La Ballata di Mary | topi e cocaina | F. de Martino

Qualcuno deve aver detto che non c’è più spazio per le anime pure. Quel qualcuno aveva ragione, ma doveva essere anche un grande cinico. 

Era arrivato il grande virus e il mondo sembrava essersi fermato, ma c’erano due cose che non si fermavano mai: i topi e il jazz.

I topi ne avevano viste tante, guerre e pestilenze e via dicendo, quindi la loro resistenza era un dato di fatto. Mentre per il jazz era una cosa differente. Tutta questione di nascita rabbiosa. Quando un genere diventa anche uno stile di vita è destinato a sopravvivere a olocausti, guerre e tutto il resto. 

Il localino dove suonavo solitamente era chiuso. Ogni cosa era chiusa. Percorrendo via del Campo mi fermai a pensare per un istante a Mary. Avevamo messo su un duo. Un bel duo jazz. Poi a Mary era venuto il cancro ed era morta, Da quel momento smisi di farmi chiamare Mark. Mark e Mary Jazz duo aveva un senso ma Mark, quando ti presentavi al supermercato non reggeva. 

Possiamo dire che con la morte di Mary, Mark tornò Marco. Non smisi di suonare. Nella mia carriera avevo suonato anche con Miles. E ai tempi delle crociere con Mary c’eravamo divertiti un sacco. Avevamo anche fatto l’amore un paio di sere. Ma non eravamo fatti l’uno per l’altra. Due jazzisti in una relazione sarebbero stati troppi. A dirla tutta avevamo passato più della metà del nostro tempo assieme sul pianeta Terra a litigare e disquisire su band e artisti. 

“Serve qualcosa?” 

Era un ragazzo sulla ventina. 

“Coca?”

“Quanta vuoi.”

“Uno.”

“Uno.” fece stupito?

“Sì, uno, ho detto uno.”

Stavo realmente comprando della coca da un ragazzo più giovane di mio figlio. Cristo santo.

“Aspetta qui.” 

Gli spacciatori avevano trovato un loro modo per eludere il sistema. Se ne stavano con delle buste della spesa in mano, così se passava la polizia fingevano di essere appena stati al supermercato. 

Il ragazzino sparì e lo sguardo mi cadde verso un tombino dal quale spuntava il musetto vispo di un ratto. L’Italia stava andando a rotoli e lui se ne stava lì all’avanscoperta come una piccola vedetta lombarda in cerca di cibo. Uscì e si fece il suo giretto.

Mi domandai cosa pensassero di me quelle poche persone che passavano con mascherine e quant’altro. Un bianco sulla soglia della fascia a rischio in giro in mezzo agli spacciatori di peggior genere. 

Quando il tizio arrivò mi chiese se volevo fare un tiro. Ma non mi sembrava il caso di pippare con un bambino. Pagai e me ne andai. 

Tornai a casa e mi misi a spacchettare febbricitante la bustina, stesi due belle strisce e via. Presi il mio vecchio sax. Quello che aveva toccato anche la santa mano di Miles e iniziai a suonare. 

In quel periodo tutti condividevano qualcosa ed era giusto. La tecnologia serviva proprio a quello: condividere. Io invece volevo tenere.

Volevo tenere una cosa per me e per quel momento. Così uscii sul terrazzo in pietra della mia minuscola casa sperduta lungo il Righi e iniziai a suonare. 

La melodia era nella mia testa. Ma non la suonai… mi stavo solo riscaldando. Feci un’altra striscia e pucciai la sigaretta nella coca rimasta.

Accesi e pensai intensamente a Mary. A quello che era davvero, al di là di ogni ragionevole dubbio, come direbbero quegli stronzi degli avvocati. 

Mary era una tosta, ma sapeva piangere e quando piangeva ti faceva incazzare perché lo sapevi che usava le lacrime per non dire di avere torto. Con Mary era così o perdevi o era patta. 

Mary si sposò e divorziò. Mary morì sola. A letto era normale. Non che non fosse brava, è che da Mary ti aspettavi fuoco e fiamme, ma varcata la soglia della camera da letto ti accorgevi che Mary era semplicemente una donna. Un essere umano con le tue stesse fragilità. 

Ok. Bene. Quella era Mary.

Signori e signore ecco a voi qualcosa che terrò. Qualcosa che non condividerò da nessuna parte. Qualcosa che suonerò guardando la montagna di una città paralizzata da una quarantena. 

Libererò questa cosa solo per me. 

Posai la bocca sul beccuccio e la suonai. La ballata di Mary. 

Un bel pezzo.