L’anno del pensiero karmico | di Fausto Rampazzo

 “Questo è il mio tentativo di raccapezzarmi nel periodo che seguì, settimane e poi mesi che cambiarono ogni idea preconcetta che io avessi mai avuto sulla morte, sulla malattia, sul calcolo delle probabilità, sulla fortuna e sulla sfortuna, sul matrimonio e sui figli e sulla memoria, sul dolore.”

Stiamo parlando del 2004, l’anno in cui Joan Didion scrive “L’anno del pensiero magico”. Sono le settimane e i mesi che seguono il coma della figlia e la morte improvvisa del marito, e accompagnano la scrittrice durante l’intervento che la figlia, appena ristabilita dalla polmonite che le aveva provocato uno choc settico, subisce per un grave ematoma al cervello. Stiamo parlando di come Didion affronta il dolore e di come, da scrittrice, lo registra. Non “l’idea preconcetta che avessi mai avuto sul dolore”, bensì quel dolore che non si aspettava di provare, indifferente alle  strategie, alle intuizioni, ai progetti con cui aveva sempre pensato, nel remoto caso in cui fosse arrivato, di poterlo gestire. Che annulla la ragione.  “Volevo solo che tornasse”. L’esperienza del dolore. L’esperienza: l’unica via a disposizione per disfarsi delle idee preconcette e afferrare la portata delle cose, “della morte, della malattia, del calcolo delle probabilità, della fortuna e della sfortuna, del matrimonio e dei figli e della memoria”. L’unica via. Passarci dentro. Attraverso. Passarci fin quando non si riesce a coglierne il senso.

Per dirla con le parole di Massimo Rodolfi, autore della “Psicologia dello Yoga” che ho affiancato al libro della Didion, solo l’esperienza ci fa “apprezzare in modo progressivo la possibilità di affermare continuamente il meglio di noi stessi, non in modo teorico, ma molto pratico, perché la pratica nasce dal conflitto, dall’attrito provato su di sé, che ci fa acquisire, per esperienza diretta, la comprensione della trasformazione”. È l’esperienza, l’attrito, il conflitto, ad aprire le porte della comprensione, a offrire la possibilità di evolvere. 

E l’esperienza rappresenta lo svolgersi del karma, dice Rodolfi. È il numero, grande ma non infinito, di prove con cui misurarsi, con lo scopo di alleggerire la densità della coscienza  e afferrarne il soffio vitale, il senso, in quanto “materia e coscienza sono fattori dello stesso prodotto, per cui uno stato ancora incompleto della coscienza si traduce in una condizione incoerente della materia”. L’esperienza, la causa e l’effetto dell’agire, è il passo, necessario e non eludibile, attraverso cui passare dallo stato di imperfezione, di incoerenza, a quello di coerenza con se stessi e con l’intero l’universo. 

Alla fine del suo libro, la Didion parla della necessità, per poter continuare a vivere, di lasciar andare le persone che abbiamo perso.  “Che diventino la fotografia sul tavolo. Che l’acqua se li porti via.” 

Che diventino, dico io, il carico di saggezza con cui affrontare  il resto del viaggio.

 

Fausto Rampazzo