Alcol e scrittura | Il matrimonio infernale

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Sin da quando il primo uomo prese in mano la prima penna, probabilmente accanto al foglio bianco  riposava un bicchiere di scotch.

Il più grande pericolo per una storia è il diventare un cliché, a meno che uno scrittore non sappia gestire le banalità con una narrativa tagliente come la lama di una spada orientale.  Il problema dell’intera questione è che gli scrittori sono quasi tutti dei cliché ambulanti.

Quello di cui andremo a parlare oggi, è uno dei rapporti più complicati della storia dell’arte, ovvero, quello tra lo scrittore e la bottiglia. L’argomento è delicato e spero di non banalizzarlo, riducendolo ad una macchietta ironica su quanto sia bello vivere in maniera dissoluta, vomitando la propria anima ogni  sera.

Non voglio dilungarmi sul mondo dell’arte e sulle droghe, perchè preferisco focalizzarmi sull’atto dello scrivere e sul gesto del bere.

Innanzitutto non dobbiamo cadere nel tranello della semplicistica retorica legata allo scrittore povero che beve come un dannato, perchè l’alcol ha tenuto sotto scacco sia Kerouac che King, quindi la scusa della mancanza di liquidità non regge.

Sicuramente l’insuccesso può condurre al bere, ma io penso che l’anima di questo problema sia radicata più in profondità.

Scrivere è molto spesso un mettere a posto. Quante volte, davanti ad un rapporto ormai deteriorato dal tempo, vi siete trovati a pensare -Adesso mi metto a scrivere una bella lettera per rimediare a tutte le mie cazzate.-?

Rimettere a posto le cose è un’attitudine sintomatica di chi è abituato a mettere in disordine per indole.  Quindi la vera domanda è: forse, al posto di chiederci perchè la maggior parte degli scrittori bevono, dovremmo chiederci se lo scrivere non è spesso una semplice conseguenza del bere?

Con questo non voglio dire che per diventare uno scrittore devi attaccarti ad una bottiglie e attendere che le parole compaiano sul monitor, quello che intendo è che  è più facile mettersi a rassettare dopo aver creato del disordine attorno a noi.

Se ci ragioniamo bene i più grandi romanzi della letteratura sono delle semplici ed imponenti lettere di scuse indirizzate al genere umano. Lettere in cui il soggetto è sempre lo stesso: una persona inadatta alla vita, ma convinta di potersi riscattare regalandoci quello che ha in testa in una forma vagamente infiocchettata.

Questo ragionamento lo si può fare se si conosce bene uno scrittore o almeno la sua vita.   Spesso un manoscritto ha il semplice compito di creare nella testa del lettore un unico interrogativo: forse quella persona non è poi così male se ha in testa tutta questa roba…

Vedete, molto spesso l’attitudine del bevitore è molto comica vista dall’esterno. Chi non si è fatto una risata quando ha scoperto che Fitzgerald da ubriaco chiese ad Hemingway di dare un’occhiata al suo pene per dirgli se secondo lui fosse o non fosse un pene dignitoso?

Il lato nascosto, la faccia della medaglia segreta o il dark side of the moon di questa pessima abitudine non è per niente comico.

Bere è solitudine, tristezza, male e dolore.

Bere è accorgersi dei propri limiti e superarli in continuazione, solamente per vedere che effetto fa.

Bere è distruggere i rapporti sociali e non concepire una vita sobria.

Bere è una cosa che uno scrittore può fare, continuando a scrivere, mentre l’eroina o il crack non ti permettono di restare attivo davanti alla tastiera.

Bere diventa l’armatura di cui non siamo stati dotati alla nascita.

Non so dirvi se ci sia una qualche correlazione tra l’alcol e la testa di chi crea tanto, perchè scrivere è fondamentalmente creare.

L’unica cose che credo di aver capito è che la voglia di mettere a posto arriva solamente dopo aver sputtanto tutto.

 

 

Ferdinando de Martino.