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Sono stato in palestra e mi sono anche divertito | Il resoconto di uno scrittore in una palestra di lusso | di Ferdinando de Martino.

Qualche mese fa ho visto su YouTube un video in cui John Irving si allena nella sua palestra casalinga, per poi andare a partorire qualche nuovo capoverso che lo farà diventare ancora più schifosamente ricco di quanto già non sia.
Ero convinto che gli scrittori non dovessero allenare il fisico, ma a quanto pare il mondo si accinge a cambiare e seguire il flusso, dovrebbe essere una prerogativa di chi il mondo lo vuole raccontare.
Assieme ad un mio amico che chiameremo Lucio, ho avuto l’onore di essere stato selezionato per passare una meravigliosa e confortevole giornata negli ambienti iper-stimolanti della palestra più cool di Genova: la Virgin.
Lucio doveva passarmi a prendere alle undici in punto, ma è arrivato con un quarto d’ora di ritardo ed io (che avrei dovuto essere pronto alle undici) sono uscito di casa alle undici e trenta perché… perché dovevo fare i bisogni grossi.
Non so se anche John Irving abbia di questi problemi e forse è proprio per questo che non riesco a sviluppare empatia verso la sua narrativa.
Ritardi a parte, entrai in auto alle undici e trentadue, pronto per un meravigliosa e confortevole giornata negli ambienti iper-stimolanti della Virgin.
Il mio outfit non era proprio in linea con quello di un frequentatore abituale di palestre e affini: pantaloni lunghi di una tuta comprata nei primi duemila, cappellino al contrario di una nota marca di amplificatori e una maglietta con un teschio con su scritto -Skate or Die-. In parole povere, veniva quasi da chiedersi se fossi normale a livello mentale.
In macchina cazzeggiammo un po’, facendo qualche battuta sulle palestre costose e via dicendo. Probabilmente dall’esterno dovevamo sembrare come la volpe della storiella… l’avete presente? Quella in cui la volpe si sbatte come una stronza per arrivare all’uva, ma non arrivandoci, finisce per auto convincersi che l’uva fa schifo? No? Beh, la Virgin è la nostra uva.
Mi piacerebbe avere un abbonamento in quella palestra anche solo per non andarci; ma si sa che io non sono uno con tutte le rotelle al loro posto.
Il nostro arrivo è al quanto epocale. Ci piazziamo davanti alle porte automatiche e veniamo completamente ignorati.
Pensiamo ad un danneggiamento della fotocellula e cose del genere, quindi facciamo dei passi indietro, avanti e di lato, ma niente… la porta rimane sigillata.
-Ma non ci fa proprio entrare?
-Hanno sentito l’odore del buono sconto…
Da temerario quale sono, provo ancora una volta a farmi notare dalla fotocellula come una diva della T.V. in astinenza da telecamera, ma anche quella mia ultima performance si è dimostrata vana.
Un secondo dopo ci accorgiamo che l’entrata della palestra è a fianco alla porta automatica e che gli altri sembrano accorgersene senza nemmeno un attimo di titubanza.
Bene. Iniziamo alla grande.
Entriamo, mostriamo i nostri inviti gratuiti, apprendiamo le nozioni basilari per muoversi all’interno di quel luogo chic e per niente pacchiano, in cui sono presenti quattro iMac d’ultima generazione, utilizzabili dai clienti per postare su Facebook le loro mirabolanti avventure nell’opulento tempio della salute anabolizzante.
C’erano delle donne bellissime, uomini bellissimi, bambini bellissimi, tutti così belli da farmi pensare che nessuno di loro aveva ritardato l’arrivo in palestra per fare i bisogni grossi.
Entrammo negli spogliatoi per mettere i nostri zaini negli appositi armadietti. Qui devo aprire una parentesi importante: il lucchetto.
Io ho un solo lucchetto, ma come gli oggetti più importanti e spaventosamente belli… quel lucchetto ha una storia.
Mio padre lo prese nel millenovecentonovantaquattro. Di quell’anno ricordiamo solamente tre avvenimenti degni di nota: il suicidio di Kurt Cobain, il trionfo di Silvio Berlusconi e mio padre che si accinge a comprare un lucchetto da un ferramenta.
Il lucchetto serviva a qualcosa inerente alla scuola, ma non riesco proprio a ricordare che cosa. La parte importante è un’altra, ovviamente.
Il lucchetto in questione è un lucchetto di Forza Italia. Sì. Sono andato in palestra con un lucchetto promozionale di Forza Italia.
Potevamo tranquillamente distinguere i nostri armadietti da un chilometro di distanza, grazie al dubbio gusto di mio padre in fatto di sicurezza domestica.
Lucchetto a parte, entrammo in palestra alle dodici e dieci.
Non so che dire; a me i posti così schiettamente legati al consumismo, piacciono da impazzire. Amo i centri commerciali e i multisala, esattamente come amo la buona letteratura, il buon vino, le massaggiatrici thailandesi e gli incontri di pugilato.
Le persone erano tutte diverse da me e non mi riferisco solamente al fisico scolpito e ad un atteggiamento da “Questa sera vado in discoteca ad uccidere il mio cervello, dopo aver guardato Uomini e Donne”, bensì a qualcosa di più radicato che al momento non saprei proprio definire a parole.
Decidiamo di partire con il tapirulan. Ovviamente i tapirulan della Virgin hanno un televisore incorporato e l’aria condizionata atta a simulare una corsa reale con il vento che ti scompiglia i capelli.
Qui ho notato la prima perversione. Il mio televisore era rotto. C’era il classico schermo grigio e spinoso di quando MTV non prendeva bene e non riuscivo mai a vedere una puntata intera di Beavis and Butthead, mentre il televisore della macchina accanto alla mia, occupata da Lucio, era sintonizzato su “La prova del cuoco” di Antonella Clerici.
Questa l’ho trovata una scelta estremamente dantesca: guardare della gente a caso, cucinare cibi rimpinzati di grassi, zuccheri e chi più ne ha più ne metta, mentre si è impegnati a correre su dei tapirulan per fuggire in maniera estenuante da una forma fisica che ci rende infelice, rincorrendo uno status da rotocalco che di anno in anno ci fa capire cosa è bello e cosa e brutto.
Il tapirulan è una perfetta metafora della vita: hai la reale consapevolezza di star scappando da qualcosa per raggiungere qualcos’altro, ma in realtà non ti stai muovendo nemmeno di un fottutissimo centimetro. Sul tapirulan sei perfettamente immobile in una fuga perpetua e insensata.
Un trainer della palestra mi chiede se vado ancora in skateboard ed io mi chiedo il come mai di una domanda simile, ma poi ricordo la maglietta e rispondo che mi capita di tanto in tanto di risalire in sella ad una tavola, vergognandomi palesemente, vista la mia età.
Non dev’essere proprio normale incontrare qualcuno con delle magliette simpatiche in quel luogo. Sembrano tutti prendere molto sul serio il loro abbonamento alla Virgin.
Dopo un po’ inizio ad aumentare la pendenza, fingendo di resistere tranquillamente, aumentando anche la velocità.
-Cavolo… non ti facevo così ginnico, Ferdi!- dice Lucio.
La realtà dei fatti era che stavo letteralmente morendo dentro, palesando una faccia distesa e tranquilla, esattamente come quella dei broker quando vanno a lavoro, consapevoli di gettare al cesso la loro esistenza per un mestiere più astratto dell’arte concettuale.
La seconda stranezza che ho notato in quel posto è relativa ad un utilizzo a dir poco illegale di un attrezzo.
Una signora ecuadoriana, sulla cinquantina, aveva acceso una macchina di cui né io, né Lucio eravamo a conoscenza del nome e aveva deciso di utilizzarla in maniera poco convenzionale.
In pratica la macchina era costituita da un cuscinetto rigido, un palo e un manubrio con comandi annessi, che lasciava intuire che l’attrezzo in questione andasse utilizzato da in piedi, mentre la donna aveva deciso di utilizzarlo da sdraiata a pancia in giù, con il basso ventre adagiato sul cuscino in questione.
Sia io che Lucio abbiamo pensato ad un probabile uso lapalissianamente errato dell’attrezzo, ma non abbiamo azzardato nessuna certezza, in quanto non conoscevamo il reale impiego della macchina.
Accanto a noi c’era una ragazza bellissima con una top nero, velato e sensuale che correva verso una bellezza che coltivava in maniera ossessiva. Se quello era il risultato… Dio benedica la Virgin.
Durante una sessione di pesi, in cui Lucio mi spiegò che la mia respirazione nel sollevamento sfuggiva ad ogni senso logico, notai che un tizio simile a 50 Cent, stava correndo sul tapirulan con una pendenza in stile Ivan Draco, al contrario, con la faccia rivolta verso i nostri sguardi increduli e le spalle ai comandi.
Al mondo c’è della gente davvero strana.
Dopo i pesi, lavorammo sui pettorali (credo) con una macchina che non ricordo, per poi finire a fare addominali su dei tappetini rosa Elton John.
A fianco a noi arrivò la ragazza dal top trasparente, bella in maniera prepotente. Probabilmente era la ragazza più bella che avessi mai visto, ma io sono uno che tende ad esagerare.
Dopo gli addominali, fatti spaccandomi la schiena per osservare l’allenamento della ragazza dal top nero che avrebbe potuto tranquillamente chiamarsi Giovanna o Clarissa, insomma, un nome da bellona di circostanza, andammo a mangiare.
A dir la verità, mangiai solamente io.
A quel punto eravamo pronti per quello che era stato il reale motivo della nostra permanenza in quel luogo pieno di persone che sollevavano il loro manubri per tornare a scaricare allegati word dopo una pausa pranzo passata ad affaticarsi un po’ per dare un senso compiuto alla loro stanchezza. Eravamo pronti per la zona relax.
Lucio ebbe un attimo in cui quasi pensò di farsi un paio di vasche in piscina, ma il tutto finì quando vide la vasca idromassaggio calda ed invitante.
All’interno della zona relax, oltre alla vasca idromassaggio, composta a sua volta da tre sezioni con differenti opzioni di gettata, erano presenti un bagno turco, due saune, quattro sdraio in legno, tre docce normali, una doccia scozzese e una doccia monsonica.
Riguardo alla doccia monsonica, il mio amico ha partorito una battuta da romanzo. Eravamo a mollo nella vasca, tra le bolle sparate sulle nostre schiene, quando disse -Pensa come sono fortunati i filippini… loro non hanno bisogno di una SPA per godersi delle belle piogge monsoniche.
Le battute sugli ambienti dei ricchi fanno sempre ridere. Credo che il significato sia strettamente legato al termine ironia, ovvero il definire qualcuno o qualcosa con un termine che ne rappresenta l’evidente contrario.
Esempio: se passa una persona visibilmente grassa e qualcuno grida -Ah silfide…-quella è ironia.
Spesso si confonde l’ironia con la simpatia e questa è una cosa che ho sempre trovato estremamente fastidiosa.
L’ironia fa ridere quando punta al rialzo e non al ribasso.
Se uno ha un conto in banca in rosso, puoi ironizzare dicendogli frasi tipo -Grande… sei proprio ricco eh…- ma è molto raro che qualcuno rida di questa ironia, mentre se ad uno con l’abbonamento alla Virgin dici -Ehi… è proprio dura la vita in Scozia, eh?- mentre si fa la sua doccia scozzese post-sauna, qualcuno potrebbe anche cogliere l’ironia e farsi una risata.
La doccia scozzese, per dovere di cronaca, consiste in una secchiata d’acqua ghiacciata addosso, in un ambiente iper-pagato per cose che potresti tranquillamente fare a casa tua, senza sentirti un imbecille completo.
Comunque, pur essendo un insipido stronzo, troppo retorico per essere preso sul serio da chiunque abbia un cervello o mi conosca di persona… dopo il bagno turco, ho ceduto anche io alla tentazione di fare una doccia monsonica. Una stronzata priva di senso.
Il bagno turco l’ho adorato. Era uno dei miei sogni nel cassetto farne uno e ho deciso di farlo due volte, così da potermene ricordare in futuro.
Una sauna era troppo pesante. Ottanta gradi è una temperatura da rincoglioniti a mio parere. La terza sauna era tranquilla e ho rischiato di addormentarmici dentro.
Dopo ogni sauna\bagno turco, io e Lucio ci buttavamo nella vasca idromassaggio, per assaporare una fetta di vita di quella gente così orribilmente viziata da far sentire George d’Inghilterra uno spacciatore di Compton.
Lucio ha avuto anche il coraggio di fare non una, ma due docce scozzesi. Gran coraggio. Ho visto anche qualche manager ebreo che annuiva verso di lui con profonda stima. Non è vero… queste sono le stronzate che scrivo per sembrare più pulp del dovuto.
Comunque, dopo la doccia (non monsonica o scozzese, ma una maledettissima doccia normale) siamo andati a sfondarci di pollo fritto al KFC, giusto per rovinare il lavoro della palestra.
Ho provato uno strano senso di vuoto, quando abbiamo abbandonato gli ambienti confortevoli della Virgin.
Era come se un’oscura falciatrice metaforica avesse falciato quella piccola parte di me che aveva vissuto quell’esperienza come una cosa normale.
Il bagno turco, la sauna e l’idromassaggio… probabilmente è così che passa la sua vita Trump.
Questo è quanto.

Ferdinando de Martino.

BAR-SOFIA | Filosofia da bar | capitoli 1, 2 e 3

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Il bar come concetto.

Il bar è uno dei più grandi cliché della narrativa. Cinema, letteratura tradizionale e a fumetti, televisione e teatro tendono ad utilizzare, spesso, il bar più come una sorta di concetto che come un luogo vero e proprio.
Se in un racconto o in una puntata del vostro serial preferito, un investigatore privato si trova all’interno di un bar è per via degli stereotipi che la sua figura rappresenta, rapportata al concetto di bar.
L’investigatore, al contrario del poliziotto, è quasi sempre un outsider (come spiega Poe in uno dei suoi saggi di scrittura) e come ogni outsider che si rispetti, scappa sempre da qualcosa; questo “qualcosa” potrebbe essere un passato da dimenticare, dei cari persi in qualche strano incidente e via dicendo. L’epicentro del discorso è “lo scappare”.
L’investigatore scapperà sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora, l’escamotage del bar attribuisce allo “scappare” una nota di tragedia interiore; come se il bar fosse l’unico posto in cui l’investigatore può permettersi di “scappare” senza muoversi.
Quell’uomo avvolto dal suo trench, potrebbe bere in casa sua o addirittura nel suo studio, ma no… lui preferisce il bar.

BAR+INVESTIGATORE, genera TRAGICITÀ

Ogni figura, nella narrativa, ha una sua personale connotazione all’interno del bar. Una donna altolocata, che solitamente entra in un bar sempre e solo per cercare qualcuno, controllerà la polvere sul bancone e scruterà con sdegno il bicchiere di Coca Cola o acqua, che ordinerà solamente per educazione e non per sete.
L’arte, al contrario della filosofia, dev’essere lo specchio della società, mentre la filosofia rappresenta la lente d’ingrandimento di questa. Ecco perché l’arte e la filosofia sono da sempre alleate. In fin dei conti, sempre di lenti si parla.
Essendo l’arte, specchio dell’intera società, la riproduzione artistica del bar deve, in qualche modo, rifarsi all’idea reale di bar. Questo vuol dire che il bar, altro non è che un luogo atto a stereotipizzare ogni individuo? Esatto.
Il bar è la perfetta riproduzione di una piazza greca. Al giorno d’oggi esistono molte piazze, Facebook è l’emblema di queste, ma al contrario del noto social network, il bar riesce a tirar fuori le nostre debolezze, cosa che Facebook cerca di eludere, mostrando i nostri bicipiti e le nostre cosce mentre fingiamo di essere ai Caraibi, durante un pernottamento a Spotorno.
Nei bar tutti hanno qualcosa da dire e lo fanno coi loro atteggiamenti.
Immaginate di trovarvi in questo preciso istante all’interno di un bar, diciamo… con un paio d’amici, intenti a farvi una birretta.
Vedete quel gruppo di ragazzi, lì? Due tavoli a fianco al vostro? Bene.
Sono in cinque e tutti stanno chiacchierando. L’argomento non è importante, quello che è importante è l’atteggiamento.
Se all’interno della comitiva, qualcuno inizierà ad alzare il tono della voce, magari ridendo o scherzando, ecco, quello è l’individuo più solo del gruppo. Ovviamente non sto parlando di un singolo episodio, ma di ripetute dimostrazioni di superiorità canora che andranno a dimostrare quanto da me sostenuto.
Che bisogno c’è di alzare la voce? Che bisogno c’è di essere quello che grida più di tutti, quando segna l’Inter? Che bisogno c’è di ordinare da bere con voce gutturale? La risposta è una ed una soltanto: la solitudine.
Il bar tende ad estremizzare tutto, specialmente quando si passa al secondo bicchiere; solitudine, terrore, amore, invidia, perfidia, tutto verrà estremizzato da quell’ambiente in cui la competizione è silenziosa e serpentina.
Molti sarebbero portati a credere che il più solo del locale sia il tizio che inizia a raccontare la propria vita al primo sconosciuto, ma non è così, in quanto chi ha qualcosa da raccontare, raramente alza la voce. Le tonalità alte rappresentano l’arma di chi non ha un cazzo da raccontare, perché quel poco che si ha, lo si cerca di vendere in maniera altisonante.
La voce degli ambulanti che gracchia dagli altoparlanti -Donne è arrivato l’arrotino.-, ne è la dimostrazione più eloquente.
Credetemi, amici… il bar smaschererà tutti, se gli darete il tempo di farlo.
Tutto il mio discorso si basa sull’apparenza e molti di voi saranno portati a pensare che giudicare dall’apparenza sia uno degli errori più grossolani per una persona. Beh, chi la pensa così, commette un grossolano errore di calcolo.
È stato M. Heidegger a dire -Ciò che non si manifesta nel modo in cui non si manifesta l’apparenza, non può neppure sembrare, esser parvenza.-, ed io la penso esattamente come lui.
L’apparenza descrive alla perfezione l’individualità dell’essere. Dall’apparenza possiamo dedurre i gusti musicali, le ideologie politiche e perché no, anche le tendenze sessuali.
Possiamo tranquillamente asserire che l’apparenza è, a tutti gli effetti, la carta d’identità dell’essere.
Il bar rende più semplice risalire all’essere, enfatizzando l’apparenza.
Addentrandosi in questa foresta di pensieri, si potranno scoprire una miriade di nozioni che potranno tornare utili all’animale da bar.
Il mercoledì sera, ad esempio, è più semplice rimorchiare nei bar. Prima di darmi contro, pensate a tutte le volte in cui avete rimorchiato in un bar o, se non è mai successo, pensate a tutte le volte che i vostri amici hanno rimorchiato all’interno di un bar. Quanti di questi rimorchi hanno avuto luogo durante un mercoledì sera? Ecco.
Il motivo è semplice ed è estremamente radicato nella filosofia da bar: siamo la generazione della pausa.
Siamo i messicani delle generazioni. Prima di additarmi come razzista per aver sostenuto che i messicani siano pigri, lasciatemi il tempo di spiegare questa mia affermazione.
Chiunque sostenga che i messicani non sono pigri, o non ha mai conosciuto un messicano o non ha mai ragionato sulla derivazione del termine, spagnoleggiante, “siesta”. Se questo non bastasse, vi porterò un altro esempio.
I messicani hanno inventato uno strumento musicale chiamato Kahon, strumento che consiste, praticamente, in una scatola su cui sedersi. La musica nasce dal battere le mani sulla suddetta scatola. Ok. Dopo aver dimostrato di non essere razzista, ma solamente obbiettivo, posso tornare al saggio.
Siamo la generazione della pausa. I nostri videogiochi hanno sempre la possibilità di fermare il gioco per fumare una sigaretta e se credete che sia sempre stato così, non avete mai giocato a Pac-man.
Pac-man non aveva l’opzione pausa. Pac-man ti logorava il cervello. È per questo che i rimorchiatori degli anni ottanta uscivano di sabato e non di mercoledì; perché il fine settimana era dedicato al divertimento.
La nostra generazione ha bisogno di una pausa settimanale per “tirare avanti” e così, il mercoledì è diventato il giorno designato a questa pausa dallo stress della vita. E cosa fanno le donne quando sono stressate?
Adesso, probabilmente, mi ritroverò nella merda fino al collo: ehi, dopo i messicani non vorrai mica stereotipizzare anche le donne?
Amici, le regole del gioco non le ho fatte io… è stato il bar. Quel posto con le insegne luminose, tira fuori la verità dalle persone e se le donne sono più inclini a scacciare lo stress facendo l’amore non è colpa del sottoscritto. Gli uomini farebbero l’amore anche per scacciare l’amore stesso. Visto? Siamo tutti degli stereotipi, no?

Il teorema del triangolo.
(il gioco dell’istinto)
Lo scopo di questo libro è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.
Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.
L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.
Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.
L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.
Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi, finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.
Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.
All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzata e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.
L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.
Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.
Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.
Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?
L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro, per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?
Incredibile. Davvero incredibile.
La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.
Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.
Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.
Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.
Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.
Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema, senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.
Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

La questione del demone egizio.

M. Heidegger nutriva una forte avversione verso l’avvento delle nuove tecnologie. Molti studiosi sostengono che questa sua idiosincrasia sia da ricondurre al periodo storico in cui il filosofo ha vissuto.
La tecnologia viene da sempre progettata per essere impiegata in ambiti in cui vi è una forte richiesta d’impiego e ai tempi del vecchio Martin, l’impiego più utile (se di utilità si può parlare in una situazione del genere) era la guerra.
La meccanizzazione della guerra è un fenomeno a cui, ai nostri giorni, siamo del tutto assuefatti, ma durante la seconda guerra mondiale questo procedimento deve aver, sicuramente, destato non poca curiosità da parte del mondo accademico.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la freddezza del metodo sperimentale veniva messa al servizio di una grande macchina della morte.
Ma ciò che interessa a noi è la filosofia da bar, dove vuoi andare a parare, dunque? Datemi un momento e tenterò di arrivare ad estrapolare un concetto da queste pagine.
Sempre Heidegger, grande esistenzialista, ha scritto uno dei più importanti tomi di filosofia del novecento: Essere e tempo.
All’interno di questo libro, il filosofo, si pone una domanda che, sin dall’antica Grecia, ha messo in ginocchio la filosofia: cos’è l’essere?
Bella domanda. Cos’è l’essere?
Proprio da questa domanda, Heidegger, ci regala una perla di saggezza inestimabile. Da questa lezione ho imparato una verità sconcertante, per una mente come la mia, che di filosofia non so praticamente niente.
Quando ci poniamo la domanda in questione, ciò che sbagliamo non è la domanda in sé, quanto più la forma. Se domandiamo a qualcuno -Cosa è l’essere?-, finiamo automaticamente a catalogare “l’essere” come ente. Questo è uno dei più grossolani errori della società.
Il vecchio Martin, dunque, sostiene che l’essere non si possa ridurre ad ente, in quanto l’essere è tale, proprio perché si manifesta esclusivamente nell’ente.
Molto spesso non sono le domande ad essere sbagliate, ma solo la loro forma e, purtroppo, la forma è strettamente legata al significato.
Prendiamo, ad esempio, la domanda: si può analizzare la vastità della società contemporanea in un microcosmo come può essere il bar?
Anche in questo caso non è la domanda ad essere sbagliata, bensì la forma. La domanda giusta è: si può analizzare il bar, rapportandolo alla vastità della società contemporanea che si esprime al di fuori del suo microcosmo? È la risposta a senza alcun dubbio: sì.
Bisogna pensare al bar come ad un ente preso a caso. Potevamo servirci della scuola, dell’università, di un centro commerciale e via dicendo… io ho scelto di utilizzare il bar, per la connotazione pop che ha assunto all’interno del nostro immaginario collettivo.
In questo caso dobbiamo pensare al bar, come ad una rappresentazione contemporanea del mito della grotta di Platone.
In pratica, ciò che vediamo all’interno del bar, altro non è che il contorno delineante di un qualcosa che a stento possiamo immaginare, ma di cui possiamo analizzare il rapporto con la società esterna in quanto, al contrario del mito di Platone, noi dal bar possiamo uscire quando ci pare e piace.
Ora, grazie a Socrate riusciremo a mettere insieme i pezzi di questo puzzle di concetti.
Al momento sappiamo che: Heidegger non amava la tecnologia.
Abbiamo imparato ad osservare bene la struttura di una domanda.
Stiamo utilizzando il bar per rilevare le ombre della società che vogliamo andare a razionalizzare.
L’avversità nei confronti della tecnologia di Heidegger, acquisisce un’attualità quasi sconcertante, se si va ad analizzare uno dei più particolari discorsi di Socrate, ovvero, “il demone d’Egitto”.
Ve la farò molto breve. In pratica, Socrate raccontò di un certo Theuth (demone egizio) che di tanto in tanto si dilettava nell’inventare. Un giorno inventò, ad esempio, l’astronomia, un altro giorno inventò la geometria, la scrittura e il gioco d’azzardo coi dadi.
Queste sue invenzioni vennero, da lui stesso, mostrate al re d’Egitto Thamus. Quando si arrivò alla scrittura, Theuth si trovò davanti ad un muro di cinismo, costruito dalla saggezza del sovrano d’Egitto. La scrittura doveva servire come Viagra della cultura e della memoria (detto alla buona), tuttavia Thamus denigrò a gran voce questa subdola invenzione, regalandoci una chiave di lettura che tutt’ora mi fa dubitare molto spesso del mio lavoro.
La scrittura, secondo Thamus, avrebbe distrutto la memoria stessa del popolo egizio che, abituato a dover tenere a mente tutta una serie di concetti, avrebbe iniziato a scrivere questi concetti per tenerli meglio a mente, al posto d’impegnare la loro memoria a contenere i suddetti concetti.
Questa storiella di Socrate, ci fa capire quanto il saggio ateniese fosse riluttante nei confronti della scrittura.
Abbiamo, quindi, la scrittura, la tecnologia, il bar e la società contemporanea. Adesso non ci rimane che dar vita ad un “demone”che avrebbe fatto incazzare a dismisura sia Socrate che Heidegger, ovvero, una sorta di ibrido tra letteratura e tecnologia. Lo smartphone, anzi, lo smartphone rapportato al bar.
Grazie al recente sviluppo della tecnologia mobile, ciò che è scritto è alla portata di chiunque in qualunque momento e se ponete una domanda del tipo: “chi è David Bowie?” basteranno una manciata di minuti, ad un qualsiasi individuo, per imparare vita, morte e miracoli del cantante inglese.
Questo potrebbe sembrare un enorme traguardo dell’umanità e in un certo senso lo è, perché se venite morsi da un serpente, grazie al vostro telefono potrete individuare la tipologia di rettile che vi ha morso mostrandola al vostro medico; ma provate a chiedere alla stessa persona, dopo dieci minuti: in che anno è nato David Bowie?
Probabilmente l’individuo in questione vi risponderà -Aspetta che vado a controllare su internet.-. Ecco la dimostrazione che, anche se da un certo punto di vista la nostra vita è notevolmente migliorata, i dubbi di Socrate e Heidegger non erano del tutto infondati.
Avendo imparato che il bar, generalmente, rappresenta una visione alleggerita di una società esterna che, a tutti gli effetti, si arrovella dietro a problematiche più importanti dei compleanni delle rockstar, questa dilagante ondata di qualunquismo tecno-letterario mette davvero i brividi.
Avevano ragione Socrate e Heidegger, quindi? A questo quesito non possiamo rispondere.
Quello che possiamo fare, invece, è l’immaginare un Socrate contemporaneo. Una buona domanda da porsi è: come vivrebbe Socrate nella società contemporanea?
Se si conosce anche a grandi linee la vita di Socrate, non si può dubitare del fatto che il sommo ateniese non avrebbe mai resistito alla possibilità di rompere le palle ad individui che situati in continenti lontani miglia e miglia dal suo, grazie al web.
Ebbene sì. Socrate avrebbe amato a tal punto Facebook da diventare un generatore automatico di spam sulle più disparate accezioni della morale.
Le nostre bacheche sarebbero piene di domande tipo <<Cos’è una buona azione?>> o,<<Definisci la bellezza.>> e via dicendo.
Socrate avrebbe scritto, affrontando il nostro tempo esattamente come affrontò la guerra, il processo per empietà e perfino la sua condanna a morte, ovvero, con estremo rispetto ed eleganza interiore, senza mai abbassare la testa.
Detto questo, Socrate dev’essere stato un rompi coglioni di proporzioni bibliche e in un bar qualsiasi, sarebbe finito in duelli senza fine coi vari Diogene da bancone.

Ferdinando de Martino.

FILOSOFIA DA BAR #2 | il teorema del triangolo o il gioco dell’istinto.

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Lo scopo di questo saggio è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.

Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.

L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.

Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto  sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.

L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.

Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi,  finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.

Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.

All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzate e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.

L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.

Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.

Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.

Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?

L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro,  per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?

Incredibile. Davvero incredibile.

La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.

Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.

Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.

Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.

Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.

Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema,  senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.

Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

Letture consigliate dall’infernale:

Ferdinando de Martino

UROBORO | il nuovo romanzo di Ferdinando de Martino (cioè io).

Gentili lettori, amici e conoscenti, sono felice di poter comunicare una nuova notizia agli affezionati dell’infernale.

Al momento mi trovo impegnato a leggere le bozze corrette del mio nuovo romanzo “UROBORO”. Ebbene sì, un nuovo romanzo è in arrivo e sono molto contento di parlarne con voi.

Ho iniziato a scrivere “UROBORO” in maniera molto metodica e razionale, cambiando le mie abitudini e i miei ritmi lavorativi. La prima stesura mi ha portato via circa sette mesi di lavoro; sette mesi in cui ho dedicato a questo progetto quattro ore giornaliere.

L’unica cosa che posso dire a riguardo di questo nuovo percorso è che la persona che ha iniziato a scrivere questo libro non è la stessa che l’ha terminato. Lavorare a questo progetto mi ha cambiato radicalmente e non parlo di cambiamenti positivi o negativi, qui si parla semplicemente di cambiamenti.

Ho riversato in questo progetto tutte le mie energie come mai avevo fatto prima, forte della pazienza che VOI avete avuto nei miei confronti e nei confronti del mio lavoro.

Chi legge questo blog in cui ho postato decine di racconti gratuiti, chi ha comprato i racconti in formato e-book, chi ha comprato i miei precedenti romanzi e soprattuto grazie a tutti quelli che mi hanno scritto le loro impressioni e le loro osservazioni tramite Mail; è grazie a tutta questa gente che ho trovato la forza di dedicarmi ad un progetto così impegnativo.

Per la prima volta ho sentito il peso di non deludere e se da un lato questa cosa mi ha quasi distrutto, dall’altro lato mi ha fatto sentire quasi un’immortale. A qualcuno potrebbe sembrare una sciocchezza, ma i vostri commenti, le vostre mail, le vostre telefonate e i vostri consigli mi hanno cambiato profondamente, dandomi una forza spirituale senza precedenti.

Ogni volta che avete letto un mio racconto, anche se l’avete ritenuto un racconto di merda, avete accolto nella vostra mente quello che per me rappresenta un figlio. Avete adottato i miei figli ed io non ve ne sarò mai grato abbastanza.

Il web mi ha insegnato anche a non essere un morto di visualizzazioni, perchè tra un morto di visualizzazioni e uno squalo dell’editoria c’è pochissima differenza.

Proprio per questo ci tengo a precisare una cosa che mi preme particolarmente. Non intendo assolutamente  radicarmi in un settore editoriale e stop; il mio lavoro continua, seguendo come al solito la mia etica di pensiero (giusta o sbagliata che sia). Ho intenzione di dividere la mia carriera tra le pubblicazioni e i progetti indipendenti. Il mio mestiere è il produrre materiale, fine. Quando qualcuno mi propone un buon contratto, accetto e quando nessuno me lo propone… mi muovo di conseguenza  per creare qualcosa d’indipendente.

Questo è il mio modo di lavorare ed è l’unico che conosco. Probabilmente non farò mai i milioni, ma per me il lettore rimane l’epicentro della storia.

Odio tutti quegli scrittori che tendono a distaccarsi dai propri lettori. Li reputo scialbi.

Per quanto riguarda “UROBORO”, posso ritenermi contento del fatto che non sia un lavoro indipendente perché sentivo in prima persona la necessita di un editing canonico per l’opera.

Quindi… grazie a voi.

Spero vivamente che chi comprerà UROBORO non rimarrà deluso.

 

Ferdinando de Martino.

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L’uomo al buio. | artisti da vicoli | di Ferdinando de Martino |

Certe volte mi sento così spaventosamente vuoto da rischiare l’implosione. Capita a tutti probabilmente, come se anche le anime non riuscissero di tanto in tanto a pagare la bolletta della luce per tempo, gettando così l’umore nel buio più totale.

È proprio il buio il territorio della realtà. Il buio della nostra immaginazione notturna, il buio delle nostre ambizioni e il buio di ciò che desideriamo solamente lontani dall’illuminazione della parola.

Il buio di scena è spesso la partenza dell’atto migliore di un dramma teatrale. Spegnere le luci non è facile, esattamente come non è facile restarsene sempre al di sotto dei lampadari emotivi; è il limbo della penombra l’atmosfera che non sopporto.

Quando ti accorgi di odiare tutto e tutti, infilando anche te stesso all’interno di una guerra che non sei nemmeno disposto a combattere, ti ritrovi al capolinea della stazione fantasma, spettro di te stesso dentro gli occhi degli altri.

Le luci si possono spegnere con l’eroina. Le luci si possono spegnere in una stanza piena di puttane. Le luci si possono spegnere in culo ai lupi, in un rifugio di montagna, giocando a fare l’eremita in una partita a due con la tua solitudine. Le luci si possono spegnere con la vodka, con l’autostop, il tiro con l’arco. Le luci si possono spegnere con la codeina e coi cerotti alla morfina. Le luci si possono spegnere dopo un concerto. Il buio, quello vero, può arrivare mentre ti trovi in una donna.

Il buio lo puoi trovare ad un tavolo d’intellettuali alla “Lepre”, bevendo assenzio viola, parlando di collettivi artistico/cinematografici. In quell’ambiente ho sentito abusare del termine “poesia” milioni e milioni di volte. Sono tutti artisti, poeti, misantropi (solo alle feste e tra la gente), sono tutti tossici (senza crampi allo stomaco e dolori lancinanti alle giunture), sono tutti bohémienne (dopo aver ascoltato bohemian like you). Sono tutti così artisti da farmi odiare il termine ARTE. Molte ragazze sono lascive, perchè il termine puttana è fuori moda… pardon… non è cool.

Rollano le loro sigarette, discutendo di materie che non conoscono nemmeno lontanamente. Parlano, sbuffando fumo e niente. Il nulla più totale. Sono ribelli. Ribelli nei loro abiti logori/chic, ribelli nei modi effeminati alla Johnny Depp.

Chiunque non sia nella loro cerchia diviene un idiota, un non sofisticato; sono la versione sfigata degli sfigati che giocano a fare i fighi del liceo a trent’anni. Sono stupendi. Mentre si rollano le loro sigarette di Pueblo, bevendo cocktail annacquati, le  loro donne scopano con altra gente e in fin dei conti per quanto fiche possano essere, non scopano neanche bene. Sono belle ragazze, magroline e tette grosse, piene di ideali presi alla rinfusa da qualche libro che non mancano mai di far spuntare dalle loro borse, ma non c’è sostanza nell’atto. Manca l’impeto, la fame, la rabbia. È questo che manca a tutta quella gente… la rabbia. Le palle.

Stronzeggiano tutto il giorno accusando il loro spleen, quando dovrebbero accusare la loro mancanza di talento e dedizione. Hanno in mente idee geniali che rivoluzioneranno il mondo, come se il mondo accettasse di farsi rivoluzionare da una testa di cazzo qualsiasi, pronto a girare un corto a basso costo in una finta periferia o da uno scrittore che ambisce davvero, davvero, davvero ad arrivare al cuore della gente.  Hanno tutti il libro perfetto nella testa. Il film perfetto, l’angolatura perfetta, il quadro perfetto, mentre se si soffermassero a perfezionare un po’ di più la loro tecnica nel soddisfare le loro consorti farebbero realmente qualcosa di buono. Almeno per loro stessi.

Avanti con le crocifissioni di massa, ho le spalle larghe… lo posso sopportare. È una vita che combatto con questa gente, con queste persone che potrebbero uscire a cena col loro ego, per quanto sono dopati nel cervello.

La misantropia è un’arma a doppio taglio, ma anche uno scudo eccellente verso tutta questa voglia di sembrar migliori degli altri, questo parlare d’arte, arte e arte. Quando si ripete una parola per più di tre volte, questa finisce per perdere di significato e questa è una delle regole più maledettamente vere della letteratura contemporanea. tre

Omar Pedrini, il marinaio che indossa cicatrici e tatuaggi. | di Ferdinando de Martino.

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Il fumo di sigaretta stagnante a mezz’aria ricrea una sorta di nebbia artificiale, Omar entra nel backstage più con le movenze dell’amico di bevute che quelle del pioniere del rock italiano.

Saluta tutte le persone, addetti ai lavori, fans e infermierine sexy (sì… nel caso ve lo stiate chiedendo, i backstage sono esattamente come  ve li immaginavate).

Mi trovo lì con la “Cane giallo Entertainment” per realizzare un’intervista ad Omar al 261 Rock Club, lui si avvicina e mi chiede -Cos’hai mangiato?

-Guarda, niente… è la mia prima intervista e sono un po’ teso.

-Bravo, il lavoro prima di tutto.- risponde sorridendo, cercando di mettermi a mio agio.

Cosa diavolo ci facevo lì? Gli scrittori dovrebbero starsene a casa tra polverosi tomi che nessuno si piglia la briga di leggere o al massimo a tirar su qualche rissa in un pessimo bar; tuttavia, cliché a parte, quello era l’unico posto al mondo in cui desiderassi trovarmi in quel momento.

-Sai, Omar… io e te abbiamo qualche passione in comune. Io gestisco una piccola enoteca e so che tu ami il vino.

-No… e me lo dici adesso? Mi devi dare un biglietto del locale, un numero di telefono, così ti vengo a trovare.

Omar si prende un attimo per cambiarsi la maglietta. Spesso pensiamo che queste persone non esistano realmente; sentiamo le loro voci provenire da radio, computer e casse amplificate, quasi come se dietro alle loro ugole non ci fossero né corpo né anima. Il corpo di Omar è lì ed indossa tatuaggi e cicatrici come un marinaio che nella vita ha vissuto decine di tsunami.

Gabriele, il regista dell’intervista, chiede ad Omar -Hai un profilo che preferisci mostrare in video?

Omar sorride e risponde -Beh, sì… io e Kate Moss abbiamo i nostri lati migliori.- sedendosi tranquillamente sul divano utilizzato come set per l’intervista.

Manuel, fotografo ufficiale della Cane giallo Entertainment, accende baracca e burattini e siamo pronti per l’intervista.

Scrivere le domande per Omar è stato come portare a termine tutte e sette le fatiche di Ercole in una sola botta. Sebbene sia un grande appassionato di musica, in quanto scrittore, le parole sono l’unica cosa che tendo ad estrapolare dai dischi e i testi di Omar sono da sempre una sorta di perla luccicante all’interno dell’oceano di petrolio grezzo che continuiamo a chiamare “panorama musicale italiano”.

Omar, esattamente come tutti i collaboratori di Ferlinghetti (a sua volta collaboratore di Pedrini  all’interno del disco “Che ci vado a fare a Londra?”) ha capito che la formula vincente di un testo non è ciò che si racconta, ma il come lo sì racconta. Credetemi… questa è una tanto piccola quanto sostanziale differenza che divide i buoni scrittori da quelli mediocri.

Si parla dei Timoria, di Pop-art e di tutte quelle divagazioni che solamente una mente allenata riesce a sostenere prima di un concerto, senza mandare a fanculo tutti gli intervistatori.

Finita l’intervista parliamo qualche secondo dei miei libri e a quel punto non posso esimermi dal dire -Omar, nel mio primo libro ci sono due paragrafi che parlano di te…

-Eh, allora devo averlo… voglio averlo… ci tengo assolutamente!- risponde l’autore di “sole spento”.

Lì, l’ego già iper-nutrito di uno scrittore è esploso come un palloncino nel cielo.

Il concerto comincia. Omar sale sul palco e proprio in quel momento penso “cazzo, ma ho appena intervistato Omar Pedrini?”. È difficile da spiegare, ma ci vogliono circa quaranta secondi per dimenticarsi che l’Omar che si può incontrare per strada è lo stesso dei palchi, lo stesso di Ferlinghetti e lo stesso che nella tua stanza risuonava in continuazione dalle tue cuffie in quei momenti in cui il mondo non aveva poi tanta voglia di ascoltare i tuoi pensieri.

 

Ferdinando de Martino.

Anarchia semantica. Genova, l’alluvione e la burocrazia.

Voglio cercare di essere il meno polemico possibile, ricordando in partenza che la differenza tra uno scrittore e un giornalista sta nell’obiettività che nel primo può pronunciarsi, mentre nel secondo dovrebbe rimanere velata o appena percettibile.

Non ho scritto niente sull’alluvione di Genova, prima di oggi,  in quanto la mia testata (se così si può definire questo blog) non ha assolutamente la pretesa di paragonarsi ad un giornale. Mi sembrava giusto e corretto, quindi, lasciar descrivere la situazione della mia città agli addetti ai lavori che sicuramente più del sottoscritto, hanno le armi adatte a fare informazione.

La mia intenzione è quella, da amante della parola, di portare la vostra attenzione sulle parole e sulle frasi che prendono o perdono il loro reale significato a seconda dei contesti.

Tenterò di spiegare il potere della parola con un semplice esempio.

Se un leone al circo dovesse uccidere il suo ammaestratore, quello stesso leone verrebbe immediatamente soppresso, in quanto pericoloso. Colpevole di omicidio.

Controlliamo però il significato di pericolo:

Pericolo – circostanze o persone che possono arrecare danno.

Se un uomo in mezzo a dei leoni, vedendosi implicato in una situazione di pericolo dovesse uccidere con un fucile le bestie, non sarebbe un assassino, ma una vittima del pericolo, giusto?

Ora, la stessa situazione con i soggetti invertiti, cambia totalmente il senso del termine “pericolo” davanti all’occhio umano, sebbene a livello ideologico l’individuo in pericolo dovrebbe sempre essere quello realmente vittima di una situazione tale.

Ciononostante, un animale in cattività è pericoloso e un un uomo in cattività è una vittima degli eventi.

Con questo non voglio perdermi in diatribe animaliste. Il mio era solamente un esempio atto a descrivere il potere della semantica nel nostro immaginario collettivo.

Analizziamo un secondo termine.

Furto – atto di prevaricazione, impossessamento indebito di un bene o una proprietà altrui. Attività tipica del ladro.

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In base alla sovrastante definizione, possiamo definire un cameriere che ruba dalla cassa, un ladro, come possiamo definire incompetente un cameriere che percepisce uno stipendio per adempiere al suo mestiere, pur non conoscendo la differenza tra un piatto e una forchetta.

Incompetente – persona priva di competenza in un qualsivoglia ambito.

Tuttavia, quando una giunta comunale si palleggia una cifra cospicua, affidatagli per l’adempimento di uno specifico compito, senza poi adempiere al suddetto compito, non possiamo definire tale giunta “incompetente”, ma vittima della burocrazia.

Quando invece vediamo i membri di questa giunta, partire per la Sardegna o quando misteriosamente vediamo comparire nel loro entourage prostitute, autisti, porta borse e quant’altro, non possiamo chiamarli ladri, ma onesti lavoratori.

È esattamente così che un mafioso diventa un uomo d’onore e un compressore infilato nell’ano di un quattordicenne  diventa una “guaglionata”.

Così, un poliziotto che ti mette le mani addosso per divertimento (e qui parlo per esperienza personale) diventa un passionale.

Stando alla suddetta interpretazione artistica della lingua italiana, bisognerebbe formare una nuova accademia della Crusca, atta a riassegnare i nuovi significati ai vecchi e obsoleti vocaboli.

Ad esempio, si potrebbe definire un persona violenta e irrispettosa con il termine -poliziotto-

Si potrebbe definire un individuo colto sul fatto nell’atto di rubare -politico-

E infine… si potrebbe definire -pericolo- lo scorrere del tempo, in una nazione che ha dimenticato non solo i suoi valori ma anche il loro significato.