Come nascono i negazionisti del Covid 19? | di Ferdinando de Martino

Partiamo dal principio. Sotto gli occhi di tutti noi, durante la quarantena, sempre più persone si sono appassionate ai Social Network perché per forza di cose per relazionarsi con il mondo esterno ognuno necessitava di un qualcosa di semplice e intuitivo per comunicare.

Lo sfacelo dei social nasce sostanzialmente dalla prima volta in cui un cinquantenne si è iscritto a Facebook. Mi spiego meglio. Un cinquantenne su Facebook crede di essere a suo agio, ma spesso è guardato da tutti come se fosse un nazista all’interno di un Bar Mitzvah. Ora, vi invito a prendere le mie parole con le pinze: non intendo che i cinquantenni non dovrebbero andare su Facebook, quindi andiamo ad approfondire.

Cos’è Facebook. Facebook è una società nata durante il periodo di vita di My Space. Cos’era My Space? Semplice, Facebook per persone che avevano qualcosa da dire. Se eri un musicista, un pittore, un atleta, un regista, una modella e via dicendo, ti aprivi il tuo Facebook e iniziavi a contattare persone del tuo ramo per parlare e creare una rete di collaborazione.

Cosa mancava a My Space? Il sesso. Zuckerberg non ha fatto altro che creare un My Space che accanto alla foto del profilo in questione, esplicava la situazione sentimentale e l’orientamento sessuale degli studenti e delle studentesse delle università più elitarie degli USA. In pratica Facebook era un modo che utilizzavano i super ricchi americani delle Ivy League per scopare.

Quindi al posto di musicisti e via dicendo chiunque facesse parte di quelle università si iscrisse, mettendosi in gioco per rimediare alle notti passate in solitaria nei dormitori.

Le studentesse, ad esempio, postavano una loro foto in caffetteria con un sorriso malizioso, per far sapere agli altri studenti che frequentavano quella specifica caffetteria in quel particolare orario.

Facebook si espande a tutto il mondo e arrivano i cinquantenni che nel vedere una studentessa prendere il caffè su Fb, iniziano a pensare “Ehi quale migliore idea di dire al mondo che anche io prendo il caffè la mattina?. BOOM.

Notando questa cosa i giovani hanno iniziato a trollare i più saggi, sfruttando un ragionamento molto semplice. Un cinquantenne è abituato a leggere una notizia prendendola per vera. È un semplice retaggio culturale. Se tu per decenni leggi giornali e guardi TG, che al loro interno hanno una struttura di ricerca delle fonti e via dicendo, dai per scontato che se viene scritto che una persona è stata uccisa quella sia la verità.

Insomma i cinquantenni non conoscevano i Troll. Chi sono questi ultimi: persone che si divertono e talvolta lo fanno anche per lavoro, scrivono inesattezze sui social consapevoli che verranno prese per vere da chiunque non conosca il trolling. Questo genera automaticamente una sola reazione, il popolo della rete spiega magnanimamente che esiste l’analfabetismo funzionale, ma i cinquantenni impazziscono perché figli della loro età non accettano che dei ragazzini possano essere in grado di prenderli in giro.

Diciamo che se la sono andata un po’ a cercare, perché Facebook stava iniziando a far scopare i nerd e poi sono arrivati questi a postare gattini frasi motivazionali di Osho (che per inciso era un cazzo di psicopatico), rovinando il gioco a tutti.

Ora veniamo al Covid e a tutte le persone che sono morte. Cerchiamo di staccarci dall’empatia e proviamo a ragionare. Un Troll scrive che il Covid non esiste e che lo stato vuole annichilire la nostra economia perché Soros vuole farci diventare tutti neri.

Eccola, quella per un cinquantenne è una rivincita, perché finalmente ha tra le mani dei dati (o perlomeno quelli che secondo lui sono dei dati) e decide di dire “Chi era l’analfabeta funzionale? Adesso non vi sentite stupidi a fare i mascherati. Il “Coviddi” non esiste.”

Piccola parentesi. Ho mentito… non riesco sempre ad essere Zen e ogni volta che leggo “Coviddi” vorrei andare a casa della mente brillante che si cela dietro il post in questione e picchiarlo. Mi farei anche cinque anni di carcere con stupri annessi per una soddisfazione del genere.

Da una parte abbiamo i giovani che non possono più scopare mostrandosi fighi con alcol e canne in mano, perché anche zia Concetta è su Facebook e mentre spiega al mondo che Bill Gates, l’uomo più intelligente del mondo, a lei non la frega, spiffera alla sorella che il nipote fa il figo.

Così i giovani migrano su Instagram, ma lo fanno anche i cinquantenni. Tick Tock e poi i cinquantenni. Vorrei vedere se un ventiquattrenne vi rubasse la pensione se sareste felici come quando la mattina postate dei fortuitissimi micini coccolosi con cuori azzurri.

È ovvio che il Covid esista e avere sempre dietro la mascherina è buonsenso. Basta chiedere ad una qualsiasi infermiera -Cos’hai fatto durante la quarantena?- e avrete la vostra risposta.

Il fatto è che nelle discussioni mediatiche nessuno ha voglia di cambiare idea; non è il pragmatismo il punto, ma il sembrare più intelligenti anche se si è stati trollati. Io stesso ho fatto il troll un sacco di volte. Mettevo la faccia di uno dei più noti serial killer della storia, spacciandolo per un barbone italiano che aveva perso il lavoro per via di un immigrato. E che ci crediate o no… la gente un po’ come fece con Gesù e Barabba… preferì Charles Manson all’immigrato.

Con questo non voglio solo sparare merda sul mio paese, ma vorrei lanciare una soluzione: limite di età per i social. Ai cinquant’anni devi leggere il giornale, perché spesso non hai la capacità di capire che John Lennon non è uno scafista e che Bill Cosby non è un testimonial Nespresso.

E poi diciamocelo… con tutta la gente che è morta, è davvero così importante giocare a chi ha ragione? Non sarebbe meglio rispettare le regole, cercando di non peggiorare la situazione per quei commercianti che stanno chiudendo e via dicendo?

Qualcuno si domanderà se sia possibile che tutte quelle persone che scendono in piazza contro il Covid siano stupide.

Vi ricordo che ogni anno a Predappio un gruppo di stupidi va a negare la morte di cinque milioni e mezzo di persone.

 

Da qui è tutto passo e chiudo… e come direbbe Frodo: attenti ai Troll.

 

 

Ferdinando de Martino 

L’anno del pensiero karmico | di Fausto Rampazzo

 “Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore.”

Stiamo parlando del 2004, l’anno in cui Joan Didion scrive “L’anno del pensiero magico”. Sono le settimane e i mesi che seguono il coma della figlia e la morte improvvisa del marito, e accompagnano la scrittrice durante l’intervento che la figlia, appena ristabilita dalla polmonite che le aveva provocato uno choc settico, subisce per un grave ematoma al cervello. Stiamo parlando di come Didion affronta il dolore e di come, da scrittrice, lo registra. Non “l’idea preconcetta che avessi mai avuto sul dolore”, bensì quel dolore che non si aspettava di provare, indifferente alle  strategie, alle intuizioni, ai progetti con cui aveva sempre pensato, nel remoto caso in cui fosse arrivato, di poterlo gestire. Che annulla la ragione.  “Volevo solo che tornasse”. L’esperienza del dolore. L’esperienza: l’unica via a disposizione per disfarsi delle idee preconcette e afferrare la portata delle cose, “della morte, della malattia, del calcolo delle probabilità, della fortuna e della sfortuna, del matrimonio e dei figli e della memoria”. L’unica via. Passarci dentro. Attraverso. Passarci fin quando non si riesce a coglierne il senso.

Per dirla con le parole di Massimo Rodolfi, autore della “Psicologia dello Yoga” che ho affiancato al libro della Didion, solo l’esperienza ci fa “apprezzare in modo progressivo la possibilità di affermare continuamente il meglio di noi stessi, non in modo teorico, ma molto pratico, perché la pratica nasce dal conflitto, dall’attrito provato su di sé, che ci fa acquisire, per esperienza diretta, la comprensione della trasformazione”. È l’esperienza, l’attrito, il conflitto, ad aprire le porte della comprensione, a offrire la possibilità di evolvere. 

E l’esperienza rappresenta lo svolgersi del karma, dice Rodolfi. È il numero, grande ma non infinito, di prove con cui misurarsi, con lo scopo di alleggerire la densità della coscienza  e afferrarne il soffio vitale, il senso, in quanto “materia e coscienza sono fattori dello stesso prodotto, per cui uno stato ancora incompleto della coscienza si traduce in una condizione incoerente della materia”. L’esperienza, la causa e l’effetto dell’agire, è il passo, necessario e non eludibile, attraverso cui passare dallo stato di imperfezione, di incoerenza, a quello di coerenza con se stessi e con l’intero l’universo. 

Alla fine del suo libro, la Didion parla della necessità, per poter continuare a vivere, di lasciar andare le persone che abbiamo perso.  “Che diventino la fotografia sul tavolo. Che l’acqua se li porti via.” 

Che diventino, dico io, il carico di saggezza con cui affrontare  il resto del viaggio.

 

Fausto Rampazzo

UN GIORNO CORTO | Un racconto di Giuseppe Orsini

Immagina di svegliarti un giorno senza uscire completamente dal sogno.

Di restare nel libro che hai letto la sera prima, immagina che sia un corvo a svegliarti, una rosa a parlarti.

Immagina una avventura di cui avresti fatto volentieri a meno.

E poi immagina tua madre bambina a Gibilterra, immagina il sangue antico che viene dall’India, i balli, gli eccessi di un popolo girovago.

Immagina tuo padre venuto dal mare, immagina tuo nonno in Cornovaglia.

Immagina i riti le magie la forza della terra, la luce della luna.

E poi immagina te bambino a Sivilla, le corse i primi guai, i primi pugni i primi amori tu bambino calmo ma irrequieto alla vita.

Immagina quella linea della fortuna che non ti piace e il tuo carattere ribelle che prende il rasoio di quel padre lontano in mare,per tracciare il solco della propria fortuna.

E poi ancora immaginati nella piccola isola di Malta, immaginati a studiare la Cabbala tu un po’ druido un po’ gitano.

Immagina il mare, immagina i gabbiani, i viaggi lontani.

Tanti incontri, tanti nomi, tanti accenti diversi un solo modo di guardare.

Le donne, il vino, il tabacco, la poesia, le stelle.

Prendi quella nave Corto la tua avventura inizia.

E poi i Tropici, Venezia, Chicago, Esperanza, l’Avana, Mosca, Buenos Aire, Pechino, Hong Kong, Africa, America, India, Australia e mille altri posti. Avanti e indietro nella storia. A riscoprire tesori antichi a inseguire magie.

Non sei mai straniero, non sei mai li per caso. Sei il viaggiatore dei tuoi tempi, un filo della grande ragnatela che tutto intreccia.

Il nuovo secolo ha dentro tutta la sua carica e tu sei lì, conosci tutti, tutti per caso.

Jack London ti racconta una storia, la storia di un uomo che deve morire per nascere e poi la Manciuria, la guerra, i treni, l’oro.

Tu eroe tascabile, tu che vorresti stare per i fatti tuoi, tu che non sai tollerare l’ingiustizia, tu in mezzo ai guai, tu lettore romantico, tu seduttore solo, tu sognatore.

Sarcastico, profondo, elegante, cascamorto, marinaio, rivoluzionario, patriota di una nazione che non ha confini.

Disteso in fondo a quel sogno che fa eco nel cuore di tutti noi, noi che non siamo molto cortesi, noi che siamo in viaggio portando il nostro destino a spasso e noi che aspettiamo nel porto di salire a bordo.

 

Giuseppe Orsini

MEDITANTE-Azione | Puoi cambiare la tua vita?

Tutti cercano di cambiare la loro vita in meglio. Nessuno vuole stare peggio.
Spesso si può meditare su argomenti, visualizzazioni o usare la scrittura e il disegno come atto meditativo. I monaci Zen ad esempio utilizzano l’enso: un diario spirituale sul quale disegnano ogni giorno un cerchio spezzato. Personalmente grazie all’azione “meditata” della scrittura io ho cambiato la mia vita.
C’è sempre un momento della giornata in cui ci si può concentrare solamente su di un’azione. Portare fuori il proprio cane, ad esempio, concentrandosi sul momento senza pensare al prima e al dopo, lasciando il cellulare a casa. Solo Tu e il tuo cane. Io chiamo questa cosa: meditanteazione. Provate a ritagliarvi una fetta di tempo che riduca al minimo i vostri pensieri e gli input esterni.
Anche fare il caffè, osservando la caffettiera durante il suo procedimento è un’azione meditante.

Ferdinando de Martino

 

 

 

Carlo Ape | l’Italia ha un nuovo investigatore| I. Edizioni

Da cosa è nata la necessità di scrivere PIAZZA PAOLO DA NOVI?

La letteratura di genere, messa di tanto in tanto ai margini di quella alta è decisamente una di quelle in grado di farmi provare empatia da lettore, mentre d’autore rende il mio lavoro molto più razionale e irrazionale al contempo. Alla fine scrivere un thriller ci costringe a cercare dei nemici che non ci sono, quindi irrazionalmente aiuta la nostra razionalità a realizzare le strategie più assurde per le indagini

Perché Carlo Ape è il nuovo investigatore italiano?

Questo è molto semplice. Da poco tempo abbiamo perso uno dei migliori autori hard boild italiani (Pinketts). Lui sì che era in grado di distinguersi nel panorama italiano. Abbiamo i vari Montalbano e i Rocco Schiavone, personaggi fantastici. Carlo Ape a differenza dei due sopracitati è stato un poliziotto e ha mollato la carriera durante il G8, quindi s’intuisce una caratterizzazione in direzione della legge anche quando la legge non porta la divisa.  Quindi, da investigatore privato, tracagnotto, col naso paffuto e amante del cibo e del vino, questo astuto investigatore trova in Genova e nell’Italia, in seguito, una ragione per cui vivere, ponendosi come il bene nei confronti del male.

Quindi per Ape il bene e il male sono due cose distinte?

Alcune volte si travestono. Per Ape è una questione carnevalesca. Ci tengo a dire che con IL NUOVO INVESTIGATORE ITALIANO non intendo imporlo sugli altri eroi letterari, ma volevo sottolineare la sua umanità. Ape si rade ogni mattina e fa il suo lavoro, a casa si mette in mutande e canottiera e e smania per le attenzioni di sua figlia adolescente. È divorziato e, come De Andrè, tende ad affezionarsi agli ultimi.

Per chiunque volesse acquistare il PIAZZA PALO DA NOVI : LINK ALL’ACQUISTO

 

 

 

Per Elisa | Diario di uno scrittore in quarantena | F. de martino

Battiato ha dato ad Alice una delle più belle e sentite canzoni del panorama italiano: Per Elisa.

È un nome che non cito a caso. Perché ho un’amica che si chiama così. Ieri notte abbiamo parlato un po’ per telefono. Parlato d’amore. 

Appena ho messo giù il telefono mi sono accorto che c’era amore in quella chiamata, esattamente come c’è amore in mille altre cose che facciamo. 

Quando si utilizza il termine “fare l’amore” m’immagino un Demiurgo che crea amore. Ma non c’è nessun Demiurgo, ci siamo noi con i nostri cuori infranti e i cocci di una vita sprecata che perfino a vent’anni risultano difficili da ricomporre. 

La cosa è che andrà sempre peggio. Ci saranno più cocci e se ne andranno più persone e questo genera una tristezza unica e difficile da raccontare. Per questo facciamo l’amore: per mettere sul piatto della bilancia qualcosa che valga la pena di battere la morte, le guerre, la cattiveria. E quando lo facciamo ansimiamo, un po’ come se sapessimo che dobbiamo farlo il prima possibile perché la terra trema e il mondo potrebbe crollare sotto i nostri piedi. 

Rispondere a una telefonata è amore.

Come stai? È amore.

L’amore è tutto ciò che non implica esclusivamente te stesso; come una forma d’altruismo estesa. 

Di cosa abbiamo parlato a tarda notte al telefono?

Di donne, uomini, lupi e scimmie con il pene eretto (in riferimento a basi scientifiche non è che siamo due pervertiti), di matematica e di filosofia.

Mi è stato chiesto com’ero prima di sposarmi e ho provato a rispondere, perché sostanzialmente non so cosa sono nemmeno adesso. 

Nella mia vita ho convissuto con molti spettri e mi sono sempre cacciato nei guai solo per vedere fino a dove potevo a spingermi. Ho fatto cose tremende, ma con lo spirito di un bambino che al mare vuole solamente superare la boa. 

Una telefonata, nel cuore della notte, è amore.

C’è un tempo per seminare e uno per raccogliere è scritto da qualche parte. Io credo che ci sia un tempo per odiare e uno per amare. Chi non ha mai amato non potrà mai odiare veramente qualcuno o qualcosa. E chi non ha mai odiato non avrà mai il coraggio di amare a scatola chiusa.

Abbiamo chiuso il telefono e personalmente sono stato sveglio ancora un po’ e ho iniziato a scrivere.

 

Ferdinando de Martino

Ho preso una mina | Diario di uno scrittore in quarantena | F. de Martino

Avete presente il vecchio gioco del Campo Minato? Ecco. Ci sono quei momenti in cui ti senti come se avessi calpestato la casella sbagliata: salti in aria.

A me è capitato di recente. Tutti conosciamo quella situazione, d’altronde il mondo è pieno di mine emotive. Ma qualche volta il pensare e il riflettere possono aiutare l’uomo a uscire incolume dall’ennesima esplosione.

Partiamo dal concetto di mina. Sì, perché noi immaginiamo la mina come un qualcosa di moderno, insomma, una tecnologia usata nelle grandi guerre, mentre il concetto di mina è antico e radicato nella cultura del passato.

Il termine MINA viene proprio da minatore. In antichità, quando gli assedi erano frequenti era di basilare importanza per le città avere delle mura alte e ben strutturate.

I cannoni erano delle armi potenti, ma ben visibili, rumorosi e facili da attaccare. Aprire una breccia nelle mura, però, era indispensabile per vincere una battaglia.

I minatori, così, abituati a scavare tunnel per cercare oro, carbone e quant’altro iniziarono a scavare fin sotto le fondamenta delle mura, piazzandovi sotto dei giganteschi carichi di polvere da sparo. Lo scopo era quello di far crollare le mura con l’esplosione.

Ecco. Non importa quale sia la nostra mina, il fatto è che per saltare in aria abbiamo scavato e scavato nella direzione sbagliata. 

Questo pensiero mi ha aiutato a superare un momento di down post-mina davvero deleterio.

Perché se la direzione è giusta, potremmo scavare dentro di noi e trovare oro, pietre preziose o addirittura noi stessi. 

Personalmente ho provato a rovinare quasi tutto nella mia vita, forse per un’indole autodistruttiva vittima del mio giudizio. Questa quarantena mette a dura prova i nervi e scavare nella direzione della comprensione potrebbe anche fare esplodere qualcosa di buono.

Quando scavavo verso la creazione dell’Infernale è esplosa Irene nella mia vita, ad esempio. Quella fu la più meravigliosa opera pirotecnica della storia. Fuochi d’artificio, stelle cadenti e desideri regalati. 

Minare non ha una connotazione negativa se ciò che si vuole espugnare è qualcosa di puro come lo sguardo della donna che ami o un futuro che non riesci nemmeno a immaginare rinchiuso nella quarantena mentale dei tuoi pensieri.

Minate. Minate sempre.

 

Ferdinando De Martino

HOUSE OF CARDS | Quando la vita irrompe nelle serie | M Giacovelli

House of cards è stato, per anni, il titolo di punta di Netflix. La serie americana, interpretata magistralmente da Kevin Spacey, ha riscosso successo su scala globale. Questo è stato possibile grazie ad un protagonista carismatico e a una trama tanto lineare quanto credibile.
Il prodotto è stato distribuito su sei stagioni a causa dell’enorme scandalo che ha coinvolto l’attore protagonista.

Frank Underwood è un deputato che aspira alla poltrona più ambita d’America. House of Cards, però, non è il solito film americano pieno di buone sentimenti e intenzioni. Per ottenere il potere è necessario vincere la guerra contro i propri oppositori, e Underwood è disposto a tutto pur di ottenere la massima carica. Tra omicidi, amori illeciti e un’ampia dose di drammaticità, questa serie finisce per intrappolare lo spettatore in una fitta tela di intrighi e giochi d’azzardo.
Il principale sentimento che viene spontaneo provare è l’ammirazione, nonostante le azioni compiute dal protagonista siano spesso deprecabili. Frank Underwood è un uomo privo di scrupoli per cui il fine giustifica sempre i mezzi, ma è anche la fedele guida che ci introduce all’interno dei delicati meccanismi del senato.
House of Cards ha rivoluzionato il concetto di politica in televisione, offrendo agli appassionati del piccolo schermo qualcosa su cui discutere negli anni a venire.

 

LAGGI IL RACCONTO DELLA SETTIMANA DA QUESTO LINK 

 

La serie è finita nel dimenticatoio nel 2018, quando Kevin Spacey è stato coinvolto nello scandalo Weinstein. Nonostante due delle principali accuse di molestie siano state archiviate, l’attore ha deciso di ritirarsi a vita privata sino alla guarigione. L’attore, infatti, sta affrontando un percorso di redenzione e di cura dalla dipendenza da sesso.
Dopo lo scandalo, la serie è proseguita per un’altra stagione, con la moglie di Frank Underwood come protagonista. Inutile dire che, una volta perso il suo personaggio di punta, la serie è andata incontro a un’inevitabile chiusura. 

 

MARGHERITA GIACOVELLI

House of cards | Quando la vita complica le cose | M. Giacovelli

House of cards è stato, per anni, il titolo di punta di Netflix. La serie americana, interpretata magistralmente da Kevin Spacey, ha riscosso successo su scala globale. Questo è stato possibile grazie ad un protagonista carismatico e a una trama tanto lineare quanto credibile.
Il prodotto è stato distribuito su sei stagioni a causa dell’enorme scandalo che ha coinvolto l’attore protagonista.

Frank Underwood è un deputato che aspira alla poltrona più ambita d’America. House of Cards, però, non è il solito film americano pieno di buone sentimenti e intenzioni. Per ottenere il potere è necessario vincere la guerra contro i propri oppositori, e Underwood è disposto a tutto pur di ottenere la massima carica. Tra omicidi, amori illeciti e un’ampia dose di drammaticità, questa serie finisce per intrappolare lo spettatore in una fitta tela di intrighi e giochi d’azzardo.
Il principale sentimento che viene spontaneo provare è l’ammirazione, nonostante le azioni compiute dal protagonista siano spesso deprecabili. Frank Underwood è un uomo privo di scrupoli per cui il fine giustifica sempre i mezzi, ma è anche la fedele guida che ci introduce all’interno dei delicati meccanismi del senato.
House of Cards ha rivoluzionato il concetto di politica in televisione, offrendo agli appassionati del piccolo schermo qualcosa su cui discutere negli anni a venire.

 

LAGGI IL RACCONTO DELLA SETTIMANA DA QUESTO LINK 

 

La serie è finita nel dimenticatoio nel 2018, quando Kevin Spacey è stato coinvolto nello scandalo Weinstein. Nonostante due delle principali accuse di molestie siano state archiviate, l’attore ha deciso di ritirarsi a vita privata sino alla guarigione. L’attore, infatti, sta affrontando un percorso di redenzione e di cura dalla dipendenza da sesso.
Dopo lo scandalo, la serie è proseguita per un’altra stagione, con la moglie di Frank Underwood come protagonista. Inutile dire che, una volta perso il suo personaggio di punta, la serie è andata incontro a un’inevitabile chiusura. 

 

MARGHERITA GIACOVELLI

IO SONO ALICE | un racconto di Daniela Di Cicco | I. Edizioni

Mi chiamo Alice.

Mai nome fu più azzeccato. Direi anzi cucito addosso come un tailleur attillato e perfetto.

Sono magra, ai limiti dell’anoressia. Eppure mangio molto. Il mio metabolismo è formidabile. Ho una giusta massa muscolare, altezza nella media, lineamenti sottili, naso affilato e dita affusolate. Un ‘alice insomma. 

Oggi, che è domenica, sono a casa. Vivo sola. Il mio appartamento è adatto a me e mi rispecchia; piccolo e funzionale. È la mia tana dopo una settimana di lavoro.

 Sono impiegata di banca. Orfana e single. Con questo vi ho detto tutto di me.

Non ho mai trovato la persona giusta. Almeno credo. Gli uomini che ho frequentato avevano tutti dei problemi e sono spariti uno dopo l’altro. Inghiottiti nel buco nero del dimenticatoio.

Piove. D’altronde a febbraio è normale.

Accendo il pc. Voglio controllare alcuni conti. Non ho mai tempo in settimana e così ne approfitto quando posso. Lo schermo si schiarisce e contemporaneamente due piccoli suoni mi annunciano posta in arrivo.  Apro le mail ma nulla. Sono un po’ imbranata lo ammetto.  Cerco di capire. Poi mi ricordo di essermi iscritta, circa un mese fa, ad un sito di single. Una volta si diceva cuori solitari. Ora sono chat di incontri. Due brevi messaggi mi colpiscono. 

Il primo è un saluto “ Ciao, sei bellissima”.

 Il secondo, una domanda “Ti va di fare due chiacchiere?” Nessuna  firma né foto.

Sono sempre stata molto pragmatica e in altre occasioni avrei cestinato senza pensiero.

 Ma ora è diverso.

Alla chat mi sono iscritta io. Dunque razionalmente, che senso avrebbe non rispondere.

Il “Perché no?” digitato parte senza che possa neanche rendermene conto.

Si vede che era destino o qualche altra cosa.

Fatto sta che dopo  qualche giorno di chiacchiere evanescenti e cineserie, decidiamo di incontrarci. 

È un martedì sera. Giorno piatto a inizio settimana. Giusto per non dare troppo colore alla cosa. Un appuntamento di martedì non può essere così serio.

Ci vediamo in un piccolo locale fuori mano. Luci soffuse davanti a un bicchiere di rosso.

Lui è giovane. Diciamo più piccolo di me. È tracagnotto e muscoloso. Il viso delicato e i capelli fini raccolti a coda non sembrano far parte dello stesso insieme. Sembra l’assemblaggio di due persone diverse. Ma complessivamente non mi dispiace affatto. Ha un modo di porsi quasi femminile. Una sensibilità di comprensione e una scioltezza di battuta che non ho mai riscontrato negli esemplari di sesso maschile finora campionati.

Si chiama Michele. Separato con un figlio, Marco, a carico al cinquanta per cento.

Anche io non devo dispiacergli, visto che decidiamo di rivederci.

Cosa accade dopo, non lo so francamente. Se è una nuova alchimia a lavorare per noi, o un desiderio reciproco di stabilità. Fatto sta che tra noi scocca la scintilla che diventa ben presto fuoco. Incendio, anzi. Un incendio divampante e aggressivo.

 Sono dodici  mesi oggi, un anno.

Durante il quale paure, ansie, convinzioni e freni sono svaniti come nebbia al sole. Giornate e notti divorate in abbracci, corse in moto e lasagne al forno. Un appagamento di tutti i sensi. Un’indigestione bulimica di ogni cosai .

“Va tutto bene”  mi sussurra come un mantra.

E io ci credo.

Ricordo la gita  a Portochiaro .

 Un posto incantevole, tra rocce e mare. La luce tenera dell’autunno sui nostri contorni, seduti in spiaggia a contemplare, testa a testa, la superficie calma del mare, sempre più scura.

“Sei la mia vita, gioia mia.” dice, cingendomi con le braccia.

“Anche tu” io, annebbiata.

“Va tutto bene”, suona all’orecchio come una promessa.

Un anno memorabile. 

Tutto liscio come olio.

Tutto colorato come una caramella.

Un sogno.

Quando quindi stasera alla proposta pizza e cinema ha nicchiato con sguardo dolente, sono rimasta un pochino sorpresa. 

È vero. E’ un sabato, l’unico giorno della settimana per lui off limits.

“È la serata di Marco.” mi ha sempre risposto. 

“Usciamo io e lui.” e ribadiva, strizzando l’occhio “Sai, una serata tra uomini”.

Che sarà poi  una serata tra uomini non l’ho ancora capito.

Forse una serata fatta di piedi puzzolenti buttati sul sofà, lattine di birra, dita nel naso e videogame?

Mah.

“Bè, potremmo fare un’uscita in tre.” ho ribattuto “Così magari me lo fai conoscere, no?”

Mi sembra una buona soluzione. Dopo un anno ci può pure stare.

Niente. Irremovibile. Devo glissare su una cenetta per la domenica successiva.

Mi bacia sulla fronte, col cappotto infilato a metà.

“Tranquilla.” mi rassicura, “Va tutto bene.”.

Così, uscito lui, inizio a fare zapping sui vari canali tv ma non c’è proprio niente.

Allora accendo il computer. Girando qua e là, mi trovo di nuovo sulla chat dei cuori solitari.

La stessa su cui ci siamo conosciuti. Curioso un po’ tra i vari profili. C’è ancora il mio. Il suo invece non appare più. Mi faccio un po’ gli affari degli altri, sorridendo alle battute, ai post sdolcinati, alle foto filtrate. Gli scatti. I selfie. Le foto. All’improvviso, una di queste appena postata, mi raggela letteralmente.

La didascalia evidenzia “un anno con te”. Lo sfondo di luci tenui e lumini sul mare petrolio suggerisce un locale romantico. L’ideale per una cenetta di anniversario. Sul fondale scuro la luce dello scatto ritaglia una ragazza e un ragazzo. I festeggiati. Lei, Francesca, dice sempre la didascalia, sorride a tutto tondo davanti a una porzione di torta generosa quasi quanto la sua scollatura. Il ragazzo vicino a lei ha un sorriso più timido, quasi colpevole, ma gli occhi brillano splendidamente. Ha un viso delicato e un corto codino al vento. È Michele.

Per fortuna sono seduta.

Il bicchiere d’acqua che vado a prendere in cucina non mi è di sollievo.

Provo a chiamarlo sul cellulare. È spento.

Passo la notte in bianco.

Al mattino mi ricollego al sito.

La signorina Francesca ha un profilo pubblico. Nome e cognome sono chiari. Sul suo diario virtuale, altre foto. Di lei. Di lui. Di lei con lui. Ricostruisco l’ultimo anno. Un anno che per Michele deve essere stato difficile, visto che ha evidentemente dovuto sdoppiare la vita su due binari paralleli, forse anche vicini, ma ben separati.

Come ha potuto mantenere due identità senza cadere in errore? Senza confondere nomi e date. Combaciando tempi e appuntamenti. È vero, non abbiamo convissuto. Questo deve avergli permesso respiro e organizzazione. Ma ragazzi, neanche uno schizofrenico sarebbe stato capace di dividersi con tanta nonchalance.

Devo fare qualcosa.

Devo tenere a freno la parte di me che ora sta urlando. 

Come in una moviola, la mia anima sta  esplodendo.

Mille schegge aguzze e vaganti si stanno conficcando ovunque, nella pelle, negli occhi, in gola, nel naso. Su fino al cervello, ferendo e devastando in un’orgia di sangue e dolore. E nella loro traiettoria folle e imprevedibile stanno segnando l’inizio di un lutto, inconsolabile e cattivo.

Devo trovare la mia razionalità. Cerco il numero di telefono della disgraziata. La fortuna si vede che è dalla mia.

Lo trovo subito.

Seduta sul divano, gambe incrociate, lo compongo. Risponde al secondo squillo.

E’ domenica mattina. Magari lui è ancora lì. Già lo vedo assonnato sotto le lenzuola, i capelli liberi sul guanciale.

Tormento con l’indice una ciocca di capelli, mentre dopo essermi presentata, le spiattello tutta la verità sul suo fidanzato. O presunto tale.

E mentre vomito nomi, date, circostanze, mi passano davanti agli occhi come in un film, tutti i dodici mesi passati assieme. Io nella parte della co protagonista. O forse solo della figurante.

Parlo per cinque minuti buoni. Ascolta senza profferire verbo.

Mi aspetto sorpresa, dolore, anche odio. Almeno spero nella solidale coalizione femminile contro un tradimento che ha coinvolto entrambe.

Invece, con voce gelida mi risponde

“Ah, capisco chi sei. Quella vecchia pazza che lo insegue da un po’. La stalker.  Me ne ha parlato il mio Miki. Ancora ieri sera. Povera stupida.  Michele sta con me da un pezzo. Vedi di piantarla o ti denuncio.”

Il clic del riaggancio mi rimbomba nell’orecchio.

Ghiaccio.

Volevo colpire e invece quella che si ritrova bella e stordita sono io.

Se non avessi ascoltato in prima persona, penserei a un effetto tardivo del bromazepam preso ieri per sedare la botta.

Dunque è questo Michele? Il mio Michele? Un bastardo di tale portata ? E io che non mi sono accorta di nulla per un anno intero?

Vacillo.

E i progetti, il futuro, la felicità. Mi risuona il suo “va tutto bene”. Sembra resina che mi invischia, appiccicosa. Cerco le gocce. Trenta. E dormo.

È passato un mese.

Dopo la tempesta ora tutto è cheto.

Oggi, aprendo il giornale, nella cronaca, ho trovato un trafiletto che parla di lui.

Un incidente di moto. È gravissimo. Ma non sento nulla.

Chi l’avrebbe detto?

Il giovane…bla bla…in fin di vita…bla bla…forse un guasto…ritrovata sabbia o simile nel serbatoio della benzina…bla bla.

Non provo nulla. 

Sono tranquilla.

Scendo nel piccolo box annesso alla mia nuova casa con giardino. Sì ho cambiato indirizzo.

Anche il colore dei capelli. Ma il fisico è lo stesso. Sono sempre  Alice.Il box è vuoto.

Raggiungo il bidoncino della spazzatura.

Tolgo il coperchio e stirandomi un pochino, appoggio sul fondo, nascondendolo bene sotto cartacce e buste vecchie, il pacchettino che ho in mano.

E’ un sacchettino di tela, semivuoto.

Sull’etichetta due righe vergate a definirne il contenuto.

Ghiaino di fiume.

L’account l’ho già cancellato stamani.

Sì ora sto bene.

Va tutto bene.

 

 

RACCONTO DI DANIELA DI CICCO

La Ballata di Mary | topi e cocaina | F. de Martino

Qualcuno deve aver detto che non c’è più spazio per le anime pure. Quel qualcuno aveva ragione, ma doveva essere anche un grande cinico. 

Era arrivato il grande virus e il mondo sembrava essersi fermato, ma c’erano due cose che non si fermavano mai: i topi e il jazz.

I topi ne avevano viste tante, guerre e pestilenze e via dicendo, quindi la loro resistenza era un dato di fatto. Mentre per il jazz era una cosa differente. Tutta questione di nascita rabbiosa. Quando un genere diventa anche uno stile di vita è destinato a sopravvivere a olocausti, guerre e tutto il resto. 

Il localino dove suonavo solitamente era chiuso. Ogni cosa era chiusa. Percorrendo via del Campo mi fermai a pensare per un istante a Mary. Avevamo messo su un duo. Un bel duo jazz. Poi a Mary era venuto il cancro ed era morta, Da quel momento smisi di farmi chiamare Mark. Mark e Mary Jazz duo aveva un senso ma Mark, quando ti presentavi al supermercato non reggeva. 

Possiamo dire che con la morte di Mary, Mark tornò Marco. Non smisi di suonare. Nella mia carriera avevo suonato anche con Miles. E ai tempi delle crociere con Mary c’eravamo divertiti un sacco. Avevamo anche fatto l’amore un paio di sere. Ma non eravamo fatti l’uno per l’altra. Due jazzisti in una relazione sarebbero stati troppi. A dirla tutta avevamo passato più della metà del nostro tempo assieme sul pianeta Terra a litigare e disquisire su band e artisti. 

“Serve qualcosa?” 

Era un ragazzo sulla ventina. 

“Coca?”

“Quanta vuoi.”

“Uno.”

“Uno.” fece stupito?

“Sì, uno, ho detto uno.”

Stavo realmente comprando della coca da un ragazzo più giovane di mio figlio. Cristo santo.

“Aspetta qui.” 

Gli spacciatori avevano trovato un loro modo per eludere il sistema. Se ne stavano con delle buste della spesa in mano, così se passava la polizia fingevano di essere appena stati al supermercato. 

Il ragazzino sparì e lo sguardo mi cadde verso un tombino dal quale spuntava il musetto vispo di un ratto. L’Italia stava andando a rotoli e lui se ne stava lì all’avanscoperta come una piccola vedetta lombarda in cerca di cibo. Uscì e si fece il suo giretto.

Mi domandai cosa pensassero di me quelle poche persone che passavano con mascherine e quant’altro. Un bianco sulla soglia della fascia a rischio in giro in mezzo agli spacciatori di peggior genere. 

Quando il tizio arrivò mi chiese se volevo fare un tiro. Ma non mi sembrava il caso di pippare con un bambino. Pagai e me ne andai. 

Tornai a casa e mi misi a spacchettare febbricitante la bustina, stesi due belle strisce e via. Presi il mio vecchio sax. Quello che aveva toccato anche la santa mano di Miles e iniziai a suonare. 

In quel periodo tutti condividevano qualcosa ed era giusto. La tecnologia serviva proprio a quello: condividere. Io invece volevo tenere.

Volevo tenere una cosa per me e per quel momento. Così uscii sul terrazzo in pietra della mia minuscola casa sperduta lungo il Righi e iniziai a suonare. 

La melodia era nella mia testa. Ma non la suonai… mi stavo solo riscaldando. Feci un’altra striscia e pucciai la sigaretta nella coca rimasta.

Accesi e pensai intensamente a Mary. A quello che era davvero, al di là di ogni ragionevole dubbio, come direbbero quegli stronzi degli avvocati. 

Mary era una tosta, ma sapeva piangere e quando piangeva ti faceva incazzare perché lo sapevi che usava le lacrime per non dire di avere torto. Con Mary era così o perdevi o era patta. 

Mary si sposò e divorziò. Mary morì sola. A letto era normale. Non che non fosse brava, è che da Mary ti aspettavi fuoco e fiamme, ma varcata la soglia della camera da letto ti accorgevi che Mary era semplicemente una donna. Un essere umano con le tue stesse fragilità. 

Ok. Bene. Quella era Mary.

Signori e signore ecco a voi qualcosa che terrò. Qualcosa che non condividerò da nessuna parte. Qualcosa che suonerò guardando la montagna di una città paralizzata da una quarantena. 

Libererò questa cosa solo per me. 

Posai la bocca sul beccuccio e la suonai. La ballata di Mary. 

Un bel pezzo. 

La Casa de papel | La serie che accompagna le nostre giornate | M. Giacovelli

Il professore è tornato: la quarta stagione de La Casa de Papel in diretta su Netflix.

I ladri più popolari del web stanno tornando. Dal 3 Aprile, infatti, sarà disponibile la quarta stagione de La Casa de Papel, sempre su Netflix. Ci attende una serie a dir poco scoppiettante, che ha fatto dello spannung il suo vero punto di forza.
La Casa di Carta è una serie tv che ha, di fatto, coniato un intero genere, con una storia avvincente e colma di mistero. A differenza di altri formati, la trama punta a mantenere un alone di mistero su tutti i personaggi sin dal primo episodio, con un formato a dir poco avvincente e geniale. Una costruzione pitagorica, con pezzi che si incastrano perfettamente. Un complicato puzzle, con pezzi che combaciano alla perfezione. Questa è la Casa de Papel.

Cosa è successo nelle precedenti stagioni de La Casa de Papel?
Ogni episodio è una complicata partita a scacchi tra i criminali, i veri protagonisti, e la polizia, che si ritrova ad essere l’antagonista dell’intera vicenda. Il Professore, il vertice dell’organizzazione malavitosa, è il vero cervello del gruppo. Un uomo forte, testardo, che si ritrova sempre ad essere un passo avanti rispetto agli altri. Gli uomini ai suoi ordini sono tutti fuori legge, esseri umani che avevano perso speranze e scopi nella vita, e che si ritrovano di fronte ad un’opportunità più unica che rara: compiere il colpo del secolo depredando la Zecca di Stato spagnola.

La quarta stagione: da dove si riparte?
Mentre nella prima parte della serie è il colpo ad essere al centro della scena, dalla seconda parte vengono messi in evidenza i rapporti umani, e la storia tra Rio e Tokyo è il vero causus belli della terza parte. Il ragazzo, infatti, viene catturato dall’Interpol e torturato. Per salvarlo, il Professore organizzerà un nuovo Colpo alla Zecca, che metterà in crisi l’intera banda.

La quarta stagione si riaprirà da qui, dalla situazione più disperata possibile. Quale sarà il nuovo colpo di scena che permetterà alla banda di Dalì di uscire da questa situazione disperata?
Mettetevi comodi, dunque, perché il Professore è tornato.

 

Margherita Giacovelli

Minimalismo, relazioni e convivenza | E POSSIBILE ? | F. de Martino

Uno dei grandi problemi del minimalismo è la convivenza. Raramente in una coppia italiana si riesce a far coincidere gli ideali minimalisti e questo potrebbe generare problemi all’interno dell’ecosistema casalingo. 

Per molte persone mia moglie non possiede molte scarpe o vestiti, mentre per la mia visione minimalista della situazione ne ha fin troppe. Tuttavia la stessa idiosincrasia verso il superfluo che mi ha portato verso la strada del minimalismo deve a tutti gli effetti convivere con l’idiosincrasia di mia moglie nei confronti di tutto ciò che è asettico.

Il mondo è fatto di compromessi e laddove personalmente mi sembra d’invadere con il mio nazismo minimale la sfera di Irene, cerco di tenere a freno il Savonarola che è in me; quello che brucerebbe tutto. Per quel che riguarda Irene, più d’una volta ha preso decisioni che a suo gusto sono fredde e impersonali, solamente per appagare quel mio lato che gode nel vedere esaltate le superfici vuote, elevandole a vere e proprie opere d’arte geometriche.

Ho provato più volte a Marikondizzarla dicendole “Questo oggetto ti provoca emozioni?” e lei mi ha mandato a quel paese, perché si trattava di oggetti come scontrini del 92 che conservava nel portafoglio.  Credetemi… quella tecnica non funziona in Italia, almeno non per tutti. Quello che consiglio, per una buona convivenza minimalista è quello di ridurre il proprio numero di oggetti senza assillare il partner in questione. 

Escluso il cappotto il mio intero guardaroba risiede in due scatole Ikea. Il resto dei mobili è dedicato a Irene. A me possedere più vestiti darebbe fastidio, ma per lei è diverso. Capire il proprio partner è basilare per una buona convivenza minimale.

(Le ultime due scatole sono quelle in cui tengo tutto il mio guardaroba)

 

 

Con mia moglie viviamo in un bilocale soppalcato con una sola finestra e dal minimalismo all’appartamento milanese di Pozzetto nel Ragazzo di campagna è un attimo. 

La differenza sostanziale tra un minimalista e un non minimalista è che i primi non si lasciano definire da un cappellino delle Burton o da un coccodrillo sulla maglia. Non è un caso che tutti i grandi uomini votati alla meditazione abbiano in un modo o nell’altro seguito la strada del minimalismo. 

La routine alimentare di Gandhi o la divisa di Steve Jobs sono solo degli esempi di come il minimalismo possa influire per creare uno stile di vita più performante. 

Personalmente vivrei bene con un divano letto, un Kindle, un computer e un bagno. Dovrei rinunciare a Irene e il gioco non ne varrebbe la candela. Quindi ben vengano paia di scarpe che non si utilizzeranno mai e scontrini del primo dopoguerra. 

Dopotutto il minimalismo è anche un concetto mentale che serve a minimizzare lo stress.

 

Ferdinando de Martino

Se vi interessa l’argomento è disponibile su Amazon un mio racconto sulla meditazione e sul minimalismo.   Basta cliccare sulla foto qui in basso \/  \/ \/

Diario di uno scrittore in quarantena | Siamo buoni o cattivi? |F. de Martino

Ore 01.00 del mattino

Sto giocando a biliardo con un ragazzino che mi sta massacrando, guardando contemporaneamente un telefilm con Jason Momoa che è non vedente in un mondo di non vedenti, ma nonostante questo riesce ad ammazzare centinaia di nemici usando l’udito e armi di circostanza. 

Non so se stia perdendo a biliardo per via di Jason Momoa o se la serie sia emozionante solo perché vorrei darle la colpa della mia sconfitta, ma questa è la storia della mia vita.

Ho sempre avuto questo brutto vizio di riversare sugli altri il mio umore. In molti mi ritengono una persona buona, ma se fossi un re, probabilmente sarei un monarca tremendo.

Da bambino mi stava antipatico un ragazzino, così un bel giorno gli ho rubato un pennarello. Sapevo che rubare era sbagliato ma in un bambino il concetto di etica è labile, così ho infilato la refurtiva nello zaino del ragazzo che stava alla mia destra. Nessuno l’avrebbe notato. Il reato, a livello fattuale l’aveva fatto lui. 

Come ogni storia d’eccessi come Scarface, spesso ci si lascia prendere la mano. Così, guardando l’astuccio del mio amico tutto spariva. I compagni, la voce della maestra, i miei genitori, il mio cane e il senso di moralità e immoralità; ogni cosa si affievoliva.

Presi così il secondo pennarello e lo gettai nello zaino del tizio a destra. 

La sera pensai a loro due. Le mie marionette. Chissà se il ragazzo dei pennarelli si era accorto di aver perso due bei Carioca? E l’altro? Aveva notato dei pennarelli non suoi tra la sua roba scolastica?

Il fatto è che dopo un po’ lo stile di vita del bandito, perché così mi sentivo a sei anni, finisce per darti assuefazione. Rubavo pennarelli e ripulivo la mia fedina nello zaino del tizio a destra. Era un gioco pulito e collaudato. Ma non provavo più quell’emozione adrenalinica. 

Non so come spiegarlo, ma in versione estremamente ridotta ho capito i serial killer come Zodiac. Non volevo essere preso per un pennarello, quando in realtà ero a tutti gli effetti un ladro con molti pennarelli grattati alle spalle. (il termine grattato l’avrei imparato solo molti anni dopo).

Il pericolo c’era ma avrebbe banalizzato il mio talento. 

Così per due giorni smisi di rubare. Feci calmare le acque. Così notai che attorno a me c’era un clima di tensione. Il bimbo a sinistra controllava il suo astuccio nemmeno fosse Fort Apache e quello a destra sembrava paranoico. 

Loro sapevano che qualcosa stava accadendo, ma non osavano dirlo. Uno non voleva passare per fesso e l’altro per ladro. E io, pulito come il sedere di un neonato, avevo davanti a me la possibilità di uscirne pulito. Proprio come tutti i più grandi: Al Capone, Totò Rina e via dicendo.

Non so che dire. Non ho grandi giustificazioni dalla mia parte, se non che la vita da studente modello non era nelle mie corde. Preferivo il crimine.

Così un giorno il bambino sulla sinistra andò in bagno, lasciando il suo astuccio in bella vista. Era uno di quelli imbottiti a tre piani, rettangolare, con cartucciere porta-penne cucite in giallo oro. 

L’equivalente del cavou di una banca per un ladro adulto. Respirai. Non avrei mai potuto rubare pennarelli in quel clima di tensione.

Ad un tratto la maestra decise d’interrogare il bambino alla mia destra, piazzandolo alla lavagna. 

Lo presi come un segno. Probabilmente non ero tagliato per la vita pulita. Ero un criminale.

Quando il ragazzo della destra andò alla lavagna, aprii tutti gli scompartimenti e svaligiai letteralmente il contenuto dell’astuccio. Penne, pennarelli, gomme, forbici, pastelli e chi più ne ha più ne metta. 

Svuotai tutto nello zaino e mi sentii letteralmente liberato. Dio che emozione, che carica, quanta adrenalina. Mi sentivo potente. Sapevo che non sarebbe durata in eterno, ma avevo un piano. 

Quando il bambino tornò dal bagno gridò al furto. Pianse come un vitello sgozzato. Ma io non avevo paura. 

Guardai il volto del bimbo alla lavagna. Era pallido. Vittima inconsapevole di un piano più grande di lui che da settimane viveva come una sorta di punizione divina. 

Nel più totale clima d’isteria mi alzai e dissi ad alta voce “Qui non esce nessuno se non saltano fuori i pennarelli. Controlliamo tutti gli zaini.” dissi, senza palesare nessuna espressione di godimento.

Bene eccomi. Per la prima volta mi stavo effettivamente comportando da figlio di puttana. 

Il bimbo alla lavagna scoppio a piangere dicendo che sua madre non faceva che sgridarlo perché rubava pennarelli e quello a sinistra si lamentava del fatto che i suoi lo trattavano da stupido perché si faceva fregare ogni cosa. 

Ovviamente la maestra vedendo me nel mezzo capì subito la questione e fece chiamare i miei genitori e tutti quanti mi sgridarono, incuriositi però dalla metodologia utilizzata. 

“Tu davvero facevi tutto un pennarello alla volta?”

“Sì.” risposi, senza piangere, come un vero duro.

“E perché poi hai smesso?”

“Perché non volevo che se ne accorgessero.”

Ma la domanda che più m’inquieta tutt’ora è una. Anzi; è la risposta ad essere tremenda per un bambino di sei anni.

Quando mi chiesero come mai l’avevo fatto, risposi che mi stava antipatico il bambino a sinistra, ma poi mi porsero un ultimo quesito: come mai il ragazzo sulla destra?

“Era a destra.” che per un bambino valeva come un: è una vittima sacrificale.

Oggi volevo riflettere su questo, vista la quarantena e la partita a biliardo online andata a farsi benedire.

Pascoli diceva di ascoltare sempre il fanciullino che si trova in noi. Io il mio ho smesso di ascoltarlo, perché faceva cose strane. 

 

Ferdinando de Martino