Bentornato Alberto – Un racconto di ENZO PACI

 

10 settembre 2019

Mi piace il rumore che fa l’involucro di cellofan delle sigarette quando viene accartocciato. È un suono croccante.

 Questo pensava Alberto aprendo il secondo pacchetto della giornata mentre lo sguardo si spegneva sull’insegna luminosa di quell’azienda che fino a un anno fa chiamava famiglia. Già, la grande famiglia della Smai.Tec. Entrò a farne parte nell’autunno del duemilanove. Non fu difficile trovare lavoro. Per gente come lui, appena laureata in ingegneria elettronica con centodieci e lode, non c’era neanche il bisogno di sbattersi troppo, niente curriculum da inviare, niente raccomandazioni. Erano le aziende stesse che si sbrigavano ad accaparrarsi le teste migliori appena uscite di facoltà. Le referenze parlavano per lui. Una tesi sul’ Interazione elettrone-fotone in dispositivi nano elettronici. Dopo alcuni colloqui, fatti per lo più di strette di mano, poche parole e sguardi di stima degli esaminatori, Alberto Betti si trovò a  dover scegliere fra tre proposte, due delle quali come ricercatore. Avrebbe potuto lavorare in ambienti molto stimolanti come quello della robotica o dell’informatica, col tempo avrebbe fatto carriera raggiungendo anche uno stipendio adeguato, ma aveva fame, non poteva aspettare, voleva far carriera e farla alla svelta, per lui era meglio lavorare nel privato, scalare anno dopo anno l’organigramma  aziendale fino a raggiungere  magari un ruolo da dirigente, con busta paga da diecimila euro al mese. La Smai.Tec era perfetta ed era la terza proposta. Componentistica elettronica, si occupava di appalti importanti per l’esercito e per le telecomunicazioni. Negli otto anni successivi realizzò quanto di meglio potesse aspettarsi. Responsabile tecnico di filiale, appartamento in centro e una donna da sposare. Tutto era perfetto. E non lo sarebbe più stato.

Nel gennaio del duemila diciotto ci fu un avvicendamento a livello dirigenziale. Stefano Cortesi, manager di lunga data, e responsabile di filiale, l’uomo che lo aveva assunto andò in pensione. Si abbracciarono quel giorno. Alberto fece capolino nell’ufficio della dirigenza:

“Posso entrare?”

“Sei già entrato.”

“Stefano mi mancherai un casino.”

“Tu no!”

“Neanche un po’?”

“Bè forse le tue sigarette. Dammene una?”

“Al solito, più siete ricchi e più siete accattoni.” 

Fumarono in ufficio anche se non si poteva, l’ultima trasgressione prima di andarsene. Poi si abbracciarono. Alberto aveva gli occhi acquosi.

“Mi è andato il fumo negli occhi … mi mancherai,”

“Ragazzaccio non vado mica a morire, vado solo in pensione, e poi sai dove trovarmi”

“Mi stai dicendo che posso venirti a trovare?”

“Bè siamo una famiglia, ricordi?” 

Dicono che nello sguardo delle persone ci sia già quello che vedranno. Gli occhi verdi di Stefano quel giorno erano cupi, come due laghi d’autunno, increspati dal vento. Un anno dopo sarebbe morto per carcinoma polmonare. Quel corpo da ex pallanuotista, solido, alto un metro e ottanta circa, con delle cosce che malgrado l’età continuavano ad essere delle colonne d’Ercole sarebbe arrivato a pesare poco più di sessantacinque chili. Lo avrebbe rivisto ancora una volta. Alberto pensò al suo sorriso amichevole e accogliente e poi tornò con la mente a quella mattina di primavera che trasformò la sua vita in un inferno. 

Ora, ci sono vari modi per aprire la porta sul proprio inferno. C’è chi la spalanca facendosi un bel buco di eroina, chi la spinge delicatamente con lo stesso fare mellifluo della mano tra le cosce di una pivella e mandando a puttane vent’ anni di matrimonio; chi, e questo è il caso di Alberto, decide di buttarla giù con una spallata, sfidando apertamente il proprio superiore. Entrò con forza e scomposto nell’ufficio del suo nuovo dirigente Sergio Lavizzari.

“Cosa vuol dire che la mia ricerca è sospesa?”

“A quanto mi risulta, sono quasi due anni che ci lavori, non mi sembra che tu stia portando molti risultati.”

“Non è vero gli ultimi test sono stati positivi. Lo scorso anno Stefano mi aveva rinnovato la fiducia e anzi mi aveva addirittura aumentato il budget.”

“Stefano non c’è più, ora sono io che decido il budget.” 

“…”

Alberto non rispose. Era paralizzato respirava affannosamente e fissava quello che abitualmente negli ultimi quattro mesi, ovvero dal suo arrivo in azienda come nuovo dirigente di filiale, aveva deciso di chiamare nella tranquillità delle mura domestiche “nano di merda”. Sergio infatti era bassissimo, con occhi pallati e sopracciglia spesse. Un sorriso diabolico come quello di Chucky, la bambola assassina, completava il ritratto che non doveva essere molto dissimile dall’immagine che De André aveva del famoso giudice / nano della sua canzone, quello che aveva “il cuore troppo, troppo vicino al buco del culo”. Già dai suoi primi giorni in Smai.Tec aveva dato prova di non essere uno incline alla simpatia. Anzi il suo modo di fare sbrigativo e innaffiato da abbondante urina di saccenza, lo faceva risultare a tutti piacevole come l’odore di un vespasiano otturato nei mesi caldi d’estate. Sonia rideva quando sentiva i racconti che Alberto ne faceva, in cucina, sorseggiando un buon vino rosso.

“Te ne racconto una!”

“Me ne racconti una?”

“Si, te ne racconto una!”

Passò il bicchiere colmo di Morellino a Sonia, prese posto a suo fianco e cominciò a sorseggiare il suo:  “Oggi il nano di merda ha voluto farci uno di quei bei discorsi motivazionali che tanto piacciono alle aziende americane. Ci ha fatto convocare tutti in sala riunioni e dopo averci esposto la nuova strategia aziendale ha attaccato: perché noi ce la faremo! Perché noi siamo una squadra, che gli obbiettivi sono tutto e che la mission e che il focus sono importanti … poi si è girato ed è scivolato. Ancora un po’ e si ammazza. Che idiota. Per scherzare ho detto che anche stare in piedi è importante. Mi ha fulminato con gli occhi e poi se ne è andato via tutto offeso. Poi la sera, prima di uscire, mi ha beccato che ridevo e mi ha chiesto che cosa mi divertisse così tanto. Pensava ridessi di lui. Nell’ufficio della dirigenza al quinto piano, la luce filtrava dalle finestre, il pulviscolo nell’aria galleggiava ipnoticamente nei raggi del sole. Sergio Lavizzari con le sue gambette fece il giro della scrivania in alluminio e piano di cristallo e si sedette, lasciando penzolare le mani rilassate dai braccioli della sua Topstar da milletrecento euro e continuò a sermoneggiare mentre Alberto restava in piedi immobile, con le orecchie violacee per la pressione rabbiosa che stava accumulando: “Vedi Alberto, all’azienda non interessa quanto i test siano positivi, interessa quanto possano essere produttivi e attualmente i tuoi risultati non hanno prodotto neanche la speranza di un centesimo. Preferiamo dedicarci a prototipi magari meno lungimiranti ma con tempi più brevi di immissione nel mercato, come quello di Bongi.” 

Italo Bongi era un collega, non un amico, un collega, non un buon collega, un collega. Un tipo da buongiorno e buonasera. Da nove anni. Erano entrati insieme in Smai.Tec e quando Alberto venne promosso come responsabile tecnico di filiale, stando al barista del Bar a fianco dell’ingresso della Smai.Tec, Bongi ci aveva sofferto un casino. 

Si occupava prevalentemente di telecomunicazioni e attualmente stava sviluppando un nuovo software, che avrebbe dato maggiore stabilità alle videochiamate per smartphone. Roba di routine, nulla di rivoluzionante, non come il progetto di Betti. Eliminazione di qualsiasi tipo di sim dagli smartphone. Un codice personale che permette l’attivazione di un qualsiasi cellulare, configurantesi via wireless, con tutti i tuoi dati e file in on drive. Perdi il telefono e aspetti la telefonata della vita? Inserisci il codice personale su quello di un amico ed ecco fatto. Questa era un’idea. Ma non per Lavizzari.

“Mi spiace davvero. La tua ricerca è interrotta.” concluse il nano di merda.

Mi spiace davvero. Disse. Non era vero. Sergio lasciava trasparire liberamente un certo godimento nel dire ad Alberto che la sua ricerca sarebbe stata interrotta. Si era prodigato per mesi nell’intento di convincere le alte sfere che i suoi dubbi sul progetto erano sostanziali e ora che ci era riuscito, emanava quella che senza timore di fraintendimento poteva dirsi gioia. E non solo, voleva essere lui stesso a dare la comunicazione. Perché? Perché a Sergio Lavizzari stava sul cazzo Alberto Betti, tutto qui. Punto. Certo non fu questo il motivo per cui la ricerca venne interrotta, in sé e per sé aveva non poche criticità, ma la soddisfazione, il sentimento di anticipazione che provava nel pensare al giorno in cui gli avrebbe dato la triste notizia lo elettrizzava. In lui non sopportava quella spocchia accademica, quel muoversi a proprio agio tra i corridoi della Smai.Tec, senza alcun timore reverenziale. Lavizzari era nuovo nella società ma era comunque il suo superiore e non voleva solo rispetto, esigeva deferenza. E avere il privilegio di poter dire ad Alberto che la sua ricerca era interrotta era il primo passo per ottenerla. Quando uscì dall’ufficio della dirigenza Alberto era fuori di se, si sentiva come immerso in una schiuma calda. Andò in bagno si sciacquò la faccia, si fermò qualche istante con le mani sugli occhi, premendo intensamente coi palmi sui bulbi oculari, gli sembrava di provare sollievo. Si guardò allo specchio e all’improvviso strinse i pugni e cominciò a colpirsi in testa, con entrambe le mani, forte, con le nocche, in prossimità delle tempie. Sfogò la rabbia su di se. In gioventù gli capitò spesso di farlo, una volta dopo una lite furibonda in famiglia si spaccò la mano sferrando un pugno sul coprifilo della porta di camera sua. A quindici anni in un momento difficile della sua adolescenza, dopo aver perso il padre, per un certo periodo cominciò a infliggersi dei tagli sul petto, sull’avambraccio, utilizzando un Cutter. Era l’unico modo che aveva trovato per sfogare la rabbia. Sugli altri non poteva, non più.

Si sciacquò nuovamente la faccia, si asciugò, piegò quasi maniacalmente l’asciugamano, chiuse delicatamente la porta del bagno e tornò alla suo laboratorio. Bongi lo vide prendere la giacca e incamminarsi verso l’uscita.

“Ehi Albe tutto bene?”

Non ricevette risposta.

Quella sera a cena, Alberto raccontò tutto a Sonia ma sta volta non c’era nulla di divertente. Lei ascoltò con attenzione, si morse il labbro inferiore, guardò il volto teso del proprio compagno e capì che la cosa non era da sottovalutare. Quella di interrompere la sua ricerca non era solo una scelta aziendale, dietro c’era una questione personale. Alberto aveva un nemico. 

La mattina seguente alle sette e quaranta posteggiava la sua bici sotto i portici sui quali pesava il massiccio palazzo anni settanta  sede operativa della Smai.Tec. Prese l’ascensore fino al terzo piano e come d’ abitudine fece una sosta nell’area ristoro per un caffè. Era una sala molto luminosa, con finestre in linea per tutto il suo perimetro, i piani si reggevano in virtù di spesse colonne di cemento armato, il pavimento lucido per un recente restyling in resina azzurra conferiva all’ambiente un aspetto di modernità. 

Alberto in piedi davanti al distributore sorseggiava il suo secondo caffè e che gli avrebbe giustificato la quinta sigaretta della giornata, che già stringeva tra le dita, pronta per essere accesa. Era ancora chiaramente turbato. Aveva dormito poco e male. La notte non era stata per niente foriera di buoni consigli, ma solo di incubi. Sognò di trovarsi nudo in mezzo a una strada affollata. Si era perso e chiedeva indicazioni ma tutti lo ignoravano, tranne un gabbiano che gli si avvicinava minaccioso e che sollevandosi in volo puntava dritto verso i suoi occhi, strappandoli con delle beccate decise, per poi accanirsi sulle guance, dalle quali una volta lacerate spumava copiosa la saliva mista sangue. 

Non si svegliò né di soprassalto, né tutto sudato bensì venne svegliato come tutte le mattine, da nove anni a questa parte, dal suono della sveglia e dal profumo di caffè già pronto in cucina. Sonia si alzava alle sei e trenta, apriva naturalmente gli occhi, voltava la testa, guardava l’orologio e vedeva sempre la stessa ora, minuto più minuto meno. All’inizio questa sveglia biologica, la infastidiva non poco ma col tempo si era abituata fino a darle un senso e ne approfittava per leggere qualche pagina di romanzo in assoluta tranquillità, mentre veniva su il primo caffè della giornata. Alberto andò in cucina ma decise di tenersi per se l’incubo. Lo lasciò rinchiuso nella sua testa sperando che si riassorbisse nella materia grigia. Se ne avesse parlato lo avrebbe reso in qualche modo memorabile e lui non voleva. Eppure anche ora che era alla Smai.Tec non riusciva a toglierselo dalla testa. Era un ingegnere, un logico, e non credeva all’interpretazione dei sogni o altre boiate del genere, ma se avesse dovuto dire la sua, avrebbe detto che nel sogno era nudo perché togliendogli la ricerca era come se lo avessero privato di tutto, nessuno lo aiutava perché nella Smai.Tec ognuno pensava al proprio orticello e anche lui non si era mai tirato indietro quando si trattava di fregarsene degli altri. E il gabbiano, bé, il gabbiano era il nano di merda, che gli strappava gli occhi togliendogli la possibilità di vedere il proprio futuro e lasciandolo schiumare dalle guance senza poter dire una parola.

Alberto era uno che non riusciva a mascherare troppo bene le sue emozioni, mentre con la palettina trasparente girava l’arabica delux da settanta centesimi e cercava di dare un senso al suo mondo onirico venne interrotto da un “Tutto bene?”.  Era Bongi. 

“Quel pezzo di merda di Lavizzari mi ha tolto la ricerca.”

“Perchè?”

“Dice che l’azienda preferisce progetti come il tuo.”

“Capisco.” disse Bongi annuendo con la testa ma con il tono della voce come per dire – così proprio non va bene.

Si rimane sempre colpiti dalla assunta e stupefacente verità riguardo la comunicazione non verbale, di quanto sia più chiara di mille parole. Dietro quel “capisco” Alberto ci vedeva un mondo! Era un capisco pieno di: Io ce la sto facendo e tu no. Ci godo ma non posso dirtelo. Io sono un genio ma mantengo il profilo basso. Urlerei dalla gioia ma non posso, perché io sono un bravo bambino.

E ora cosa pensi di fare?  

Sono proprio un bravo bambino che si preoccupa del collega più sfortunato. 

Niente. Aspetto che mi venga un’idea e nel frattempo continuo a fare il responsabile tecnico.

Tanto lo so che non te ne frega un cazzo e che vorresti farmi le scarpe.

Se ti conosco bene, tempo una settimana sei già con la testa su un altro dei tuoi progetti.

Spero di no, e sì, vorrei farti tanto le scarpe!

Il mese successivo Alberto si annoiò parecchio. Il ruolo di responsabile tecnico svolgeva prettamente mansioni burocratiche. Apposte un paio di firme, acconsentiti gli acquisti del materiale tecnico  necessario e poco altro, il resto delle giornate Alberto le passò gettando pallette di carta in un secchio da una distanza sufficiente per renderlo divertente, cazzeggiando su internet, chiamando in negozio Sonia e appoggiando la fronte alla finestra che lasciava sempre trasparire una giornata viva ma inutilmente ferma. Avrebbe potuto andare avanti lo stesso con la sua ricerca, e semmai ne fosse venuto a capo avrebbe potuto vendere i risultati fuori della Smai.Tec ma si sentiva svuotato.  Per fortuna c’era Sonia. Si era innamorato di lei quasi subito. La cosa andò così. Per raggiungere la Smai.tec doveva prendere due autobus, la macchina era da escludersi, in centro c’erano solo parcheggi a furto legalizzato, l’alternativa era farsi 40 minuti a piedi o comprarsi una bicicletta. No, lo scooter no, ad Alberto non gli piaceva, da ragazzo aveva provato quello di un amico cadendo due volte in un giorno, con conseguente perdita dell’amico. La bici era perfetta. Così andò in uno di quei mega centri commerciali di articoli sportivi. Mentre cercava di orizzontarsi nella scelta migliore, cosa non facile per un ingegnere che in questi casi può diventare veramente ossessivo, una voce corse in suo aiuto.

“ Bisogno di un conisglio?”

“Grazie, sei gentile. Hai visto che ero in difficoltà nella scelta?”

“Si, ma non sono gentile, è che stiamo per chiudere.” rise, di un sorriso bello, spontaneo, incorniciato da labbra carnose.

“Oh, scusa allora mi sbrigo.”

“Questa è una Olmo bivio, l’ideale per la città, dalla linea molto elegante.”

“Cambio?”

“Shimano TY ventuno.”

“Mi sembra anche bella leggera.” disse Alberto soppesandola.

“Si. Pesa solo quindici Chili.”

“Tu prenderesti questa?”

“Si, e la prenderei verde.”

“Ti piace il verde?”

“No, è l’unica che è rimasta!”

“Perfetto, verde allora.”

“Vieni ti accompagno alla cassa!”

“Grazie …” leggendo il cartellino “ Carla.”

“Mi chiamo Sonia.”

“Ma sul cartellino c’è scritto Carla.”

“È un nome finto che uso qui in negozio, non mi va di fare sapere quello vero.”

“Ah, e allora perché me lo hai detto?”

“Non lo so.”  disse guardandolo di sbieco inclinando il capo verso sinistra. Malizia, invito, gioco, dolcezza, vino, letto, carezze, tutto in uno sguardo.

“Io mi chiamo Alberto, ma in giro mi conoscono come Vercingetorige.” rise di nuovo. Che bello.

Lavizzari per un po’ se ne stette tranquillo, nel suo quinto piano dirigenziale, solo ogni tanto faceva capolino al terzo, dove le porte dell’ascensore si aprivano su lungo corridoio che faceva da sparti acque tra i laboratori equamente distribuiti tra destra e sinistra, illuminato dalla finestra finale che si affacciava su dei giardini arredati per la pausa aziendale. Il laboratorio di Alberto era il terzo a sinistra, dieci metri quadrati, spazio sufficiente per una scrivania, e un banco da lavoro con tutti gli strumenti necessari per pensare e costruire il futuro. Poi una mattina, la sorpresa, Alberto trovò quel fastidio di persona seduto al suo posto, dietro la sua scrivania, tra le sue cose.  Lo stava aspettando invadendo il suo spazio.

“Buongiorno Betti.” sorrise sornione.

“Buongiorno.” rispose Alberto dandogli subito le spalle con la scusa di togliersi la giacca.

“Mi sono permesso di sedere al tuo posto.” sempre con uno sguardo sardonico “Senti Betti sono qui per comunicarti alcune cose.”

“Potevi chiamarmi.”

“Si potevo. Ma è una questione squisitamente delicata. La sede centrale della Smai.Tec ha deciso di decentrare alcune linee produttive, come quella della produzione di fibra ottica. È un lavoro molto impegnativo, di responsabilità, da seguire da vicino. Una produzione che a pieno regime sarà di dodici ore al giorno con turnazioni di sei ore per gli operai. Chiaramente il responsabile dovrà seguire l’intero ciclo. Ho pensato a te in questa posizione.” 

“Ma come… io sono nella divisione ricerca e sviluppo.”

“Non più. Nel frattempo che trovi un nuovo progetto per la Smai.Tec ho pensato di impiegarti così.”

“Ma qui sono il responsabile tecnico.”

“Non più, Bongi sarà promosso al tuo ruolo.”

“Ma per quale motivo?”  

“Sono scelte aziendali.”

Si sentì avvampare, mise le mani tra i capelli, fece un giro su se stesso, fece un passo verso l’uscita come prendere spazio alla rincorsa poi si girò di nuovo in direzione del nano e lanciò il suo: “Ma  che cazzo dici, sono le tue scelte, le tue!”

“Modera i termini Betti.”

“Modero un cazzo!”

Dagli altri laboratori sbucarono teste incuriosite. Bongi che era nel laboratorio vicino invece rimase seduto alla scrivania. Sono un bravo bambino e ce l’ho fatta.

“Io non ci vado in linea di produzione, vaffanculo io sono un ingegnere, laureato con centodieci e lode, ho sviluppato cinque brevetti per la SmaiTec, mandaci un altro a fare lo schiavo!”

“…”

Lavizzari rimase in silenzio, si alzò di scatto e senza degnarlo di uno sguardo infilò l’uscita. Alberto, immobile, se lo vide sfilare sotto il naso, ne udì i passi mocassinati che tacchettando raggiungevano l’ascensore. 

Di nuovo quella sensazione terribile di implosione. Il respiro pesante. Si piegò su se stesso e si colpì a pugni chiusi i quadricipiti “Cazzo, cazzo, cazzo!”, il collo si contrasse incordandosi. Avrebbe voluto stringere la faccia di quell’omuncolo e sbatterla contro muro, con una testata gli avrebbe annullato quel sorrisetto per sempre ma non poteva, l’unica cosa che poteva fare era sfogarsi su se stesso, colpirsi nevrastenicamente, prendere un cacciavite e incidersi il petto, così di scatto. Erano passati vent’anni dall’ultima volta. Era il mille novecento ottantacinque. Aveva quindici anni e aveva perso suo padre da un anno circa. L’elaborazione del lutto fu lunga e travagliata. In una mente adulta la comprensione di un evento, come la perdita di un genitore, trova soddisfazione in quell’ordine naturale delle cose che tutto ci fa accettare in virtù di quella ruota che gira e che si chiama vita. Per carità, questo non ci rende esenti da lacrime e immuni da sofferenza ma tutto sommato è più accettabile. Nella mente di Alberto invece tutto questo era reso più arduo dalla profonda convinzione di aver vissuto la più grande delle ingiustizia. A quindici anni perdere un genitore è amputazione. Sei un treno in corsa a cui tolgono d’improvviso le rotaie. Deragli. Non sei più quello di prima, il compagno di classe, il nipote affettuoso, no ora sei un altro, se quello a cui è morto il papà. E così finisce che ci diventi davvero un’altro, non sei più tu. Alberto se ne era andato, al suo posto c’era uno nuovo. Negli occhi degli altri vedeva solo pietà, una pietà di cui non sapeva che farsene, vattene, che provoca solo rabbia, ti odio! Una rabbia viscerale, spacca, distruttiva, spacca tutto! E che aspetta solo di essere sfogata. Prima o poi quel momento arriva. Risalendo una stradina mattonata, dopo scuola, incontrò due scemi. Li conosceva, se la prendevano sempre coi ragazzini più piccoli. Uno dei due gli si parò davanti: “Sei tu l’orfano?”   “Cosa?” “Sei tu l’orfano del cazzo?”  “…” “Gne, gne” lo perculava l’altro, Alberto cominciò a sentire tutto ovattato, aveva gli occhi caldi. “Gne, gne, povero senza padre.” Alberto si senti spegnere, come se qualcuno gli avesse strappato l’alimentatore della coscienza. Non pensò più a niente, si avventò su quello più vicino, colpendolo con una testata, dritta sul spina nasale, dal basso verso l’alto, vide crollare a terra quel sacco di letame lardoso e poi giù pugni, a martello, di quelli che fanno più male. Alberto non c’era più, c’erano solo i pugni chiusi e  il sangue che schizzava. L’altro scappò a chiamare aiuto. Quando tornò, il suo amico era sfasciato, dal naso il sangue usciva a flotti. Un profondo taglio si apriva sull’arcata sopracciliare. Non parlava, gorgogliava. Alberto invece era come sotto shock, venne preso e portato via da una vigile urbano. Non oppose resistenza alcuna. Fu denunciato. La madre pagò una bella cifra alla famiglia dello scemo perché la denuncia fosse ritirata. Alberto non avrebbe mai più alzato un dito su nessuno. Si era spaventato ma non tanto per la violenza sprigionata quanto per il fatto che non si ricordava nulla. Ricordava solo la parola orfano, il fiatone per lo sforzo fisico e il mal di testa che aveva prima di venir preso e portato in caserma. Ora quando provava rabbia per qualcosa o verso qualcuno si tratteneva dal reagire e si tagliava. Alcune volte si chiudeva in bagno e lo faceva freddamente, guardava la pelle aprirsi sotto lo scorrere lento del cutter, cerchi rossi di sangue macchiavano il lavandino poi lo scorrere dell’acqua portava via tutto in un vortice striato di rosso. Non sapeva perché ma dopo si sentiva un po’ meglio e tanto gli bastava. Altre volte invece si tagliava seguendo un impulso nervoso, quelli erano tagli più profondi, istintivi, pericolosi. Alla fine di quell’anno aveva collezionato sei tagli sul braccio destro, quattro su quello sinistro e altri quattro sul petto. Poi un giorno smise di farlo. Una discussione con un professore a scuola che lo aveva mandato fuori dalla classe. Arrivò a casa teso, si fiondò in bagno sbattendo la porta. Voleva tagliarsi, incidere quel bubbone di pus rabbioso e allentare la pressione, fortissimamente lo voleva, tremava quasi dalla voglia di farlo. Fu sua madre da dietro la porta del bagno a pregare di non farlo. “amore non lo fare, la mamma è con te, ti prego non tagliare mio figlio, apri amore, apri …” Aprì la porta. La vergogna, la fragilità, cominciò a piangere, si fece abbracciare. Seguì un lungo silenzio, poi stringendo la madre sentì quella tensione allo stomaco che si scioglieva. Ben tornato Alberto.

Aprì la porta di casa, andò subito in camera da letto, voleva cambiarsi la camicia sporca di sangue prima che tornasse Sonia. La strofinò per bene con un pezzo di sapone, la sciacquò e poi la nascose tra lo roba sporca già in lavatrice.

Si disinfettò dove si era ferito, sullo sterno, la forma della punta  a taglio del cacciavite affondava per due o tre millimetri, appose un cerotto di quelli quadrangolari. Una t-shirt a girocollo avrebbe nascosto la medicazione. Giusto in tempo. Lo sferragliare delle chiavi nella toppa della porta di casa avvertì dell’arrivo di Sonia. 

“Ciao, sei già a casa?

“Già” sorrise prima di rifugiarsi in cucina accarezzandosi la nuca.

“Amore tutto bene?”

“Vieni di là, apro una bottiglia di vino, e ti racconto.”

“Che succede? Di nuovo problemi con Lavizzari?”

“Si”. Seguì una pausa di riflessione, teneva lo sguardo basso facendo no con la testa, non sapeva bene da dove cominciare. Dalla fine? Vaffanculo io sono un ingegnere … centodieci e lode … cinque brevetti  … mandaci un altro a fare lo schiavo! O dall’inizio? Da Lavizzarri: È un lavoro molto impegnativo, di responsabilità, … dodici ore al giorno … Ho pensato a lei in questa posizione”. Poteva partire anche dal centro: Bongi sarà promosso al suo ruolo. Decise di iniziare da come si sentiva: Sono a pezzi. E cominciò a raccontare. 

“Parlane con Stefano, lui ti può aiutare!”

“Stefano?”

“Si è l’unico che può intercedere per te nelle alte sfere, lui ti conosce, sa quanto vali,  ti vuole un gran bene.”

“Stefano ora ha altro a cui pensare ha iniziato la chemio, gli ci manco io.”

“Ti vuole bene …”

“…”

“Provaci”

“Domani lo chiamo, beviamo.”

Passarono due giorni, aspettò il sabato prima che Alberto si decidesse a chiamare. “Vediamoci” gli disse Stefano prima di essere colto da una crisi di tosse. Alle tre del pomeriggio Alberto suonava al citofono della villetta a due piani di Stefano. Ad accoglierlo la moglie Valeria.

“Ciao Alberto, vieni, quanto tempo.”

“Ciao Valeria.”

Si baciarono e si incamminarono verso il giardino. Attraversarono l’ingresso, al centro del quale troneggiava la scala che portava al piano superiore, passando sotto un arco ecco la sala riccamente arredata in stile old America con tanto di camino, vero, per raggiungere in fine la veranda che si affacciava su una verde distesa di novanta metri quadri, un salice piangente nell’angolo ovest del giardino ondeggiava pigramente sotto l’influenza di una brezza settembrina che rinfrescava l’aria e l’animo di Stefano, seduto in sedia a rotelle al tavolino di ferro battuto. 

“Ti sono mancato?” 

“E io?”

“Stefano non sai quanto!”

“Siamo una famiglia.”

“Già.”

“In cosa posso esserle utile signore?”

Valeria li osservava dalla veranda, lontana, non voleva essere di troppo o forse non voleva profanare quella che sembrava un’ immagine sacra, un uomo giunto alla fine del suo viaggio dava l’ultimo consiglio ad un giovane che poggiato con i gomiti sulle ginocchia, quasi in reverenza ascoltava rispettosamente. Si lasciarono con la promessa di Stefano che il lunedì avrebbe chiamato la direzione centrale della Smai.Tec per avere chiarimenti. Che non arrivarono mai, non fece in tempo a telefonare. La notte di domenica una crisi respiratoria mandò in fibrillazione il cuore di Stefano che smise di battere alle cinque e trentacinque di lunedì. All’alba del dieci settembre duemila diciannove. La telefonata di Valeria arrivò ad Alberto che era già in ufficio, aveva appena finito di leggere la lettera di licenziamento posata sulla sua scrivania. Colleghi gli dissero che Lavizzari l’aveva portata di persona. Baratro.

Aveva vagato tutto il giorno in cerca di una soluzione, ma niente, trovava solo domande, ed ora eccolo li seduto sotto i portici a fissare quella cazzo di insegna. Estrasse l’ennesima paglia, ne odorò la fragranza tossica e facendo rotolare il filtro tra indice e pollice, morbido, continuava a chiedersi che cosa davvero fosse successo. Accese, diede una boccata profonda e quando fece per togliere la sigaretta di bocca questa rimase incollata tra le labbra asciutte, strappando un lembo di pelle. Cristo, il suo licenziamento era proprio come quello strappo e lui era il lembo di pelle staccato. Sonia provava a contattarlo da ore, senza mai ricevere una risposta. Alberto non sapeva che fare. Poi sentì di non contenere più la rabbia, l’odio la frustrazione, la sensazione di blackout arrivò, Alberto stava sparendo di nuovo come quel giorno di ritorno da scuola, poi buoi solo qualche ricordo. Passi svelti, sbrigati, una cartoleria, si sente bene? Un cutter, tagliare. Ehi nano di merda!

20 Novembre 2020

Riunita in Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza.

   Con  sentenza  in  data  20 Novembre 2020 il G.u.p. del tribunale di Milano,  assolveva, l’imputato Alberto Betti dal  reato di tentato omicidio in danno Al Sergio Lavizzari perche’  non  imputabile  per  vizio  totale  di  mente  e,  ai sensi dell’art. 222 c.p., gli applicava la misura di sicurezza del ricovero in  ospedale  psichiatrico  giudiziario  per la durata minima di anni

due.

   Avverso   detta   sentenza  hanno  proposto  appello  i  difensori dell’imputato   chiedendo  di  qualificarsi  il  fatto  come  lesione

personale  non  avendo  la  persona offesa corso pericolo di vita;

Si avvia altresì indagine di approfondimento di reato per mobbing perpetrato dal Lavizzari a danno del Betti. 

Il giorno della sentenza prima di essere internato Alberto si fece portare al cimitero, posò un mazzo di fiori sulla tomba di Stefano. Pianse abbracciò Sonia e di nuovo sentì quella tensione allo stomaco che si scioglieva. Ben tornato Alberto.

 

Enzo Paci.

 

2 Commenti

  1. Anonimo

    Complimenti, un racconto molto scorrevole, amaro ma senza troppo stucchevole languore. È purtroppo un piccolo spaccato di vita che viviamo in tanti fra pochi momenti di tranquillità e tante angustie che si alternano nelle nostre stanche teste.

  2. Anonimo

    Bellissimo!!! Grazie, ho rivisto quei meccanismi che ho conosciuto tanto tempo fa in fabbrica, continua a scrivere.Ciao franco ravera.

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