Filosofia da bar | il bar e la filosofia dei media | #9

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Siete mai capitati in un bar da soli? Magari nell’ora di pranzo, quando i lavoratori, le coppiette o i semplici amici se ne stanno a mangiare tutti assieme e allegramente?
Come vi ponete in una situazione del genere?
Ve lo dico io. Probabilmente fingerete di avere qualcosa da nascondere, qualcosa di brutto, come un passato da cui scappare o dei demoni da cui nascondersi. Lo sguardo cupo del solitario al bar è un classico e sapete perché? Perché mamma televisione e papà ego hanno generato in voi una sorta d’imprinting ideologico-filosofico con la figura del bar.
Pensate a Dylan (Beverly Hills 90210) quando mangiava da solo un megaburger al Peach Pitt, pensate a Ross e compagnia bella, tutti riuniti sui divani del Central Perk (locale al centro del telefilm), a bere litri e litri di caffè come sera tachicardia non esistesse oltreoceano. Tutti quei bar stagnano nei vostri ricordi, facendo si che l’aspettativa non venga mai tradita.
L’universo del bar si nutre delle vostre proiezioni, cambiando le liste dei cocktail e rifacendo gli interni in stile loft di Manhattan in locali che si trovano al Cep (noto quartiere genovese).
Nessuno di noi è immune da questa versione televisiva della vita che ci ripromettiamo all’interno di ogni bar in cui mettiamo piede. Le donne si sentono sempre un po’ Carrie Bradshow quando ordinano un Cosmopolitan e gli uomini diventano tutti Christian Troy, ordinando un whisky liscio al bancone del bar, pronti al rimorchio.
Gli sceneggiatori idealizzano da sempre il bar, proprio perché l’idealizzazione è la base di una buona sceneggiatura. La quasi totalità degli show di successo si basa sulla prevedibilità e sul cliché.
Questa potrebbe sembrarvi un’opinione forte, ma è la pura realtà. Quando Fonzie usciva dal bagno, fermandosi affianco al Jukebox, tutti noi sappiamo che di lì a breve avrebbe tirato un pugno sull’apparecchio, facendo partire una canzone rock&roll che finirà per ballare con la strappona di turno.
Questa tecnica non è del tutto inutile, in quanto serve a far relazionare un personaggio all’interno di uno spazio chiuso, risolvendo così la possibilità di doversi scervellare per trovare delle azioni nuove da farli fare ogni volta. Questo procedimento si sposa alla perfezione con la caratterizzazione dei protagonisti. Brian dei Griffin, ad esempio, è solito ripetere la frase -Quale gamba mi devo scopare per avere un Martini?-, ogni volta che si ritrova in un bar. L’agente speciale Gale Cooper della serie televisiva Twin Peaks, prendeva un caffè “nero come la notte più nera” e il suo atteggiamento tipicamente lynchano, carico di quell’allegria di fondo che non è mai del tutto spiegata, veniva quasi amplificato all’interno della tavola calda della cittadina di Twin Peaks. Memorabile la scena in cui Cooper spiega allo sceriffo una teoria secondo la quale, almeno una volta al giorno, un uomo dovrebbe farsi un regalo, nel suo caso quel regalo era una fetta di torta inaspettata.
Il bar idealizzato delle serie televisive ha l’intento di creare un posto ibrido tra il fuori e la casa. Prendere dei protagonisti mettendoli a proprio agio in un luogo esterno ma vicino al loro mondo fa si che lo spettatore si senta uno della combriccola… uno di casa.
Abbiamo visto nel primo capitolo di questo libro, che l’uomo tende ad andare al bar da solo per cercare il gruppo, un po’ come farebbe un pentito lupo solitario davanti ad un nuovo branco. In questo caso la vita finisce per ispirarsi al sotterfugio televisivo, forse influenzato da questo o forse no, ma la domanda più importante che possiamo porci è la seguente: é il bar che influenza la vita che influenzerà gli sceneggiatori, o sono le serie televisive che influenzano il pubblico che proietterà la propria visione di bar all’interno dei locali in cui solitamente si ritrova?
Il noi che proiettiamo all’interno del bar è pura e semplice aspettativa e quando l’aspettativa viene tradita, noi stessi ci sentiamo traditi.
La questione centrale è: da chi ci sentiamo traditi? Chi è che ci ha ingannato a tal punto da farci credere che ordinare un drink battendo un pugno sul bancone, gridando -Il solito.- avrebbe fatto di noi un figo, quando in realtà sembrano la versione più stupida di un imbecille?
È stata la tv? Noi stessi? Il nostro ego?
Il tradimento è uno dei fondamenti primordiali della nostra capacità di rapportarci con gli altri esseri umani, secondo il filosofo contemporaneo Mark Rowlands ed io ammetto di far parte di della stessa parrocchia.
Credo che il tradimento non venga né inflitto, né ricevuto, credo piuttosto che questo continuo tradire sia più che altro l’unico istinto che l’uomo non e mai riuscito debellare del tutto. Possiamo sforzarci quanto vogliamo ma la nostra capacità di tradire ed imbrogliare è superiore ad ogni altra nostra capacità e, probabilmente, la somma di tutti gli imbrogli visti in televisione prodotti da sceneggiatori, ascoltati in radio o addirittura imbrogli creati da noi stessi, ha creato una sorta di coscienza collettiva che riesce ad ambire a qualcosa solo se questo qualcosa è fondamentalmente una chimera.
L’imbroglio è la base dell’ambizione e, forse, senza la capacità d’imbrogliare, l’uomo smetterebbe anche di sognare.
Il lavoro dello sceneggiatore è il creare ambizione-sogni. Più lo spettatore finisce per immedesimarsi in un personaggio, più il prodotto televisivo si avvicina allo status di brand. Non è un caso che una parte dei guadagni degli show americani provenga dal merchandising. L’America tende a mitizzare ogni cosa e gli americani, vittima di questa mitizzazione, finiscono per santificare i loro prodotti.
Passiamo ad un esempio pratico. Cercate su Google le seguenti parole: Budda, Allah, Cristo, Madonna.
I primi tre risultati saranno di carattere religioso, mentre il terzo vi condurrà verso una miriade di siti e pagine contenenti le news riguardanti una pop star di Bay City.
Scrivendo Madonna su Google, non apparirà la vergine Maria, bensì una non tanto vergine signora Ciccone con annesse foto sexy. I primi due risultati consigliati dal trend di Google sono i seguenti:

1 Madonna.
2 Madonna si tocca.

Come può essere successo? Una pop star, riesce a rubare le indicizzazioni ad una delle donne più famose di tutta la religione?
Potrà sembrarvi ridicolo, ma dietro a questo risultato si nasconde il grande segreto della religione. Qual’è il grande segreto? La religione non esiste… la facciamo noi.
Abbiamo inventato Dio e dal nulla, questo Dio è diventato una delle entità più famose del pianeta, rubando il posto ad altre divinità come Zeus, Dioniso e Ares.
Sono gli uomini a santificare, ergo gli uomini sono gli unici in grado di attribuire la divinità a qualcuno o qualcosa, quando a livello teorico la divinità dovrebbe essere sopra ad ogni cosa. Il grande segreto è che la divinità è tale solamente quando viene riconosciuta o, per dirla meglio, inventata.
Il popolo è passato dalle immagini di una Madonna con la corona di spine e il rosario tra le mani, appesa sul comodini, alle immagini di una Madonna biondina che mostra i capezzoli alle folle per protestare in favore della scarcerazione delle Pussy Riot.
Il popolo è interessato ad una Madonna piuttosto che l’altra e allora il web, ovvero lo specchio del pensiero comune, indicizza lady Ciccone al posto di Maria la vergine. Semplice, no?
Il popolo ha creato un nuovo santo. Pensate alla frase di John Lennon -I Beatles sono più famosi di Gesù.-; se Lennon fosse ancora vivo, Madonna potrebbe sbattergli in faccia le indicizzazioni di Google e dimostrare che l’unica persona in grado di battere una divinità ha due tette di marmo e un faccino birichino.

 

Ferdinando de Martino.