IL MOSTRO DEI RAVIOLI | Un racconto di Andrea Manca

 

Era un normale e monotono martedì di fine febbraio, quando alle 11:50, nella sala del piccolo ristorantino in cui lavorava Martina, il “Marilù”, entrò lui. 

Un uomo alto, grasso e imponente. Aveva una forma del corpo strana. Bitorzoluta. Il pancione non era tondo, ma aveva strani bozzi, come se indossasse un bustino o una pancera. Somigliava ad un tubero.

Aveva i capelli grigi, corti ai lati e con un lungo ed untuoso ciuffo sbarazzino che gli ricadeva sulla fronte. Il volto dell’uomo le ricordava vagamente un quadro di Picasso. Avrebbe potuto avere cinquant’anni come ottanta, non era definibile la sua età.

Stava lì in piedi in mezzo alla piccola sala del locale. Sembrava un gigante di pietra.

Il “Marilù” era un ristorante di pesce vecchio stampo. Non avevano piatti da gourmet o nouvelle cuisine. Era frequentato per lo più da anziani facoltosi e famiglie affezionate. Era composto da una piccola sala, le toilette e la cucina. Usavano prodotti a chilometro zero e producevano tutto loro, dalla pasta fresca ai dessert. Il pesce veniva comprato ogni mattina dallo Chef al mercato. Aveva i suoi contatti e sapeva da chi prendere il miglior prodotto al miglior prezzo. La frutta e la verdura venivano forniti da un’azienda agricola locale.

La sala aveva i soffitti alti e a volta come quelli di una cantina vinicola. Grosse finestre permettevano alla luce naturale di illuminare ogni angolo della stanza, rendendo l’ambiente arioso e accogliente. L’arredamento era semplice, in stile marinaresco. C’erano quadri raffiguranti pesci o scene di vita marina. Ancore e nodi erano esposti sulle pareti. I tavoli erano apparecchiati con tovaglie lunghe di raso blu che ricordavano le onde del mare. I colori e le luci trasmettevano un senso di pace a chiunque varcasse la soglia. A Martina piaceva lavorare lì perché era un ambiente intimo. Conosceva le abitudini di tutti i suoi affezionati clienti e poi si sentiva a casa. 

Il viandante stonava con l’ambiente circostante. Aveva grossi e sporgenti occhi a palla, privi di una qualsiasi animosità, nascosti per così dire, dalle spesse e ingiallite lenti da vista di un paio di occhiali anni settanta sorretti da un aquilino e importante naso.

Non era un bel viso, non aveva nulla di grazioso, anzi era piuttosto grottesco. Le guance molli e cadenti erano ricoperte da una brizzolata barba a chiazze. Richiamava alla memoria il muso di un bull dog inglese. Le labbra, quasi invisibili, altro non erano che una sottilissima linea rosa pallido. 

Infine aveva una fossetta che divideva a metà il mento facendolo somigliare ad un’albicocca.

L’uomo indossava un paio di jeans sporchi di fango e lisi, un logoro maglione a righe cachi e verde menta, un paio di mocassini nuovissimi e un giaccone imbottito di piume rosa antico o forse era solo ingiallito dal tempo e dalla sporcizia. 

“Dove mi siedo?” chiese con voce profonda e nasale. 

Martina sorrise al cliente e lo fece accomodare al tavolo. “Accendo le luci e le porto subito il menù. Sa è un po’ presto, la cucina non è ancora pronta, ma non si preoccupi. Sarò subito da lei.” Dopo di che gli portò il menù e chiese: “Gradisce qualcosa da bere nel frattempo?”

Il signore ordinò del vino rosso e un piatto di ravioli. Avvicinandoglisi, la ragazza notò che l’uomo era molto sporco e odorava di sudore rancido e stantio. Un lezzo pungente che penetra le narici e raggiunge la bocca dello stomaco con la potenza di una mazza ferrata. Come se non avesse lavato i vestiti da anni. Aveva aloni marroni sul colletto e chiazze di unto sul maglione. La ragazza si allontanò e comunicò l’ordine del nuovo cliente in cucina: “E’ entrato un tipo strano. Puzza come le monetine di rame nel mio portafoglio. Non ha salutato né nulla. Vuole solo del vino rosso e un piatto di ravioli.”

Lo chef la guardò perplesso e disse: “Sei sicura che questo poi paghi il conto? Non è che magari fa il barbone o l’elemosina in giro e ci tocca offrirglielo?”

“No figurati. Pagherà, poi se anche fosse non andremo in disgrazia per aver offerto un piatto di ravioli a qualcuno che è evidente che non se la stia passando benissimo.”

Uscì dalla cucina e andò nello spogliatoio per cambiarsi ed indossare la divisa. 

Quando Martina gli portò il piatto l’uomo la ringraziò e la ragazza notò che in bocca non aveva nemmeno un dente. Il signore mangiò tutti i ravioli in meno di cinque minuti, poi si alzò dal tavolo, pagò ed uscì.

La cosa si ripeté ogni giorno per circa un mese. Il signore entrava prima dell’orario di apertura e ordinava vino rosso e ravioli. Era sempre vestito uguale. Nessuno nel quartiere lo conosceva e pranzava sempre solo. 

A Martina metteva ansia. La guardava sempre, come se volesse catturare ogni minimo particolare del suo volto e del suo corpo. Le metteva i brividi. Non nascondeva minimamente il fatto che la stesse fissando apertamente. 

Con il passare del tempo divenne sempre più presente. Non mangiava più in fretta e andava via senza nemmeno bere il caffè. Giorno dopo giorno restava al tavolo sempre più tempo, a volte anche fino all’orario di chiusura. Stava diventando invadente ed esigente. Se Martina si soffermava da un cliente differente qualche minuto in più, magari scambiava due chiacchere o qualche convenevole, lui cominciava a chiamarla a gran voce e con insistenza.  

La ragazza aveva un carattere buono. Era solare e gentile con chiunque. Il suo sorriso metteva tutti di buon umore. Si chiedeva spesso da dove arrivasse quell’uomo e perché mangiasse solo ravioli al sugo. 

Non poteva essere un senzatetto perché, nonostante l’aspetto trasandato e l’atteggiamento schivo, l’uomo pagava sempre in contanti e con banconote di grosso taglio. Poi andava sempre via in taxi. Ogni giorno. Un clochard non si sarebbe potuto permettere di girare per la città in taxi.

Una mattina, dopo che l’uomo si sedette ed ordinò il consueto piatto, la ragazza gli chiese: “Scusi, mi perdoni la domanda, ma nel menù abbiamo moltissimi piatti eppure lei ordina tutti i giorni la stessa cosa, come mai?” 

L’uomo guardò la ragazza dritto negli occhi e rispose: “Chi lascia la via vecchia per quella nuova, sa quel che lascia ma non sa quel che trova.” E rise, mostrando le gengive.

Martina fece il possibile per limitare le interazioni con quella persona. Non aveva mai provato ribrezzo per qualcuno fino a quel momento e non fu facile. La ragazza si sentiva a disagio in sua presenza. Come se avesse avuto un sacco di insetti addosso. Sui capelli, nella divisa, lungo la schiena, su per le caviglie. Sentiva una marea di zampette fredde e disgustose percorrerle il corpo ogni volta che l’uomo la guardava. Ci volle tutta la sua buona volontà ed il suo autocontrollo perché riuscisse a sostenere la situazione in modo educato e cortese.

L’uomo continuò ad andare a mangiare il quel ristorante ancora per qualche settimana. Arrivava in taxi ed andava via in taxi. Martina incuriosita una volta gli chiese: “Scusi la domanda, ma lei fa il taxista?” 

Lui fece un ghigno beffardo, sdentato e rispose: “Lavorano per me. Io ho una società di taxi.” 

La conversazione cadde, l’uomo chiese il conto, pagò in contanti ed uscì. 

Come era giunto, sparì. 

Martina tirò un sospiro di sollievo. Non sarebbe più andato a mangiare lì. Non si vedeva da giorni, magari aveva trovato un altro posto in cui mangiare ravioli e bere vino rosso, oppure era solo di passaggio in città. Chissà, la cosa la lasciò comunque più leggera.

Passarono i giorni e la ragazza poco a poco dimenticò quello strano personaggio uscito dal nulla.

Non si accorse che ogni mattina, al suo arrivo, poco distante dal ristorante un taxi parcheggiava ed andava via solo quando la ragazza chiudeva il cancello del locale a fine turno. Non notò che con il passare dei giorni, il taxi la seguiva fino sotto casa, tutti i pomeriggi. 

Martina viveva la sua vita ignara di essere seguita e spiata. Giorno dopo giorno, il misterioso ammiratore si faceva sempre più coraggioso ed intraprendente. Finché una sera Martina cominciò a ricevere strane telefonate. Ogni sera, dopo le 21:30 le squillava il telefono, ma dall’altro capo non c’era mai nessuno. 

Il numero era “Sconosciuto” quindi non avrebbe mai potuto richiamare o indagare ulteriormente. Pensava fosse un call center o qualche altra ditta che si occupa ti vendita telefonica. Non diede peso alla cosa. Dopotutto chi lo farebbe?

Le giornate si susseguivano monotone e in serie. Scandite da un ritmo collaudato e in utilizzo da anni: sveglia, colazione, doccia, vestiti, lavoro, spesa, casa. Martina era una ragazza abitudinaria ed ingenua. Credeva che tutti fossero altruisti, generosi e sinceri come lo era lei. Non credeva nella cattiveria dell’essere umano.

La ragazza però cominciò a sospettare qualcosa quando cominciò a trovare mazzi di fiori anonimi sullo zerbino del suo appartamento. Chi poteva essere il suo ammiratore segreto? Perché le regalava sempre crisantemi rossi? Avrebbe tanto voluto sapere chi potesse essere, ma non sapeva come fare. I fiori li portava un fattorino e per motivi legati alla privacy non avrebbe certo potuto dire a Martina nome e cognome del donatore di fiori misterioso. Quindi non riuscì a scoprire un gran ché. Relegò in una parte della sua mente l’accaduto e proseguì con la sua vita. Nonostante le continue telefonate misteriose ed i mazzi di fiori inquietanti e funerei. 

Una sera, dopo essere stata a cena da un’amica, ricevette l’ennesima telefonata muta. O almeno così credeva lei. Quando rispose una strana voce metallica le disse: “Smetti di resistermi. Un giorno sarai mia.” Poi la linea cadde. 

Martina preoccupata tornò dall’amica e le raccontò della strana chiamata appena ricevuta. Le ragazze si tranquillizzarono pensando fosse uno scherzo di cattivo gusto da parte di qualcuno della compagnia di amici. Infondo c’era sempre il cretino di turno che pensava di essere simpatico facendo il burlone della situazione. 

La ragazza lasciò perdere la telefonata e tornò a casa tranquilla. Senza temere per sé stessa alcun ché. Il mattino seguente andò al lavoro, come ogni giorno e visse la sua giornata senza preoccupazioni ingombranti.

Quella stessa sera, mentre tornava a casa dopo essere andata a gettare la pattumiera, notò qualcosa di familiare. Un taxi parcheggiato davanti al suo portone. Non diede peso alla cosa, finché una volta a casa le venne in mente che quel taxi lo vedeva tutti i giorni da moltissimo tempo. Lo vedeva ovunque. La mattina fuori da casa sua. Fuori dal ristorante quando entrava al lavoro e quando ne usciva. Poteva essere una casualità. Esistono molte persone con lo stesso modello di auto. Probabilmente nel suo palazzo abita un taxista e vicino al ristorante anche. Magari i due hanno la stessa auto. Provò a lasciar perdere la cosa e tornare alla sua vita, ma le sembrava così assurda come coincidenza. Viveva in quel palazzo da anni e non aveva mai visto nessuno con un taxi, stessa cosa per quello che vedeva al ristorante. Si affacciò alla finestra e provò a scriversi in un memo il numero di targa, così da poter controllare, una volta al lavoro, se quello che vedeva era o meno lo stesso veicolo. 

Preoccupata si barricò in casa e andò a dormire.

Non vide mai più l’uomo dei ravioli, né ci pensò più. Era solo uno dei tanti esseri umani erranti su questa terra, capitato per caso dove lei lavorava.

I giorni si susseguivano placidi e tranquilli per la ragazza. Il misterioso ammiratore era sparito. Niente più telefonate o mazzi di funerei fiori scarlatti come il sangue. Niente più inquietanti taxi appostati nella semi oscurità. Era tutto tranquillo all’orizzonte. 

Fin ché una sera dovette parcheggiare l’auto più lontano del solito a causa dei lavori stradali e proprio mentre tornava a casa a piedi, qualcuno giunto dal nulla la colpì con qualcosa di pesante sulla nuca mettendola k.o. 

Quando Martina riprese i sensi si ritrovò legata ad una sedia in una vecchia cucina. La paura le attanagliò lo stomaco ed il panico prese il sopravvento. Le mancava il fiato. Represse un conato di vomito e provò a prendere fiato. Lacrime di paura le rigavano il volto. L’angoscia le impediva di respirare. Dove si trovava? Perché era lì? E soprattutto per quale assurda ragione l’avevano legata? Cosa era successo? Il colpo alla testa cominciò a pulsare imperterrito e costante, ricordandole cosa fosse accaduto la sera prima. Si guardò in torno alla ricerca di informazioni. Era sola nella stanza, ma non era sicura di esserlo in tutta la casa. La finestra era oscurata, impedendole così di vedere in quale parte della città si trovasse. L’arredamento era ridotto all’osso. Davanti a lei c’era un grosso acquaio di marmo con il rubinetto che perdeva acqua, il “plic, plic, plic, plic” delle gocce che cadevano inesorabili le ricordavano di come i suoi nervi fossero a fior di pelle. Alle sue spalle c’era una cucina arrugginita tenuta insieme dalla stratificazione di unto e scotch. Accanto aveva un vecchio tavolo da pranzo in formica e due sedie. Non c’erano pensili, frigorifero, nulla. Una lampadina spenta penzolava dal soffitto. A parte il “plic, plic” del rubinetto, un assordante silenzio animava quella casa. Martina era spaventata. Si chiedeva se qualcuno la stesse cercando. Dopotutto doveva essere al lavoro, avrebbero notato la sua assenza e sarebbero andati a cercarla a casa. Lei non saltava mai un giorno di lavoro. Sicuramente si sarebbero preoccupati per lei. Speranzosa, tentò di liberare le mani dalle fascette stringicavo con cui l’avevano imprigionata. La plastica le solcava la carne e la pelle dei polsi le bruciava come se ci avessero rovesciato sopra dell’acido muriatico. Il panico riemerse dalle profondità della sua mente e prese il controllo della situazione. Martina, ansimante tentò di urlare e chiedere aiuto, ma la voce venne a meno. Le mancava il fiato e le girava la testa vorticosamente. Il colpo alla testa le aveva sicuramente procurato un bel trauma cranico. Non riuscì a reprimere l’ennesimo conato e vomitò sul pavimento. Pianse, disperata. Non riusciva a capire cosa le stesse succedendo. Nessuno giunse in suo aiuto, ma non giunse nemmeno nessuno ad ostacolarla o farle del male. Rimase seduta lì, legata, dolorante e sporca di vomito un tempo che le parve eterno. Intorno a lei c’era solo silenzio. Spossata, sfinita e senza energie, Martina si addormentò.

La svegliò una vocina che le sussurrava all’orecchio: “Ti strapperò tutti i denti così non sorriderai mai più.” Quella voce le sembrava familiare, ma non riusciva a collegarla ad un volto specifico. Restò ad occhi chiusi con la speranza che se non li avesse aperti tutto quello che le stava succedendo fosse solo un brutto incubo. Invece non era così. L’uomo le tirò indietro la testa e le urlò: “Guardami!”, ma Martina dentro di sé sapeva già chi fosse il suo aguzzino. Lo aveva riconosciuto dall’odore. Quel lezzo di sudore e sporco stantio che le aveva appestato le narici per mesi, ogni giorno. La ragazza guardò il suo aguzzino e disse: “Perché?” e scoppiò in lacrime. Non avrebbe voluto mostrarsi debole, ma fu più forte di lei. Era così emotiva e fragile. L’uomo rise. Gli piaceva esercitare potere sui più deboli. Provava godimento nel vedere la ragazza spaventata. Non rispose alla domanda, ma disse solo: “Ero io. Le telefonate, i fiori…ti seguivo ovunque.” Lei ormai in totale crisi di nervi cominciò a piangere disperatamente. “Lasciami andare! Ti prego!” e ancora “Non lo dirò a nessuno! Lasciami andare. Per favore. Cosa ti ho fatto? Perché a me? Lasciami andare!”

La sua voce, ormai stridula dal terrore, le venne a meno e l’uomo ghignando le disse: “Il tuo sorriso mi appartiene!” e prese dal tavolo di formica un paio di pinze a pappagallo. Le si avvicinò al volto, erano naso contro naso e aggiunse: “Non puoi faci nulla e anche se dovessi gridare, tanto non ti sentirebbe nessuno e nessuno ti verrà mai a cercare. Io so quanto sei sola al mondo, la tua vita è monotona e vuota. Io ti sto salvando.” E rise. 

Un brivido gelido percorse la schiena di Martina. Sapeva che non sarebbe uscita viva da quella casa era solo questione di tempo. Tentò di liberarsi. Tirò indietro la testa e provò a dare una testata sul naso al suo aguzzino, ma lui intuì cosa stesse per fare e si alzò di scatto. Il volto dell’uomo si rabbuiò “Mi deludi Martina. Io ti voglio aiutare e questo è il ringraziamento?!” e le diede uno schiaffo di rovescio con così tanta forza che quasi la ragazza perse i sensi. I contorni delle cose si fecero sfuocati, la guancia le bruciava come se milioni di formiche urticanti le stessero attraversando il volto, gli occhi le lacrimavano senza sosta. Il dolore al volto e alla testa le percuoteva il corpo, gli organi interni, come una scarica elettrica. Dopodiché l’uomo prese di nuovo le pinze, aprì a forza la bocca della ragazza. La tenne ferma per i capelli e cominciò a strapparle i denti dalla mascella. Cominciò dai molari, lentamente come se volesse prolungare quell’agonia bruciante e straziante. 

L’uomo si mise a cantare un motivetto felice, la situazione lo eccitava. Sembrava un bambino che, soddisfatto, incendia un formicaio con l’accendino e guarda la sua opera con profondo compiacimento. 

Martina sentiva la pressione della pinza, che tirava e smuoveva le ossa della faccia.

Provó ad urlare ma la gola le si riempì di saliva, le prese il panico, sapeva che non avrebbe potuto liberarsi in alcun modo. Piangeva e provava a chiedere pietà.

Sentì un dolore acuto e bruciante, insostenibile, finché stremata perse i sensi. 

Dopo un tempo che le parve eterno si svegliò. Era ancora legata alla sedia, in quella cucina logora e trasandata. Il suo materiale ematico le colava dalla bocca sui vestiti fino al pavimento. Aveva in bocca il gusto metallico del suo sangue. Il dolore, insopportabile delle gengive non le permetteva di pensare e riflettere su cosa fare. La testa le girava vorticosamente. Martina dovette fare uno sforzo immane per non svenire nuovamente.

La bocca le pulsava violentemente. Spaventata, tentò con la lingua di capire cosa le fosse successo. Non aveva più i denti. La sua bocca altro non era che un ammasso di carne molla, calda e sanguinolenta. Un conato di vomitò le salì violento e non riuscì a trattenerlo. Vomitò sangue sul pavimento. Il dolore bruciante, provocato da quel gesto le fece nuovamente perdere i sensi. Sentì come se i suoi arti fossero stati legati a quattro cavalli e l’avessero squartata. 

Quando si svegliò nuovamente, si accorse che qualcuno l’aveva lavata. Era sempre in quella maledetta cucina schifosa ed era ancora legata alla sedia. Ormai i lacci di plastica che le impedivano di muoversi erano entrati a far parte del suo corpo. Qualcuno aveva pulito anche il pavimento. Il dolore in bocca era terrificante. Sentiva le gengive prossime ad un’esplosione. Pulsavano con forza. Come se avesse avuto un gong in testa. Si accorse, inoltre di essere un’altra volta sola in casa. Si sforzò di escogitare un modo per fuggire. Sarebbe sopravvissuta. Promise a sé stessa che sarebbe uscita viva da quella casa. A qualsiasi costo. 

Afferrò con forza le gambe della sedia alle quali era legata e con uno sforzo immane tentò di spostarsi, facendo piccoli saltelli. Lentamente si avvicinò a tavolo in formica e vide le pinze ancora insanguinate, poggiate lì. Doveva prenderle ed usarle per strappare i lacci, ma come avrebbe fatto? Aveva le mani legate dietro alla schiena e con la bocca non sarebbe certo riuscita ad afferrarle. Martina pianse tutte le sue lacrime, la consapevolezza che non sarebbe mai riuscita ad uscire da lì la investì come uno tzunami.

L’uomo comparve improvvisamente e rise. “Patetica ecco cosa sei! Cosa credevi di fare? Di scappare? Tu non uscirai mai più da questa casa!”

Martina non riuscì a proferir parola. Aveva la bocca gonfia, dolorante e il sangue le riempiva la gola. Si limitò a piangere in silenzio, desolata. Fissava il pavimento priva di speranza. Rassegnata al suo orribile destino. 

L’uomo la schiaffeggiò di nuovo e le disse: “Guardami in faccia quando ti parlo!”

Aveva gli occhi iniettati di sangue, illuminati dalla follia. Sorrideva e si passava ripetutamente la lingua sulle gengive, eccitato per quello che le avrebbe fatto. 

Afferrò la ragazza per i capelli e le sussurrò all’orecchio: “Adesso, ti soffocherò, poi ti taglierò a pezzi, cuocerò la tua carne con sedano, carota e cipolla; e una volta che si sarà staccata dalle ossa, farò l’impasto per i ravioli e tu sarai il succulento e dolce ripieno.” E fece schioccare la lingua pregustando già il suo piatto preferito. 

Martina non ebbe nemmeno il tempo per poter reagire alla notizia che si trovò uno spesso laccio intorno al collo. L’uomo, lentamente, per prolungare la sua agonia la soffocò. La guardò negli occhi per tutto il tempo, ghignando. 

La vista della ragazza si appannò, sentì una forte e calda pressione salirle alla testa come se potesse esploderle il cranio da un momento all’altro, i polmoni le bruciavano per l’assenza di ossigeno e il cuore le batteva così forte da sbattere contro la cassa toracica. Avrebbe voluto lottare con le unghie e con i denti, ma l’uomo l’aveva privata di questa possibilità. Impotente, si arrese. La consapevolezza della fine, la certezza indiscutibile che sarebbe morta di lì a poco la lasciò svuotata. 

Dopo un tempo che le parve eterno, svenne. L’uomo continuò a stringere finché le labbra della ragazza non divennero blu. Soddisfatto ammirò la sua opera. Martina era morta. Niente più sorrisi amichevoli, niente più “Buongiorno come sta?”, niente di niente. 

Prese dal tavolo le pinze e cominciò a tagliare le manette di plastica della sua vittima. Poi si chinò e si caricò il corpo della ragazza sulle spalle. Andò in camera da letto. Una stanza grande, con le pareti nere di muffa e una carta da parati con i trenini ormai irriconoscibili, priva di finestre o di una qualsiasi fonte di luce a parte la porta aperta. Posò la ragazza su un grosso letto in ferro battuto arrugginito, coperto da una trapunta a fiori, situato al centro della stanza. 

Andò il bagno e riempì la vasca con tanta acqua e tanto sapone schiumoso. Accese anche delle candele profumate per creare la giusta atmosfera. Dopodiché tornò in camera e spogliò il cadavere con calma, assaporando ogni istante. Poi prese il corpo nudo e lo mise nella vasca da bagno. Lavò Martina con cura e minuziosa attenzione.

Le lavò i capelli, grattò via i residui di vomito e sangue secco dal corpo della ragazza, fece tutto con estrema attenzione e amore. Le carezzava il volto privo di vita e cantava una struggente canzone d’amore. Finito il bagno, svuotò la vasca, prese una grossa sega e cominciò a smembrare in più parti ciò che restava della ragazza. 

I denti li avrebbe conservati per sempre come ricordo di quella fantastica e stupenda ragazza. 

Quando finì di tagliare a pezzi grossolanamente la ragazza, il bagno era pieno di sangue. Schizzi sulle pareti e sul soffitto decoravano l’ambiente rendendolo ancora più tetro e sporco. La vasca era piena di sangue e pezzi di essere umano macellato. Il mostro andò in cucina, sempre canticchiando una canzoncina allegra e prese un grosso pentolone. Tornato in bagno mise i pezzi della ragazza nel pentolone seguendo un criterio logico. Prima gli arti, con le pinze trappò le unghie e le gettò in un sacco nero per la spazzatura. Poi passò a parti del corpo più difficili da gestire. Con un coltello aprì il tronco della ragazza e lo eviscerò con minuziosa attenzione. Gettò nel sacco nero le interiora e anche la testa. Infine si concentrò sui pezzi rimasti e strappò via la pelle. Quando ebbe terminato la sua opera, prese il pentolone e tornò in cucina. Aprì il frigorifero e prese sedano, carota e cipolla. Li mise dentro il calderone dell’orrore e ci versò dentro un po’ di acqua e del vino rosso. Dopodiché lo mise sul fornello e accese il fuoco. 

Mentre Martina o quel che ne era rimasto, cuoceva a fuoco lento, l’uomo prese da sotto al lavello la varechina e alcuni stracci e andò a pulire il bagno. 

Sempre canticchiando un’aria allegra e spensierata, pulì via tutto il sangue. Cominciò proprio dal soffitto, poi passò alle pareti ed in fine vasca e pavimento. Gli ci vollero alcune ore, ma riuscì a cancellare tutte le tracce. Nel frattempo Martina continuava a cuocere a fuoco lento.

L’uomo raccolse tutte le possibili tracce, asciugamani e stracci con cui aveva pulito il sangue della ragazza e li gettò nel sacco nero. Pulì minuziosamente ogni angolo della casa, nessuno sarebbe andato a cercarlo però non gli piaceva l’idea che potesse esserci una qualsiasi traccia del passaggio di quella giovane donna nella sua casa. 

Mentre il pentolone sul fuoco proseguiva con la cottura del ripieno dei suoi amati ravioli, l’uomo decise di schiacciare un pisolino.

Avrebbe gettato i resti nel sacco nero solo dopo aver aggiunto le ossa, le quali si sarebbero staccate da sole dalla carne dopo la lunga e lenta cottura.  

Quando finalmente Martina fu pronta, l’uomo scolò l’acqua di cottura e tirò fuori i pezzi di carne. Le ossa vennero via senza sforzo alcuno, era un’operazione che aveva già effettuato svariate volte. 

Gettò le ossa nel sacco, insieme alla testa, le interiora e gli stracci con cui aveva cancellato le prove del suo misfatto. 

Lavò il pentolone. Tritò la carne e la impastò con uova e formaggio e si mise a fare l’impasto per la sfoglia dei ravioli. Quando ebbe terminato, mise la pasta a riposare in frigo, insieme al ripieno e uscì per gettare la spazzatura. 

Era ormai notte fonda e nessuno fece caso a lui. Camminò a lungo, fino a ché non raggiunse il bosco ai confini della città e gettò i resti della ragazza in una buca sotto le radici di un grosso albero.

Quando rientrò a casa, stese la sfoglia e si adoperò per fare i suoi tanto amati ravioli. 


Per I.Edizioni Andrea Manca ha scritto il suo romanzo d’esordio “TROSSICHE: Repetita iuvant”. Un romanzo denso sulle incertezze e le fragilità di una generazione perduta. Tra sesso, droghe e una vena d’ironia la protagonista vi catturerà fin dalle prime pagine, portandovi nel suo mondo.

 

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