Diario di uno scrittore psicotico | La donna più bella del mondo | di Ferdinando de Martino

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Li usava per guardare, ma quelli non erano semplicemente degli occhi.
Mine anti-uomo, ecco cos’erano. Potevi passarle accanto senza nemmeno notarla, magari assorto nelle divagazioni di una vita votata al nulla del momento, ma se ti capitava d’incontrare quegli occhi eri un uomo morto.
Si potrebbero scrivere romanzi ed intere saghe sulla bellezza di certe donne, la letteratura ne è piena, un po’ come se gli scrittori non avessero altro mezzo che la parola stampata per rimorchiare le donne, ma per lei era differente; l’inchiostro non avrebbe mai potuto imprimere su carta quelle mani, le gambe e tutto il resto.
Forse non era una donna, ma una poesia macabra. Ogni istante di perfezione si sarebbe perso nella fugace corsa del tempo, lasciandosi alle spalle brandelli di bellezza inafferrabili. Lo sapeva lei, esattamente come lo sapevano tutti gli altri.
Forse un quadro o una foto avrebbero potuto fermare quel processo, ma la consapevolezza che la donna dipinta su tela o impressa su celluloide non fosse realmente lei, ma una versione di lei differente da quella momentanea, avrebbe ucciso ogni artista.
I suoi uomini avevano il Q.I. di una pallina da ping-pong. Non so dire se li scegliesse a tavolino o semplicemente le capitassero a tiro sempre gli scartati dal raziocinio, ma il loro lessico era simile in tutto e per tutto a quello degli uomini di Neanderthal.
La guardavamo tutti, un po’ come se fosse più una partita di calcio o un buon incontro di boxe, piuttosto che una donna.
Continuavamo le nostre vite, lavori, assicurazioni, panini e tutto il resto, ma la sola consapevolezza della sua presenza riusciva a regalare un sorriso o un pianto, senza la necessaria correlazione con l’ambiente esterno.
Non era una donna… era bipolarismo.
Un marciapiede diventava una passerella internazionale e noi zotici di quartiere scattavamo fotografie mentali, improvvisandoci paparazzi del subconscio.
Come diavolo avevano fatto i suoi genitori a darle un nome? Non si poteva racchiudere un concetto in un nome; in questo Shakespeare aveva proprio ragione.
Gli inglesi e la loro perfezione stilistica… ma questo è un discorso a parte.
Potevi parlarci, berci assieme e se ti impegnavi potevi perfino scopartela, ma qualcosa di lei ti sarebbe sempre sfuggito dalle mani.
Scappa uomo finché sei ancora in tempo, non ti voltare. Ti voltavi ed eri finito.
Magari nel giro di tre giorni o di una decina d’anni, ma credetemi, quella condanna era già stata firmata.
L’impressione era sempre quella di trovarsi davanti alla conclusione di qualcosa.
Quella donna rappresentava la completa incapacità del genere umano di distinguere un lieto fine da una tragedia.

Ferdinando de Martino.