cane

Mezzo cieco | Un racconto di Ferdinando de Martino |

Fu per colpa di un difetto congenito all’occhio che il nostro protagonista non si accorse dell’imminente impatto di una pietra sul suo viso.
Era nato così, con un occhio non vedente. Probabilmente non accusava più di tanto il trauma, in quanto essendo un problema che si trascinava dietro sin dalla nascita, non aveva mai avuto una concezione totalitaria del campo visivo.
È probabile che all’interno della sua testa fosse convinto che tutti quanti vedessero il mondo esattamente come lo vedeva lui.
Stava camminando lungo il ciglio del marciapiede, mentre il freddo batteva sul suo corpo come una serie di aghi acuminati, intinti in un ghiaccio anestetizzante. Era abituato a quel freddo. Viveva in strada da tredici anni.
I margini erano l’unica frazione di vita che conosceva realmente bene.
Come dicevamo, per via di quel difetto congenito, non vide la cattiveria arrivargli addosso, ma la sentì con estrema precisione infrangerglisi in testa.
Erano tre ragazzi, forse quattro. Avrebbe potuto incolpare il sistema, la società, magari qualche divinità, ma certe volte le cose accadevano semplicemente perchè, secondo qualche oscura meccanica, dovevano accadere.
Dopo il primo calcio nello stomaco si accasciò a terra, mentre una raffica di pugni in testa iniziarono a concimare la piantagione del suo dolore. Non si difese non per un mancato spirito di sopravvivenza, bensì perché oramai era troppo vecchio per farlo.
L’ esistenza non gli aveva mai sorriso e lui aveva smesso di mostrarle sofferenza per questo suo atteggiamento e la sua più grande occupazione era diventata la tolleranza.
Ciononostante era molto difficile tollerare la cattiveria gratuita.
Uno dei denti che gli erano rimasti, doveva essersi frantumato. Il sapore del sangue in bocca gli ricordava il gusto dell’acqua sporca.
Non aveva fatto niente per meritarsi quei colpi. Si era semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Quei ragazzi si aggiravano tutti intorno ai diciassette anni, ma picchiavano come se ne avessero avuti almeno venti. C’era qualcosa di molto profondo in quel picchiare, quasi come se le botte non fossero dirette a lui, ma verso un’entità  indefinibile.
Come per ogni prima volta, anche in quel pomeriggio invernale, il nostro protagonista provò un dolore che non aveva mai provato prima. Gli sembrò quasi che un’esplosione gli si concentrasse sul collo.
Era troppo tramortito per capire che uno dei ragazzi aveva avuto la geniale idea di spegnergli una sigaretta addosso, proprio mentre si trovava accasciato a terra.
La vecchiaia non era una cosa che potevi nascondere facilmente. Forse ci riuscivano le Stelle di Hollywood, ma anche a loro prima o poi sarebbe risultato impossibile celare al mondo la loro fragilità.
La fragilità. La vecchiaia. La cattiveria. Lui aveva incontrato tutte queste cose in un giorno solo. Era decisamente troppo.
Per quanto possa risultare difficile da concepire, anche la cattiveria finisce per annoiare, se portata alle lunghe. Così, i ragazzi abbandonarono il corpo tumefatto sul quale avevano sfogato i loro spiriti adolescenziali e tornarono alle loro vite.
Arturo aveva un telefono da novecentocinquanta euro in tasca ed un motorino nuovo di pacca che diceva di aver rubato, mentre in realtà era stato il padre a comprarglielo sotto pressione della madre che non voleva che il figlio girasse in autobus, quando il secondogenito dei Borghetti, dirimpettai del loro piano, andava a scuola con uno scooter d’ultima generazione.
Fede era un giocatore di pallacanestro e aveva avuto tutto dalla vita, eccezione fatta per un’incapacità innata nel parlare con le donne.
Ognuno di loro aveva una sua storia, ma forse è il caso di ritornare al vero protagonista di questo racconto.
Carl se ne stava sdraiato a terra. Era una consolazione molto magra, ma quando nella tua vita non hai mai conosciuto realmente il bene, il male che ti viene inflitto ferisce molto meno.
In quel caso, nonostante il bene e Carl non si fossero mai incontrati per davvero, il dolore si fece via via più lancinante. I reni, forse un polmone, le costole… tutto gridava, eccetto la voce.
Non sarebbe mai riuscito a gridare realmente.
Quel pomeriggio, Bruno era di ritorno dal suo viaggio di lavoro ed il telefonino gli si era scaricato a furia d’inviare e scaricare e-mail, durante il tragitto della tangenziale. Aveva rischiato più volte di finire contro le altre macchine, ma era sempre stato un uomo dai pronti riflessi.
Grazie a quella prontezza d’animo, riuscì a notare la sagoma tumefatta e dolorante di Carl, accasciata lungo il marciapiede. Fermò l’auto e scese.
-Cristo santo.- disse, pensando che proprio quel giorno tra tanti, il cellulare aveva deciso di abbandonarlo per sfortuna divina.
-Cerca di stare calmo…- sussurrò, -Adesso ti sollevo e ti porto nella mia macchina.
Sollevare un peso morto era difficile, specialmente con la paura di ferire oltremodo un corpo che era già stato ferito abbastanza.
In maniera molto distratta, Carl iniziò a capire cosa fosse il bene. Non è che ci ragionò sopra, ma si fece trascinare dal flusso esattamente come si stava lasciando trascinare verso l’automobile di quello sconosciuto.
Con una manovra quasi eroica, Bruno riuscì ad aprire la porta posteriore del veicolo senza mollare il corpo.
Non pensò nemmeno per un istante a coprire i sedili per evitare che il sangue sporcasse gli interni. Il tempo doveva essere un suo alleato e non un impedimento. Dopo aver appoggiato una mano al volante, accese una sigaretta e mise in moto, schizzando a velocità sostenuta lungo la strada che portava verso casa sua.
La moglie di Bruno era un’infermiera e avrebbe sicuramente aiutato Carl. Era un casino abitare così lontani da tutto, ma con l’arrivo del secondo figlio i due coniugi sentirono il bisogno di cambiare zona, per far crescere i ragazzi nel verde.
Non accese la radio, perchè non gli sembrava il caso d’infastidire l’ambiente.
Carl capì che quella persona era diversa da quelle che l’avevano ridotto ad un passo dalla grande fine, sebbene Carl stesso non avesse un chiaro concetto della fine.
Certe volte due entità, senza una reale motivazione, finiscono per incontrarsi. C’è chi chiama questo procedimento: destino.
Bruno non credeva nel destino. Nella sfiga ci credeva eccome, ma il destino per lui era una delle tante stronzate new age che si propinavano alle casalinghe disperate per far comprare loro dei libricini del cazzo, inerenti ad una qualche filosofia orientale dalle radici millenarie, scoperta solamente un paio di giorni prima della pubblicazione del suddetto manuale.
Carl non aveva una sua opinione a riguardo.
Una volta parcheggiata l’auto davanti casa, Bruno scese, aprì la porta posteriore e afferrò il suo paziente, cercando di non premere troppo sui punti insanguinati.
Carl si sentì a casa. È terribilmente difficile da spiegare questa cosa a chiunque non abbia passato tredici anni per strada, ma non appena la porta dell’automobile venne aperta, Carl si sentì nuovamente a casa.
Il freddo era una costante nella sua vita. Il caldo era una cosa che arrivava d’estate, ma la notte anche durante quel periodo si faceva fredda certe volte. In parole spicce, il cambiamento climatico repentino era una sensazione che non riconosceva come casalinga.
Per Carl il freddo cominciava all’inizio dell’inverno e finiva con l’arrivo della primavera e per tutta la durata dei mesi invernali, lui abitava nel freddo.
In quella macchina, con il freddo chiuso fuori ermeticamente, si sentiva allontanato da casa.
Bruno trascinò quel corpo sporco e dolorante sotto la veranda della sua abitazione, posandolo a terra.
-Dove diavolo finiscono sempre le chiavi?
Sparivano sempre. Come se all’interno della sua giacca comprata all’Upim sottocosto, ci fosse un buco nero in grado di farle sparire e riapparire al di fuori di ogni logica razionale.
-Eccole.- disse.
Dopo essere entrato, richiuse la porta dietro di sé, mentre Carl iniziava a perdere il suo sguardo oltre le siepi ben curate di quel giardino in cui la libertà assumeva una connotazione che non avrebbe potuto capire nemmeno in un milione di anni.
La pioggia. Quando arrivava era sempre capace di tranquillizzarlo, se si trovava al di sotto di qualche copertura di circostanza.
Il paese cantava e lo faceva attraverso quelle gocce che s’infrangevano sull’asfalto, sui prati e nei giardini ben curati come quello al di là di quella veranda.
Si sentiva un gran vociferare all’interno di quell’abitazione.
Carl riconosceva i “qualcosa”. Quando c’era del trambusto nell’edificio della scuola del paese, stava per succedere qualcosa. Lo stridente suono di gomme che strisciavano… qualcosa. Qualcosa.
La porta si aprì.
-Piccolo… ma è ferito, papà?- chiese Giulio.
-Si tesoro… non accarezzatelo tu e Sandro. Dobbiamo pulirlo bene con la mamma, ma prima bisogna medicarlo.- rispose Bruno, accendendo una sigaretta.
-Possiamo tenerlo? È solo.
-Ne parleremo dopo… adesso lasciamo che la mamma lo rimetta in sesto.
Di tutto quello che stava succedendo, Carl non capiva praticamente niente. L’unica cosa che percepiva in maniera netta era una specie di cambiamento.
Aveva un dolore lancinante ad un’anca, dolore che si faceva molto intenso ad ogni scatto di coda, tuttavia non riusciva a smettere di muovere lentamente quella parte del suo corpo.
Fu in quel preciso istante, proprio quando la mano di Giulio incontrò per la prima volta il collo di Carl, che il vecchio cane capì che quella appendice pelosa non era solamente un problema da gestire nelle zuffe per un tozzo di pane.

Ferdinando de Martino.