Omar Pedrini, il marinaio che indossa cicatrici e tatuaggi. | di Ferdinando de Martino.

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Il fumo di sigaretta stagnante a mezz’aria ricrea una sorta di nebbia artificiale, Omar entra nel backstage più con le movenze dell’amico di bevute che quelle del pioniere del rock italiano.

Saluta tutte le persone, addetti ai lavori, fans e infermierine sexy (sì… nel caso ve lo stiate chiedendo, i backstage sono esattamente come  ve li immaginavate).

Mi trovo lì con la “Cane giallo Entertainment” per realizzare un’intervista ad Omar al 261 Rock Club, lui si avvicina e mi chiede -Cos’hai mangiato?

-Guarda, niente… è la mia prima intervista e sono un po’ teso.

-Bravo, il lavoro prima di tutto.- risponde sorridendo, cercando di mettermi a mio agio.

Cosa diavolo ci facevo lì? Gli scrittori dovrebbero starsene a casa tra polverosi tomi che nessuno si piglia la briga di leggere o al massimo a tirar su qualche rissa in un pessimo bar; tuttavia, cliché a parte, quello era l’unico posto al mondo in cui desiderassi trovarmi in quel momento.

-Sai, Omar… io e te abbiamo qualche passione in comune. Io gestisco una piccola enoteca e so che tu ami il vino.

-No… e me lo dici adesso? Mi devi dare un biglietto del locale, un numero di telefono, così ti vengo a trovare.

Omar si prende un attimo per cambiarsi la maglietta. Spesso pensiamo che queste persone non esistano realmente; sentiamo le loro voci provenire da radio, computer e casse amplificate, quasi come se dietro alle loro ugole non ci fossero né corpo né anima. Il corpo di Omar è lì ed indossa tatuaggi e cicatrici come un marinaio che nella vita ha vissuto decine di tsunami.

Gabriele, il regista dell’intervista, chiede ad Omar -Hai un profilo che preferisci mostrare in video?

Omar sorride e risponde -Beh, sì… io e Kate Moss abbiamo i nostri lati migliori.- sedendosi tranquillamente sul divano utilizzato come set per l’intervista.

Manuel, fotografo ufficiale della Cane giallo Entertainment, accende baracca e burattini e siamo pronti per l’intervista.

Scrivere le domande per Omar è stato come portare a termine tutte e sette le fatiche di Ercole in una sola botta. Sebbene sia un grande appassionato di musica, in quanto scrittore, le parole sono l’unica cosa che tendo ad estrapolare dai dischi e i testi di Omar sono da sempre una sorta di perla luccicante all’interno dell’oceano di petrolio grezzo che continuiamo a chiamare “panorama musicale italiano”.

Omar, esattamente come tutti i collaboratori di Ferlinghetti (a sua volta collaboratore di Pedrini  all’interno del disco “Che ci vado a fare a Londra?”) ha capito che la formula vincente di un testo non è ciò che si racconta, ma il come lo sì racconta. Credetemi… questa è una tanto piccola quanto sostanziale differenza che divide i buoni scrittori da quelli mediocri.

Si parla dei Timoria, di Pop-art e di tutte quelle divagazioni che solamente una mente allenata riesce a sostenere prima di un concerto, senza mandare a fanculo tutti gli intervistatori.

Finita l’intervista parliamo qualche secondo dei miei libri e a quel punto non posso esimermi dal dire -Omar, nel mio primo libro ci sono due paragrafi che parlano di te…

-Eh, allora devo averlo… voglio averlo… ci tengo assolutamente!- risponde l’autore di “sole spento”.

Lì, l’ego già iper-nutrito di uno scrittore è esploso come un palloncino nel cielo.

Il concerto comincia. Omar sale sul palco e proprio in quel momento penso “cazzo, ma ho appena intervistato Omar Pedrini?”. È difficile da spiegare, ma ci vogliono circa quaranta secondi per dimenticarsi che l’Omar che si può incontrare per strada è lo stesso dei palchi, lo stesso di Ferlinghetti e lo stesso che nella tua stanza risuonava in continuazione dalle tue cuffie in quei momenti in cui il mondo non aveva poi tanta voglia di ascoltare i tuoi pensieri.

 

Ferdinando de Martino.