BAR-SOFIA | Filosofia da bar. #1

PREFAZIONE.

Tanto per cominciare: non sono un filosofo.

Non sono laureato in filosofia e tutto ciò che conosco e non conosco di questa materia, proviene esclusivamente dal mio striminzito bagaglio culturale e dagli studi delle scuole superiori.

Ad onor di causa dovrei precisare che i ricordi delle superiori sono alquanto annebbiati dalle canne e dalla birra.

Dio benedica lo spirito adolescenziale.

Sicuramente gli accademici e i laureati in filosofia troveranno da ridire sulle mie riflessioni, sorridendo, probabilmente, della banalità che si nasconde dietro le mie parole.

Voglio ricordare, però, che la cultura di questi accademici viene dalle borsette delle loro madri, disposte a pagare ingenti somme di denaro per permettere ai loro figli di crearsi un bagaglio culturale atto forgiare in loro una tempra morale, trasformandoli in individui migliori. Ecco… non credo che sorridere, vantando una cultura d’élite che non tutti possono vantare, per questioni economiche, sia un’azione degna d’una persona migliore della massa “ignorante” che ci circonda. Molto spesso le madri dei laureati in filosofia si accorgono dell’enorme cazzata che hanno fatto, mandando i loro figli all’università, quando al posto di eruditi e magnanimi studiosi, si ritrovano in casa dei supponenti e petulanti arrogantelli che solamente qualche cinghiata potrebbe raddrizzare.

Ricordo, inoltre, a questi accademici, che tutta questa ridondante cultura proviene da libri scritti da altrettanti accademici e credo che non ci sia bisogno di rammentare a questi geni della filosofia, che un certo Socrate detestasse con tutto se stesso i libri e l’arte dello scrivere.

Quindi, state pure sereni, Socrate avrebbe schifato sia  voi che me. Voi in quanto detentori di una cultura tratta dai libri e me in quanto scrittore.

Detto questo, auguro a tutti i non-eruditi una buona lettura.

Ferdinando de Martino.

 

Letture consigliate dall’Infernale:

 

IL BAR COME CONCETTO.

Il bar è uno dei più grandi cliché della narrativa. Cinema, letteratura tradizionale e a fumetti, televisione e teatro tendono ad utilizzare, spesso, il bar più come una sorta di concetto che come un luogo vero e proprio.

Se in un racconto o in una puntata del vostro serial preferito, un investigatore privato si trova all’interno di un bar è per via degli stereotipi che la sua figura rappresenta, rapportata al concetto di bar.

L’investigatore, al contrario del poliziotto, è quasi sempre un outsider (come spiega Poe in uno dei suoi saggi di scrittura) e come ogni outsider che si rispetti, scappa sempre da qualcosa; questo “qualcosa” potrebbe essere un passato da dimenticare, dei cari persi in qualche strano incidente e via dicendo. L’epicentro del discorso è “lo scappare”.

L’investigatore scapperà sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora, l’escamotage del bar attribuisce allo “scappare” una nota di tragedia interiore; come se il bar fosse l’unico posto in cui l’investigatore può permettersi di “scappare” senza muoversi.

Quell’uomo avvolto dal suo trench, potrebbe bere in casa sua o addirittura nel suo studio, ma no… lui preferisce il bar.

 

BAR+INVESTIGATORE, genera  TRAGICITÀ

 

Ogni figura, nella narrativa,  ha una sua personale connotazione all’interno del bar. Una donna altolocata, che solitamente entra in un bar sempre e solo per cercare qualcuno, controllerà la polvere sul bancone e scruterà con sdegno il bicchiere di Coca Cola o acqua, che ordinerà solamente per educazione e non per sete.

L’arte, al contrario della filosofia, dev’essere lo specchio della società, mentre la filosofia rappresenta la lente d’ingrandimento di questa. Ecco perché l’arte e la filosofia sono da sempre alleate. In fin dei conti, sempre di lenti si parla.

Essendo l’arte, specchio dell’intera società, la riproduzione artistica del bar deve, in qualche modo, rifarsi all’idea reale di bar.  Questo vuol dire che il bar, altro non è che un luogo atto a stereotipizzare ogni individuo? Esatto.

Il bar è la perfetta riproduzione di una piazza greca. Al giorno d’oggi esistono molte piazze, Facebook è l’emblema di queste, ma al contrario del noto social network, il bar riesce a tirar fuori le nostre debolezze, cosa che Facebook cerca di eludere, mostrando i nostri bicipiti e le nostre cosce mentre fingiamo di essere ai Caraibi, durante un pernottamento a Spotorno.

Nei bar tutti hanno qualcosa da dire e lo fanno coi loro atteggiamenti.

Immaginate di trovarvi in questo preciso istante all’interno di un bar, diciamo… con un paio d’amici, intenti a farvi una birretta.

Vedete quel gruppo di ragazzi, lì? Due tavoli a fianco al vostro? Bene.

Sono in cinque e tutti stanno chiacchierando. L’argomento non è importante, quello che è importante è l’atteggiamento.

Se all’interno della comitiva, qualcuno inizierà ad alzare il tono della voce, magari ridendo o scherzando, ecco, quello è l’individuo più solo del gruppo. Ovviamente non sto parlando di un singolo episodio, ma di ripetute dimostrazioni di superiorità canora che andranno a dimostrare quanto da me sostenuto.

Che bisogno c’è di alzare la voce? Che bisogno c’è di essere quello che grida più di tutti, quando segna l’Inter? Che bisogno c’è di ordinare da bere con voce gutturale? La risposta è una ed una soltanto: la solitudine.

Il bar tende ad estremizzare tutto, specialmente quando si passa al secondo bicchiere; solitudine, terrore, amore, invidia, perfidia, tutto verrà estremizzato da quell’ambiente in cui la competizione è silenziosa e serpentina.

Molti sarebbero portati a credere che il più solo del locale sia il tizio che inizia a raccontare la propria vita al primo sconosciuto, ma non è così, in quanto chi ha qualcosa da raccontare, raramente alza la voce. Le tonalità alte rappresentano l’arma di chi non ha un cazzo da raccontare, perché quel poco che si ha, lo si cerca di vendere in maniera altisonante.

La voce degli ambulanti che gracchia dagli altoparlanti -Donne è arrivato l’arrotino.-, ne è la dimostrazione più eloquente.

Credetemi, amici… il bar smaschererà tutti, se gli darete il tempo di farlo.

Tutto il mio discorso si basa sull’apparenza e molti di voi saranno portati a pensare che giudicare dall’apparenza sia uno degli errori più grossolani per una persona. Beh, chi la pensa così, commette un grossolano errore di calcolo.

È stato M. Heidegger a dire -Ciò che non si manifesta nel modo in cui non si manifesta l’apparenza, non può neppure sembrare, esser parvenza.-, ed io la penso esattamente come lui.

L’apparenza descrive alla perfezione l’individualità dell’essere. Dall’apparenza possiamo dedurre i gusti musicali, le ideologie politiche e perché no, anche le tendenze sessuali.

Possiamo tranquillamente asserire che l’apparenza è, a tutti gli effetti, la carta d’identità dell’essere.

Il bar rende più semplice risalire all’essere, enfatizzando l’apparenza.

Addentrandosi in questa foresta di pensieri, si potranno scoprire una miriade di nozioni che potranno tornare utili all’animale da bar.

Il mercoledì sera, ad esempio, è più semplice rimorchiare nei bar. Prima di darmi contro, pensate a tutte le volte in cui avete rimorchiato in un bar o, se non è mai successo, pensate a tutte le volte che i vostri amici hanno rimorchiato all’interno di un bar.  Quanti di questi rimorchi hanno avuto luogo durante un mercoledì sera? Ecco.

Il motivo è semplice ed è estremamente radicato nella filosofia da bar: siamo la generazione della pausa.

Siamo i messicani delle generazioni. Prima di additarmi come razzista per aver sostenuto che i messicani siano pigri, lasciatemi il tempo di spiegare questa mia affermazione.

Chiunque sostenga che i messicani non sono pigri, o non ha mai conosciuto un messicano o non ha mai ragionato sulla derivazione del termine, spagnoleggiante, “siesta”. Se questo non bastasse, vi porterò un altro esempio.

I messicani hanno inventato uno strumento musicale chiamato Kahon, strumento che consiste, praticamente, in una scatola su cui sedersi. La musica nasce dal battere le mani sulla suddetta scatola. Ok. Dopo aver dimostrato di non essere razzista, ma solamente obbiettivo, posso tornare al saggio.

Siamo la generazione della pausa. I nostri videogiochi hanno sempre la possibilità di fermare il gioco per fumare una sigaretta e se credete che sia sempre stato così, non avete mai giocato a Pac-man.

Pac-man non aveva l’opzione pausa. Pac-man ti logorava il cervello. È per questo che i rimorchiatori degli anni ottanta uscivano di sabato e non di mercoledì; perché il fine settimana era dedicato al divertimento.

La nostra generazione ha bisogno di una pausa settimanale per “tirare avanti” e così, il mercoledì è diventato il giorno designato a questa pausa dallo stress della vita. E cosa fanno le donne quando sono stressate?

Adesso, probabilmente, mi ritroverò nella merda fino al collo: ehi, dopo i messicani non vorrai mica stereotipizzare anche le donne?

Amici, le regole del gioco non le ho fatte io… è stato il bar. Quel posto con le insegne luminose, tira fuori la verità dalle persone e se le donne sono più inclini a scacciare lo stress facendo l’amore non è colpa del sottoscritto. Gli uomini farebbero l’amore anche per scacciare l’amore stesso. Visto? siamo tutti degli stereotipi, no?

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Ferdinando de Martino.

 

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