigo velocemente alla fermata del bus. In mente un unico pensiero: non andare a scuola.
Ok, ma che faccio? Che farò da solo? Devo trovare uno o più complici. Mentre la mia testa frulla, una mano sulla spalla mi spintona, il nervosismo mi sale e non poco. Mi giro di scatto.
-Auguri ciccè! – mi dice M., mio amico, direi il migliore.
Ciccetta, il soprannome che mi porterò per tutta la vita. Non mi offendo se mi chiamano così, è simpatico, direi anche carino e non volgare.
-Oh M., grazie!
Lo abbraccio e ci guardiamo negli occhi. Al volo subito ci capiamo.
-Filone? – mi fa.
Annuisco. Sorrido. È fatta.
L’autobus arriva. Come al solito restiamo in piedi e il puzzo di caffè, sudore, sigaretta, dentifricio ci accompagna. Poi le urla, il parlare senza ritegno, gesticolare, spintoni, frenate di schianto. Odio la confusione.
Finalmente arriviamo. Io e M. scendiamo e cerchiamo di organizzarci sul da farsi. Davanti a scuola meglio non andare per evitare di incontrare qualche professore o qualche spione. Sicuramente l’indomani mi dovrò sorbire qualche “filippica” di qualcuno che mi dirà che apposta ho saltato le lezioni per non offrire, per non festeggiare con loro. “Chissenefrega!” penso.
-Andiamo in sala giochi, lì per il momento nessuno ci vedrà! – mi dice M., esperto in “filoni”. Bocciato due volte e un anno solamente per le assenze.
Annuisco. Sono emozionato e il cuore mi batte a mille.
Entriamo in questo posto. Fuori c’è il sole, dentro il buio totale. Il puzzo di sigaretta si sente lontano un miglio. Il fumo sembra nebbia. Un centinaio di macchinette videopoker, sonanti e luccicanti, fanno da contorno ad una sala immensa di altri videogiochi, quattro o cinque sale biliardo e la cassa gettoni dove a gestirla c’è un omone grande, grosso e ciccione. Ci scruta appena entriamo, ci perquisisce e ci fulmina con lo sguardo.
-Documenti! – ci dice.
Wow, è il mio momento, lo sognavo da anni. Orgoglioso prendo la mia carta d’identità e gliela “sbatto” in faccia.
-Diciotto anni oggi! – gli dico orgoglioso.
-Auguri, ma non me ne importa nulla! – mi dice con la voce rauca e con la faccia sudata e cattiva.
Deglutisco. Fa veramente paura, sembra un mostro. Ci ridà i documenti.
-Non voglio casini nel mio locale!
-Ok! – facciamo all’unisono e ci dirigiamo al piano superiore dove c’è un bar e anche la cucina. Ci sediamo. Mi frugo nelle tasche. Guardo il portafogli. Ho cinquanta mila lire. Sospiro felice.
-Caro M., oggi sei mio ospite. Si festeggia!
Mi sorride.
Il locale inizia a riempirsi di tutti i ragazzi di Avellino e provincia che sono lì per lo stesso e identico motivo. Lo sguardo resta quasi sempre fisso all’entrata del locale, per paura che qualcuno di nostra conoscenza possa scoprirci.
Ordiniamo da mangiare, ma soprattutto da bere. Birra a volontà. Ridiamo, scherziamo, brindiamo, parliamo dei nostri amici che non sono lì a godersi questo momento. Urliamo. Chiacchieriamo di niente mentre l’alcol inizia a fare il suo dovere. Prendiamo in giro la cameriera sudata, un ragazzo vestito con la felpa di pile che sembra un pastore, le ragazze accanto a noi che non sanno fumare.
Restiamo seduti in quel letamaio fino alle due. Siamo ubriachi come tegoli. Le cinquanta mila lire le ho salutate, ci alziamo e barcolliamo vistosamente. Ridiamo e finalmente vediamo la luce del sole. Mi gira tutto. Lo stomaco è sotto sopra. Mi sento male. M. mi guarda e mi prende in giro dicendomi che sono un pivello che non riesce a reggere l’alcol. Mi avvicino lentamente a un muro, poggio le mani. Inizio a vomitare. Una, due, tre volte. M. ride ancora. Alzo la testa, lo guardo, rivomito. Noto le scarpe sporche, impreco.
Sospiro. Alzo la testa di nuovo. Mi sento meglio. Respiro profondamente.
-Ciccè, tutto ok? – mi chiede M.
Annuisco e non dico niente.
Si avvicina e mi poggia una mano sulla spalla. Sto meglio e se ne accorge anche lui.
-Grazie! – mi dice sorridendo.
-Grazie a te per la giornata, socio.

Salvo Barbaro.

Il riflesso di Pavlov | Non chiedeteci troppo… | Trump V.S. world

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Ivan Pavlov aveva un un cane. Nulla di trascendentale… era un semplice cane.

Un bel giorno, Ivan Pavlov notò che il suo cane sbavava sul tappeto alla vista dei suoi amati croccantini e anche qui… nulla di strano, anche il mio cane sbava sempre quando vede i croccantini.

Nei giorni successivi a questa scoperta, Pavlov decise di suonare un campanello prima di nutrire il suo amato amico a quattro zampe. Proseguì con questa singolare abitudine per svariati giorni.

Verso la fine di questa storia, Pavlov applicò a lato della bocca del cane, una piccola provetta e dopo aver suonato il campanello, notò che la salivazione del cane reagì esattamente come avrebbe reagito davanti alla vista dei croccantini.

Gli impulsi umani si possono programmare.

Adesso parliamo del quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti d’America.

Credo, personalmente, che l’elezione di Donald Trump sia sintomatica di un’istintività repressa dell’uomo e della donna. Tale istintività era stata soppressa  dalla cultura, ma sotto sotto il suo germe non era mai stato debellato completamente.

Mi spiego meglio. Nessuno di noi schiaffeggia una donna sul culo quando sale sull’autobus, eppure sappiamo che il culo è lì, esattamente come la nostra mano; il fatto è che anni ed anni di cultura , hanno apportato in noi una consapevolezza atta a capire che schiaffeggiare la donna in questione non è educato, esattamente come hanno apportato nella donna la consapevolezza che l’uomo non deve permettersi di sculacciarle il fondoschiena.

Ora, l’istinto di sculacciare una donna esiste nell’uomo, nonostante questo abbia imparato a dominarlo, esattamente come esiste nella donna la consapevolezza che un culo è in grado di focalizzare l’attenzione dell’uomo (Rihanna docet).

Quando Bush e Obama parlavano di pace facendo la guerra, mantenevano un certo stile e, credetemi, in politica non serve altro, perchè nessuno vota i contenuti, ma lo stile.

L’unico motivo per cui Bogart non è presidente è la morte di Bogart.

Quando gli uomini e le donne sentono i discorsi di Trump, sanno perfettamente che le parole non sono schiaffi sul culo, esattamente come il cane di Pavlov sapeva che il campanello non era commestibile, ma proprio come il suddetto cane riusciva a correlare a livello istintivo il campanello alla pappa, l’uomo e la donna riescono a collegare alla voce di Trump lo schiaffo sul culo.

Quando sentiamo Trump dire frasi del tipo -Io le donne me le scopo come e quando voglio, perchè sono donne.-, sappiamo che il genere femminile dovrà ribellarsi a quelle affermazioni, eppure queste femministe che fino al giorno prima bruciavano reggiseni davanti alle foto delle modelle anoressiche… corrono a votare Trump.

Stessa cosa per gli uomini che la domenica vanno in chiesa a pregare per una religione dettata da un tizio che sostanzialmente ha detto -Accogliete tutti i poveri.-, per poi andare a votare un uomo che sostiene che tutti i fottuti messicani debbano tornarsene nel loro paese.

Il motivo e semplice: non chiedeteci troppo… siamo solo esseri umani.

Compriamo nei supermercati e facciamo le parole crociate ma se ci chiudete in un ascensore per tre giorni, finiremmo per mangiare le nostre feci come ogni altro animale del pianeta.

Anche se parliamo di cose complicate e leggiamo Joyce, il campanello suona,  la nostra saliva scende a livello istintivo e nessuno può dominare l’istinto…

Trump rappresenta la voglia della femminista di essere sculacciata sull’autobus e lo schiaffo caricato nella mano del Mahatma Gandhi sul quattordici barrato.

Ferdinando de Martino.

Scrittura creativa | DESCRIZIONI CONVINCENTI | di Ferdinando de Martino

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Una delle regole basilari della scrittura è stata ampiamente descritta da autori come Hemingway: SEMPLICITÀ
Il problema della semplicità come concetto letterario è abbastanza particolare, perchè per quanto possa risultare ironico, non è semplice essere semplici.
Partiamo dal concetto di semplificazione.
Leviamoci dalla testa che semplificare voglia dire tagliare, no… tagliare vuol dire tagliare, mentre semplificare e una mera questione di punti di vista.
Per spiegare al meglio questa cosa, utilizzerò un semplicissimo esempio propedeutico alla semplificazione.
Nella narrativa contemporanea, la semplificazione è sinonimo di verità e tutto ciò che non risulta vero diventa automaticamente artefatto o complesso.
Ma come facciamo ad essere veri?

Prepariamo un soggetto per un incipit:

Una ragazza legge una lettera, seduta nella sua cucina.
Abbiamo il soggetto e adesso proveremo a realizzare in maniera veritiera questa scena, partendo da un modo grezzo di descrivere il tutto.

Marta stringeva tra le mani la carta porosa di quella lettera, contenente una risposta che attendeva ormai da troppo tempo.
La cucina era silenziosa, quasi come se stesse aspettando qualcosa di ancestrale.

Vedete? Abbiamo la cucina, la ragazza e la lettera; oltretutto abbiamo usato anche il termine “ancestrale”, quindi dovremmo essere dei fighi… invece, manca la verità.

Come arriviamo a ciò che è vero? Cambiando prospettiva.
Quando raccontiamo una storia, siamo davanti ad una tastiera. Questo è il primo errore: quando scriviamo una storia, dobbiamo essere all’interno della storia.

Se entriamo in quella cucina, vivremo l’ambiente, ma questo non vuol dire che dobbiamo metterci a descrivere ogni oggetto e sensazione, perchè Proust è già esistito. Quello che dobbiamo fare è vivere in maniera reale tutto ciò che ci circonda.
Limone. La fragranza del detersivo per i piatti che stagnava nel lavandino era sicuramente limone.
Riusciva ad infiltrarsi nel legno, passando per le intercapedini, tra i muri, sotto le sedie e perfino nelle narici di Marta, impegnata a sfiorare la colla appiccicaticcia di quella busta.
La sedia scricchiolava, interrompendo gli attimi di silenzio in cui si perdeva in mille divagazioni.

Abbiamo la cucina, anche se non è stata nominata, abbiamo la busta, la sedia e Marta ma la verità è data esclusivamente dai sensi implicati nella descrizione.
Non c’è nulla di visivo, perchè in questo caso ci siamo affidati solamente all’olfatto, all’udito e al tatto, eppure il lettore ha la scena davanti agli occhi: una ragazza legge una lettera, seduta al tavolo della sua cucina.
Il lettore non è uno stupido, anzi, nella maggior parte dei casi è più intelligente dello scrittore, perchè il tempo che lui impiega a battere le parole sulla tastiera, il lettore lo impiega leggendo e questo la dice molto lunga su tutta la questione.

Non dobbiamo mai dimenticarci che un libro è intrattenimento e l’intrattenimento è interattivo: mai dare troppo o troppo poco.
Dare il giusto al nostro pubblico, significa semplificare la narrazione con espedienti sensoriali, atti a gettare il lettore all’interno della storia, facendolo sentire parte integrante di quel magico processo che è la letteratura.

 

Ferdinando de Martino.

Diario di uno scrittore psicotico | La donna più bella del mondo | di Ferdinando de Martino

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Li usava per guardare, ma quelli non erano semplicemente degli occhi.
Mine anti-uomo, ecco cos’erano. Potevi passarle accanto senza nemmeno notarla, magari assorto nelle divagazioni di una vita votata al nulla del momento, ma se ti capitava d’incontrare quegli occhi eri un uomo morto.
Si potrebbero scrivere romanzi ed intere saghe sulla bellezza di certe donne, la letteratura ne è piena, un po’ come se gli scrittori non avessero altro mezzo che la parola stampata per rimorchiare le donne, ma per lei era differente; l’inchiostro non avrebbe mai potuto imprimere su carta quelle mani, le gambe e tutto il resto.
Forse non era una donna, ma una poesia macabra. Ogni istante di perfezione si sarebbe perso nella fugace corsa del tempo, lasciandosi alle spalle brandelli di bellezza inafferrabili. Lo sapeva lei, esattamente come lo sapevano tutti gli altri.
Forse un quadro o una foto avrebbero potuto fermare quel processo, ma la consapevolezza che la donna dipinta su tela o impressa su celluloide non fosse realmente lei, ma una versione di lei differente da quella momentanea, avrebbe ucciso ogni artista.
I suoi uomini avevano il Q.I. di una pallina da ping-pong. Non so dire se li scegliesse a tavolino o semplicemente le capitassero a tiro sempre gli scartati dal raziocinio, ma il loro lessico era simile in tutto e per tutto a quello degli uomini di Neanderthal.
La guardavamo tutti, un po’ come se fosse più una partita di calcio o un buon incontro di boxe, piuttosto che una donna.
Continuavamo le nostre vite, lavori, assicurazioni, panini e tutto il resto, ma la sola consapevolezza della sua presenza riusciva a regalare un sorriso o un pianto, senza la necessaria correlazione con l’ambiente esterno.
Non era una donna… era bipolarismo.
Un marciapiede diventava una passerella internazionale e noi zotici di quartiere scattavamo fotografie mentali, improvvisandoci paparazzi del subconscio.
Come diavolo avevano fatto i suoi genitori a darle un nome? Non si poteva racchiudere un concetto in un nome; in questo Shakespeare aveva proprio ragione.
Gli inglesi e la loro perfezione stilistica… ma questo è un discorso a parte.
Potevi parlarci, berci assieme e se ti impegnavi potevi perfino scopartela, ma qualcosa di lei ti sarebbe sempre sfuggito dalle mani.
Scappa uomo finché sei ancora in tempo, non ti voltare. Ti voltavi ed eri finito.
Magari nel giro di tre giorni o di una decina d’anni, ma credetemi, quella condanna era già stata firmata.
L’impressione era sempre quella di trovarsi davanti alla conclusione di qualcosa.
Quella donna rappresentava la completa incapacità del genere umano di distinguere un lieto fine da una tragedia.

Ferdinando de Martino.

Mamma Rai e il bullismo stipendiato | Lo strike della Littizzetto | Ferdinando de Martino

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Mamma RAI riesce sempre a dare il buon esempio.

In un periodo in cui non si fa altro che parlare di bullismo, cyberbullismo e affini, ho assistito ad una scena da Oscar in diretta televisiva.

Non c’è niente da fare… gira che ti rigira, per quanto il tempo sia passato da quelle impiccagioni delle piazze medievali alle quali partecipavano tutti i sudditi dei vari regnanti, la formula che continua a vendere più d’ogni altro format è sempre la stessa: sbatti il mostro in copertina e prendilo in giro.

Non importa quanto sembri sincera una persona; tutto quello che esce dalla bocca dei teatranti dell’industria televisiva è -Datemi la vostra attenzione così possiamo tramutarla in ville e piscine.

Ricordate quando Luciana Littizzetto si prodigò con tutta se stessa contro gli atti di bullismo di un gruppo di studenti di un liceo scientifico? Io lo ricordo molto bene, perchè tutto ciò che ha come minimo comune denominatore il qualunquismo si stampa a fuoco nella mia memoria.

In questi giorni la stessa comica ha basato un suo intervento sulla seguente struttura:

Prendi Mickey Rourke, piazza la foto del noto attore davanti al pubblico e prendilo in giro per i suoi ritocchi, per il modo di vestire e per la sua somiglianza con una milf.

Bene… tutto regolare con lo stile RAI: oggi vende la predica contro il bullismo, domani vende il bullismo.

Qualcuno di voi saprebbe dirmi, in totale sincerità, in cosa differisce il gesto della Littizzetto da una qualsiasi gogna studentesca in cui lo studente effeminato viene preso in giro davanti ad un’intera classe?

Dai… ve lo dico io. Il bullo della scuola media ha tredici anni, non cinquanta e a livello teorico, ci si dovrebbe aspettare un po’ più di cervello da parte di una persona matura.

La comica ha definito in diretta televisiva, il noto attore, come un Rambo pronto per il gay-pride. Insomma, uno strike di categorie per l’attrice che ha deciso di emulare Salvini per intelletto a quanto pare.

Vorrei solamente dire una cosa alla Littizzetto.

Luciana, anzi, Lucianina… se vuoi assumermi come autore, potrei consigliarti un fottio di nuovi spunti se vuoi basarti sulle prese in giro a livello estetico.

Tanto per cominciare potresti sottolineare la vecchiaia della Montalcini, il volto emaciato di Freddie Mercury, la statura dimezzata di Zanardi e via dicendo.

Tuttavia vorrei ricordare alla comica nostrana che il Rambo del gay-pride ha devastato la critica con “The Wrestler” e ammaliato intere generazioni con “Nove settimane e mezzo”, mentre gli spettacolari sceneggiatori del nostro bel paese si crogiolavano nella stesura di “Ravanello pallido”.

Diamo a Cesare quel che è di Cesare e magari, se proprio vogliamo denigrare i bulli, evitiamo di fare bullismo in una televisione nazionale per la quale sono fottutamente costretto a pagare il canone.

A te la linea studio, dopo la Littizzetto contro i bulli ecco a voi Vasco Rossi che parlerà di salutismo.

Pace e odio a tutti.

 

Ferdinando de Martino