IO SONO ALICE | un racconto di Daniela Di Cicco | I. Edizioni

Mi chiamo Alice.

Mai nome fu più azzeccato. Direi anzi cucito addosso come un tailleur attillato e perfetto.

Sono magra, ai limiti dell’anoressia. Eppure mangio molto. Il mio metabolismo è formidabile. Ho una giusta massa muscolare, altezza nella media, lineamenti sottili, naso affilato e dita affusolate. Un ‘alice insomma. 

Oggi, che è domenica, sono a casa. Vivo sola. Il mio appartamento è adatto a me e mi rispecchia; piccolo e funzionale. È la mia tana dopo una settimana di lavoro.

 Sono impiegata di banca. Orfana e single. Con questo vi ho detto tutto di me.

Non ho mai trovato la persona giusta. Almeno credo. Gli uomini che ho frequentato avevano tutti dei problemi e sono spariti uno dopo l’altro. Inghiottiti nel buco nero del dimenticatoio.

Piove. D’altronde a febbraio è normale.

Accendo il pc. Voglio controllare alcuni conti. Non ho mai tempo in settimana e così ne approfitto quando posso. Lo schermo si schiarisce e contemporaneamente due piccoli suoni mi annunciano posta in arrivo.  Apro le mail ma nulla. Sono un po’ imbranata lo ammetto.  Cerco di capire. Poi mi ricordo di essermi iscritta, circa un mese fa, ad un sito di single. Una volta si diceva cuori solitari. Ora sono chat di incontri. Due brevi messaggi mi colpiscono. 

Il primo è un saluto “ Ciao, sei bellissima”.

 Il secondo, una domanda “Ti va di fare due chiacchiere?” Nessuna  firma né foto.

Sono sempre stata molto pragmatica e in altre occasioni avrei cestinato senza pensiero.

 Ma ora è diverso.

Alla chat mi sono iscritta io. Dunque razionalmente, che senso avrebbe non rispondere.

Il “Perché no?” digitato parte senza che possa neanche rendermene conto.

Si vede che era destino o qualche altra cosa.

Fatto sta che dopo  qualche giorno di chiacchiere evanescenti e cineserie, decidiamo di incontrarci. 

È un martedì sera. Giorno piatto a inizio settimana. Giusto per non dare troppo colore alla cosa. Un appuntamento di martedì non può essere così serio.

Ci vediamo in un piccolo locale fuori mano. Luci soffuse davanti a un bicchiere di rosso.

Lui è giovane. Diciamo più piccolo di me. È tracagnotto e muscoloso. Il viso delicato e i capelli fini raccolti a coda non sembrano far parte dello stesso insieme. Sembra l’assemblaggio di due persone diverse. Ma complessivamente non mi dispiace affatto. Ha un modo di porsi quasi femminile. Una sensibilità di comprensione e una scioltezza di battuta che non ho mai riscontrato negli esemplari di sesso maschile finora campionati.

Si chiama Michele. Separato con un figlio, Marco, a carico al cinquanta per cento.

Anche io non devo dispiacergli, visto che decidiamo di rivederci.

Cosa accade dopo, non lo so francamente. Se è una nuova alchimia a lavorare per noi, o un desiderio reciproco di stabilità. Fatto sta che tra noi scocca la scintilla che diventa ben presto fuoco. Incendio, anzi. Un incendio divampante e aggressivo.

 Sono dodici  mesi oggi, un anno.

Durante il quale paure, ansie, convinzioni e freni sono svaniti come nebbia al sole. Giornate e notti divorate in abbracci, corse in moto e lasagne al forno. Un appagamento di tutti i sensi. Un’indigestione bulimica di ogni cosai .

“Va tutto bene”  mi sussurra come un mantra.

E io ci credo.

Ricordo la gita  a Portochiaro .

 Un posto incantevole, tra rocce e mare. La luce tenera dell’autunno sui nostri contorni, seduti in spiaggia a contemplare, testa a testa, la superficie calma del mare, sempre più scura.

“Sei la mia vita, gioia mia.” dice, cingendomi con le braccia.

“Anche tu” io, annebbiata.

“Va tutto bene”, suona all’orecchio come una promessa.

Un anno memorabile. 

Tutto liscio come olio.

Tutto colorato come una caramella.

Un sogno.

Quando quindi stasera alla proposta pizza e cinema ha nicchiato con sguardo dolente, sono rimasta un pochino sorpresa. 

È vero. E’ un sabato, l’unico giorno della settimana per lui off limits.

“È la serata di Marco.” mi ha sempre risposto. 

“Usciamo io e lui.” e ribadiva, strizzando l’occhio “Sai, una serata tra uomini”.

Che sarà poi  una serata tra uomini non l’ho ancora capito.

Forse una serata fatta di piedi puzzolenti buttati sul sofà, lattine di birra, dita nel naso e videogame?

Mah.

“Bè, potremmo fare un’uscita in tre.” ho ribattuto “Così magari me lo fai conoscere, no?”

Mi sembra una buona soluzione. Dopo un anno ci può pure stare.

Niente. Irremovibile. Devo glissare su una cenetta per la domenica successiva.

Mi bacia sulla fronte, col cappotto infilato a metà.

“Tranquilla.” mi rassicura, “Va tutto bene.”.

Così, uscito lui, inizio a fare zapping sui vari canali tv ma non c’è proprio niente.

Allora accendo il computer. Girando qua e là, mi trovo di nuovo sulla chat dei cuori solitari.

La stessa su cui ci siamo conosciuti. Curioso un po’ tra i vari profili. C’è ancora il mio. Il suo invece non appare più. Mi faccio un po’ gli affari degli altri, sorridendo alle battute, ai post sdolcinati, alle foto filtrate. Gli scatti. I selfie. Le foto. All’improvviso, una di queste appena postata, mi raggela letteralmente.

La didascalia evidenzia “un anno con te”. Lo sfondo di luci tenui e lumini sul mare petrolio suggerisce un locale romantico. L’ideale per una cenetta di anniversario. Sul fondale scuro la luce dello scatto ritaglia una ragazza e un ragazzo. I festeggiati. Lei, Francesca, dice sempre la didascalia, sorride a tutto tondo davanti a una porzione di torta generosa quasi quanto la sua scollatura. Il ragazzo vicino a lei ha un sorriso più timido, quasi colpevole, ma gli occhi brillano splendidamente. Ha un viso delicato e un corto codino al vento. È Michele.

Per fortuna sono seduta.

Il bicchiere d’acqua che vado a prendere in cucina non mi è di sollievo.

Provo a chiamarlo sul cellulare. È spento.

Passo la notte in bianco.

Al mattino mi ricollego al sito.

La signorina Francesca ha un profilo pubblico. Nome e cognome sono chiari. Sul suo diario virtuale, altre foto. Di lei. Di lui. Di lei con lui. Ricostruisco l’ultimo anno. Un anno che per Michele deve essere stato difficile, visto che ha evidentemente dovuto sdoppiare la vita su due binari paralleli, forse anche vicini, ma ben separati.

Come ha potuto mantenere due identità senza cadere in errore? Senza confondere nomi e date. Combaciando tempi e appuntamenti. È vero, non abbiamo convissuto. Questo deve avergli permesso respiro e organizzazione. Ma ragazzi, neanche uno schizofrenico sarebbe stato capace di dividersi con tanta nonchalance.

Devo fare qualcosa.

Devo tenere a freno la parte di me che ora sta urlando. 

Come in una moviola, la mia anima sta  esplodendo.

Mille schegge aguzze e vaganti si stanno conficcando ovunque, nella pelle, negli occhi, in gola, nel naso. Su fino al cervello, ferendo e devastando in un’orgia di sangue e dolore. E nella loro traiettoria folle e imprevedibile stanno segnando l’inizio di un lutto, inconsolabile e cattivo.

Devo trovare la mia razionalità. Cerco il numero di telefono della disgraziata. La fortuna si vede che è dalla mia.

Lo trovo subito.

Seduta sul divano, gambe incrociate, lo compongo. Risponde al secondo squillo.

E’ domenica mattina. Magari lui è ancora lì. Già lo vedo assonnato sotto le lenzuola, i capelli liberi sul guanciale.

Tormento con l’indice una ciocca di capelli, mentre dopo essermi presentata, le spiattello tutta la verità sul suo fidanzato. O presunto tale.

E mentre vomito nomi, date, circostanze, mi passano davanti agli occhi come in un film, tutti i dodici mesi passati assieme. Io nella parte della co protagonista. O forse solo della figurante.

Parlo per cinque minuti buoni. Ascolta senza profferire verbo.

Mi aspetto sorpresa, dolore, anche odio. Almeno spero nella solidale coalizione femminile contro un tradimento che ha coinvolto entrambe.

Invece, con voce gelida mi risponde

“Ah, capisco chi sei. Quella vecchia pazza che lo insegue da un po’. La stalker.  Me ne ha parlato il mio Miki. Ancora ieri sera. Povera stupida.  Michele sta con me da un pezzo. Vedi di piantarla o ti denuncio.”

Il clic del riaggancio mi rimbomba nell’orecchio.

Ghiaccio.

Volevo colpire e invece quella che si ritrova bella e stordita sono io.

Se non avessi ascoltato in prima persona, penserei a un effetto tardivo del bromazepam preso ieri per sedare la botta.

Dunque è questo Michele? Il mio Michele? Un bastardo di tale portata ? E io che non mi sono accorta di nulla per un anno intero?

Vacillo.

E i progetti, il futuro, la felicità. Mi risuona il suo “va tutto bene”. Sembra resina che mi invischia, appiccicosa. Cerco le gocce. Trenta. E dormo.

È passato un mese.

Dopo la tempesta ora tutto è cheto.

Oggi, aprendo il giornale, nella cronaca, ho trovato un trafiletto che parla di lui.

Un incidente di moto. È gravissimo. Ma non sento nulla.

Chi l’avrebbe detto?

Il giovane…bla bla…in fin di vita…bla bla…forse un guasto…ritrovata sabbia o simile nel serbatoio della benzina…bla bla.

Non provo nulla. 

Sono tranquilla.

Scendo nel piccolo box annesso alla mia nuova casa con giardino. Sì ho cambiato indirizzo.

Anche il colore dei capelli. Ma il fisico è lo stesso. Sono sempre  Alice.Il box è vuoto.

Raggiungo il bidoncino della spazzatura.

Tolgo il coperchio e stirandomi un pochino, appoggio sul fondo, nascondendolo bene sotto cartacce e buste vecchie, il pacchettino che ho in mano.

E’ un sacchettino di tela, semivuoto.

Sull’etichetta due righe vergate a definirne il contenuto.

Ghiaino di fiume.

L’account l’ho già cancellato stamani.

Sì ora sto bene.

Va tutto bene.

 

 

RACCONTO DI DANIELA DI CICCO