L’INCONTRO INASPETTATO | di John Wicker | un racconto da incubo

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Elisa si trovava sul vecchio pontile dell’abitazione di montagna, appartenuta a sua nonna.
Quella casa aveva visto nascere suo padre. Probabilmente un piccolo Alberto Verni si era messo a correre proprio su quel pontile in costume da bagno, sorridente e spensierato.
Quando provava ad immaginare suo padre da bambino le veniva una fitta allo stomaco.
Era felice del fatto che quell’uomo avesse vissuto dei periodi felici prima dell’arrivo di Wall Street e di tutte quelle stronzate che gli avevano riempito la testa fino a fargli esplodere un aneurisma cerebrale.
C’era stato un tempo in cui suo padre era stato felice, ma lei non l’aveva vissuto.
Adesso si trovava in quella casa da cui lui era fuggito a sedici anni per andare a studiare a Torino, prima che una delle città più importanti del paese divenisse troppo provinciale per lui.
Un giorno, mentre ascoltava le notizie del telegiornale, lo vide alzarsi e dirigersi verso la finestra gigantesca del loro appartamento. Aveva in mente ogni dettaglio di quella giornata, quasi come se la stesse vivendo in quel preciso momento.
Suo padre si smarrì per un attimo, cosa più unica che rara per un uomo che non lasciava mai trasparire il mondo del di dentro, e disse ad alta voce -New York si sta trasformando in un paesino del cazzo.
Quello era suo padre. In quella frase c’era ogni aspetto ed ogni sfumatura dell’uomo che l’aveva cresciuta a pane e pragmatismo.
Una constatazione semplice è lineare: la grande mela sta diventando un paese.
Sua madre viveva a Roma e probabilmente l’avrebbe raggiunta dopo aver passato un po’ di tempo nella baita appena ereditata.
Non aveva idea di cosa fare con quel luogo. Poteva venderlo, affittarlo o addirittura andarci a vivere.
Si era laureata da poco e l’idea di starsene per un po’ di tempo in mezzo al verde la elettrizzava.
Molti penseranno che il termine “elettrizzante” poco si addica ad una circostanza come quella, ma dopo aver vissuto tra Roma e New York, la pace era un concetto da elettroshock per Elisa.
Si era laureata in legge ma non aveva nessuna voglia di proseguire quella strada e un qualsiasi lavoro l’avrebbe soddisfatta. Tra l’eredità paterna, il fondo fiduciario e tutto il resto, i soldi non erano di certo un suo problema.
Se si fosse trasferita lì, avrebbe dovuto prendere un cane. Non era abituata alla solitudine dei monti.
Il lago era molto romantico e lei era sola. Il momento era delicato e nessuno lo stava condividendo con lei. Era forte… l’avrebbe superata.
Accanto a sé aveva un libro che non aveva ancora iniziato. Leggere era uno degli obiettivi che si era prefissata.
Per via del suo percorso scolastico esemplare, si era gettata a capofitto in tomi e tomi di giurisdizione, tralasciando la narrativa che da ragazzina adorava tanto.
Adesso era arrivato il momento di staccarsi dalle serie televisive viste sul piccolo monitor del suo computer per dedicarsi agli autori che aveva trascurato per così tanto tempo.
Pensò quasi d’accendersi una sigaretta, nonostante il pensiero di smettere fosse molto forte nella sua psiche, minata dall’ipocondria generata dalla malattia del padre.
-Ciao.
Era convinta di essere sola.
-Dio… mi hai fatto venire un colpo.
-Io sono Marco. Abito dall’altra parte del lago.
-Io sono Elisa e… ho ereditato la casa qui sopra.
-Mi dispiace.
-Perchè… è una bella casa, dopotutto?
-Intendevo per la perdita.
-L’avevo capito; stavo solamente cercando di sdrammatizzare.- sorrise.
-Posso sedermi sul pontile?
-Certo.
-È bello che ci sia qualcuno qui. È una casa così triste e silenziosa. Il silenzio può essere molto pesante qualche volta.
-Non ti piace il silenzio?
-No… credo che non piaccia a nessuno. Forse qualcuno potrà anche mentire a riguardo, ma a nessuno piace. Ricorda troppo il nulla.
-Adesso so due cose di te: ti chiami Marco e odi il silenzio.
-È vero. Abito anche dall’altro lato del fiume, due case più in là.
-Io ho appena finito l’università. Tu cosa fai?
-Lavoro come aiuto meccanico giù all’autorimessa.
-Da Carlo?
-Esattamente.
-Non ci posso credere.
-Non avrei motivo di mentire a riguardo…
-Non intendevo in quel senso.
-L’avevo capita… questa volta.
-Anche mio padre lavorava in quell’autorimessa da ragazzino. Ha sempre descritto quel periodo della sua vita come uno dei più belli.
-Forte. Come si chiamava tuo padre? Se non sono indiscreto.
-Alberto.
-Anche noi abbiamo un Alberto. Comunque se vuoi posso chiedere se qualcuno si ricorda di lui.
-Ma sarà passata una vita. Comunque, avevo proprio bisogno di parlare con qualcuno in carne ed ossa. – sorrise Elisa.
-Mi fa piacere. Sai… mentirei se dicessi che qui passano tante ragazze bellissime con cui parlare.
-Hey, vacci piano… potrei essere tua zia.
-Zia… addirittura? Guarda che ho ventidue anni.- disse il ragazzo, accarezzandosi le guance come se sentisse una ricrescita improvvisa di barba.
-Ventidue?- rispose Elisa, maliziosa.
-Ok, bene… ho diciassette anni, ma a breve ne farò diciotto.
-Magari ci vediamo tra una decina d’anni…
-Quanti anni hai?
-Ne ho venticinque.
Marco sorrise, rimanendo muto.
-Ah… ti sei giocato la tua ultima possibilità, ragazzino… avresti potuto dire che ne dimostravo molti di meno.
-Non c’è n’è bisogno… sono sicuro che tu sappia di essere bella.
-Ok. Abbiamo appurato che ci sai fare con le ragazze. Potrei anche innamorarmi se continui così.
Stava scherzando, anche se il ragazzino che sedeva dall’altro lato del pontile era carino per l’età che aveva.
-Senti, ti chiedo scusa, ma devo rientrare perchè qui non c’è campo e devo proprio fare un giro di telefonate.- disse, guardando il suo iPhone.
-Cos’è quello?- chiese il ragazzo.
-È il mio telefono… ma non te lo do il numero… non ancora per il momento. Comunque se volessi cercarmi online, mi chiamo Elisa Verni.
-Non lo dimenticherò ho un amico che si chiama Verni ed Elisa è già diventato il mio nome preferito.
Le aveva fatto piacere chiacchierare con qualcuno, pensò, risalendo la collina.
Almeno qualcuno sotto i settant’anni era rimasto in paese e magari avrebbe incontrato anche gente della sua età, per bere una birra e fare due chiacchiere. Non sentiva la necessità d’instaurare rapporti interpersonali, ma non ne disdegnava comunque l’ipotesi.
Si voltò verso il lago non appena arrivò in veranda, ma Marco era sparito. Avrebbe voluto chiamarlo per invitarlo a bere una limonata o qualcosa di analogo. Volatilizzato.
Era giovane e i giovani sparivano sempre.
Dopo aver sbrigato le telefonate, Elisa decise di entrare in casa.
Le sarebbe decisamente piaciuto crescere in una casa col camino, pensò, trovandosi davanti a quello dell’abitazione che aveva dato i natali alla sua famiglia.
Il calore non faceva parte dell’universo di suo padre; era sempre stata sua madre quella eccessiva nelle manifestazioni d’affetto.
Accese il vecchio televisore a tubo catodico, collegato ad un decoder che doveva aver visto tempi migliori. Stavano dando la sesta puntata di un telefilm che lei aveva terminato di vedere quattro anni prima, approfittando dei siti che propinavano lo streaming gratuito dei network americani, dando il colpo di grazia alle produzioni di qualità.
C’era un qualcosa di estremamente tranquillo nel guardare dei personaggi che avevano, perlomeno nella sua testa, un percorso già definito. Si appisolò così davanti a quella trasmissione.
Quando venne svegliata dalla frastornante musica di una pubblicità scritta con l’intento di promuovere un rivoluzionario sistema di filtraggio dell’acqua, si accorse di avere lo stomaco completamente vuoto.
Aveva comperato lo stretto necessario per passare la prima notte, consapevole che anche in quel luogo sperduto erano presenti dei supermercati.
Pop-corn glassati al cioccolato e gelato al caramello. La perfetta alimentazione di una ragazza americana post-disturbo alimentare.
Prima d’iniziare a portar il cibo alla bocca, tirò fuori il suo computer portatile, impegnandosi nella ricerca di un qualcosa di vagamente decente da poter guardare mangiando i suoi snack-cena.
Era costretta ad utilizzare il credito del suo cellulare per poter usufruire del segnale internet, il che rendeva abbastanza difficoltà la visione della serie che aveva scelto per la sua cena.
-Ma come cazzo si fa a non avere campo. Uno più va in alto e più dovrebbe essere vicino al segnale, no? E che cazzo!
Il televisore era ancora lì e magari con un po’ di fortuna avrebbe trovato qualche programma interessante.
Come cambiava il mondo. L’Italia era indietro anni luce. Lo stato di New York cominciava a mancarle. Dopo qualche minuto trovò un programma simil reality con cui intrattenersi, ingurgitando schifezze.
Il problema cena era stato risolto.
Cosa rimaneva di suo padre? Dei suoi nonni? Forse quello non era un buon periodo per starsene tutta sola in un luogo desolato, ma doveva in qualche modo prendersi del tempo per lei, prima che la vita le spezzasse le ali impedendone il volo.
Le paranoie notturne abbandonarono completamente il suoi pensieri non appena il sole entrò nella sala.
Si era addormentata sul divano, poco dopo aver spento la televisione.
La fame iniziò a farsi sentire nuovamente, ma questa volta sarebbe stata costretta a scendere in paese per comprare qualcosa da mettere sotto ai denti.
Una svelta lavata di faccia e via, verso la macchina che sua madre le aveva prestato per il viaggio.
Quella era un’altra nota positiva dell’essersi allontanata dalla grande mela… per un po’ non sarebbe stata costretta a truccarsi per trentacinque minuti ogni mattina prima d’uscire di casa. Lo standard di quel paesino era decisamente basso e finalmente poteva smetterla con tutta quella routine proto-consumistica dettata dalle pubblicità di moda che cercavano di venderti soluzioni colorate per vite funeree.
Finalmente poteva dedicarsi alla flanella e ai capelli legati.
Era davvero un bel posto. Tutto quel verde non faceva che risplendere al sole, come se tutte le brutture dell’universo potessero essere annientate dal canto di un uccellino.
Non l’avrebbe mai detto ad alta voce, perchè la sua reputazione da cinica doveva essere difesa in qualche modo, ma lo stava pensando realmente.
Il supermercato si trovava allo svincolo successivo, tuttavia Elisa decise di girare prima, dirigendosi verso l’autofficina.
Avrebbe salutato il suo amico adolescente, chiedendogli magari di passare da lei più tardi per fare due chiacchiere. La solitudine poteva essere difficoltosa da quelle parti.
Era incredibile; la maggior parte delle persone in quel posto sembrava uscita da una reunion del cast di “Hazzard”.
Scese dall’auto e, dopo aver parcheggiato, chiese ad un uomo di Marco.
-Marco, Marco… qui non lavora nessun Marco.- rispose, aspirando lentamente dalla sua sigaretta.
-Guardi, mi dispiace ma è semplicemente impossibile… io ho parlato ieri con lui e mi ha detto che lavora qui.- sorrise, trattandolo un po’ come se si trovasse davanti allo scemo del villaggio.
-Guardi, io sono il capo qui e questa è l’unica autofficina del paese, quindi… le posso assicurare che non troverà nessun Marco né qui, né altrove.
Era stato conciso, ma alquanto scortese. C’era un qualcosa che non le piaceva nella voce di quell’uomo.
-Aspetti… in effetti un Marco c’è, non lavora qui, ma ci consegna i bulloni. Se vuole posso darle il suo numero di telefono.
-Ero sicura di quello che dicevo, ma non volevo risultare maleducata.
-Si figuri… non mi è venuto in mente perchè il vecchio Marco non parla mai con nessuno e non l’avrei mai collegato ad una ragazza giovane come lei.
-Scusi, ma quanti anni ha questo Marco?
-Almeno settantadue.
-Allora è un Marco differente dal mio.
D’un tratto lo sguardo della ragazza venne rapita da un immagine attaccata al muro. Proprio a fianco al vecchio calendario di ragazze svestite notò una foto in cui compariva suo padre.
-Cristo santo, quello è… è mio padre.- disse, accorgendosi di sembrare pazza.
Si asciugò furtivamente una lacrima dal viso.
-Mi scusi, mio padre è mancato da poco e quello lì e lui… beh, lui da ragazzino.
-Che mi prenda un colpo, tu sei la figlia dell’Alberto? L’Albertino che è andato in America.
-Sì.
-Sapessi quanto m’è dispiaciuto per il tuo papà. Certo che ha lavorato qui da ragazzino. Lo conoscevo bene, abbiamo lavorato insieme… poi lui l’ha capita e s’è levato dalle balle. L’Albertino, ma pensa un po’. Che bella figlia che ha tirato su.
-Grazie.- rispose, mentre il suo sguardo veniva catturato da un altro particolare, notato all’interno di quella fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo.
Si avvicinò con fare interrogativo.
-Se stai cercando me, lì non mi troverai… non c’ero quel giorno.- disse l’uomo, asciugandosi le mani sporche d’olio motore.
-Ma questo qui…
-Quello si chiamava Marco, come il tuo amico. Non ha fatto una bella fine. È morto poco prima della partenza di tuo padre. Se l’è portato via una macchina bastarda. pace all’anima sua… era un ragazzo così simpatico. Se gli davi da parlare, parlava anche con le pietre.
-Mi creda, questo è esattamente il ragazzo che ho conosciuto ieri. Aveva gli stessi identici vestiti.
-È impossibile tesoro, ti stai confondendo. Quel ragazzo lì è morto proprio di fronte a casa di tuo padre. La macchina se l’è portato via in prossimità del pontile. Abitava…
-Dall’altro lato del fiume… due case più in là.- concluse la ragazza, impedendo all’uomo di continuare.
-E tu come fai a saperlo?
Un brivido le percorse la schiena.

 

 

J. Wicker

2 Commenti

  1. maria

    Un sogno bellissimo e che ci da anche tanto da pensare

    1. linfernale

      Grazie mille Maria, anche da parte di J. Wicker.

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