Come nasce uno scrittore | PRESTITO | di Salvo Barbaro

5 Novembre 2012

È un lunedì. Sono le otto del mattino quando la sveglia inizia a suonare. Sono ospite nella casa dei miei zii e dormo in una mansarda piccola ma confortevole. Sono a Firenze da circa due mesi e il lavoro come cameriere mi sfinisce nel vero senso della parola: la mattina dalle 10 alle 15 e la sera dalle 18 a chiusura. Devo dire la verità mi trovo bene, però un momento di pausa mi ci vorrebbe proprio.
La sveglia sembra un martello pneumatico che batte in continuazione nel mio cervello. La spengo subito e resto una decina di minuti fermo, seduto sul letto, a pensare. Avellino mi manca. Mi mancano i miei amici. Ogni giorno mi mandano un messaggio, o meglio, rispondono ai messaggi perché sono sempre io che li cerco. Li chiamo solo per sentire le loro urla, le loro risate senza senso e i loro schiamazzi che sembrano essere dei veri e propri sfoghi contro la vita di “paese” che li opprime.
Sorrido pensando alle cose fatte insieme, alle cene con litri e litri di vino, alle ragazze rimorchiate solo per divertimento. Penso. Penso che comunque qualcosa di costruttivo non c’è mai stato, si beveva annebbiandoci il cervello parlando del nulla, ridendo di niente, peggio ancora erano quei momenti grotteschi in cui l’illusione di parlare di qualcosa di serio e sensato prendeva il sopravvento, lasciando dopo solo spazio alla convinzione che era stato solo un patetico tentativo di argomentare fatti a noi del tutto sconosciuti. Eravamo lì, vorticosamente fermi, con la nostra ignoranza che faceva da padrona.
È ora di alzarsi e iniziare la giornata. Questi pensieri mi lasciano un magone immenso addosso.
Doccia, caffè rapido. Mi infilo in auto e attraverso la periferia di Firenze. A ogni semaforo osservo la realtà di questa zona della città; non è tanto differente da Avellino, anzi, un po’ mette tristezza, ma allo stesso tempo sembra proteggerti e rincuorarti.
Arrivo al ristorante, parcheggio l’auto. Sono quasi le dieci del mattino. Mio zio, il titolare, soprannominato dai figli il Boss, sembra attendermi al di là del bancone.
-Buongiorno zio!- farfuglio.
-Buongiorno Ciccio!- fa lui, nascosto dietro piccoli occhialini che a stento gli coprono gli occhi.
Ciccio! Aggettivo che veramente mi fa incazzare. Ciccio mi chiama sempre la mia mamma. Somiglia tanto a CICCIONE, GRASSO, BAMBOCCIONE, CRETINO, IMBECILLE.
Sorrido amaro.
-Senti Ciccio, ti dovrei dire una cosa! Puoi venire di là con me?
-Certamente! – dico sbuffando interiormente.
Lo seguo. Usciamo fuori dal locale, facciamo una ventina di passi e mi porta in un altro locale, una ex frutteria che mio zio usa come studio.
-Muoviti, muoviti, chiudi la porta e non facciamoci vedere da nessuno!- bisbiglia.
Mi chiudo la porta alle spalle e la mia testa inizia il suo viaggio.
Perché non dobbiamo farci vedere? Perché inizia a bisbigliare? Lo osservo attentamente. Cinque minuti fa era molto sicuro di sé, quel “Ciccio” detto alla Benigni gli dava forza e coraggio. Ora mi guarda con prostrazione, lo vedo impallidire e tremare con la voce quando inizia a parlare.
-Senti salvo (è scomparso CICCIO per fortuna)! Ho da chiederti un favore!
-Dimmi!
-Lo sai che gli affari non vanno tanto bene. Lo vedi, a pranzo non si fa una sega e la sera non ne parliamo proprio!
Ci sediamo. Penso, tra il sarcasmo e la tragedia, “Vuoi vedere che anche mio zio mi sta licenziando?”. Sarebbe davvero il colmo.
Annuisco.
-Devo pagare dei lavori che feci un anno fa e non ho un euro…!
Annuisco. Sembro un ebete e non so dove voglia arrivare.
-Mica mi faresti un prestito? Cioè, si va in banca e a nome tuo apriamo un mutuo di dieci mila euro! Ho già pronte le buste paga e tramite il mio amico direttore, lo facciamo, tranquillo, tutto in regola!
È sicuro di sé, molto.
Dinanzi a me vedo un fallito. Un verme. Un essere inetto che mi sta chiedendo un qualcosa di inverosimile. Tu, testa di cazzo e mentecatto, mi hai accolto a lavorare nel tuo ristorante, sapendo che ad Avellino ero disoccupato da circa un anno. Mi hai fatto venire qui a Firenze promettendomi rose e viole, facendo credere a tutti, mia madre, mio padre, mia nonna, mio fratello, che mi avresti “sistemato”. E ora che mi chiedi? Soldi! A me poi, che non ho un cazzo…
Lo stomaco mi si contorce. Inizio a tremare dal nervosismo, vorrei scappare via, tornamene a casa, mandare questo stronzo a quel paese dandogli anche un cazzotto in faccia. Ma non ho le palle. Per l’ennesima volta annuisco.
-Ok!- dico secco.
Lui sorride. Anch’io sorrido.
-Poi ti faccio sapere io come muoverci!- mi dice euforico.
-Ok!- ripeto.
Usciamo fuori da quella merda di posto. In strada c’è un uno strano sentore di malinconia.
-Dai su Ciccio, a lavoro che è tardi! – esclama tutto sorridente, con quella pancia che gli arriva al mento.
Si, hai proprio ragione. Sono un “Ciccio” senza palle.

 

Salvo Barbaro.

6 Commenti

  1. Stefano

    Menomale è zio..figurati se era uno sconosciuto…da pazzi le toglierebbe dalle mani anche ad un santo

  2. francesca

    Che amarezza…’ste cose mi fanno salire il veleno giuro!mi hai trasmesso tutta la desolazione,lo sconforto e la delusione:un pugno allo stomaco.

  3. Laura

    La tua….la nostra realtà della nostra città mi ha messo malinconia perché non è cambiato nulla, al nostro posto ci sono altri SOGNATORI! ma guarda il lato positivo se non fossi salito a firenze non avresti le gioie della tua.vita! Il PRESTITO ti ha ripagato bene non credi?

  4. Anna D'Auria

    Ma come, si?
    Si?
    Voglio sapere come va a finire.

  5. Salvo

    Lettori tranquillitranquilli il continuo ci sarà!

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