horror

Mucchio d’ossa | STEPHEN KING | Best Seller d’autore

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Devo ammettere che non mi sarei mai aspettato un libro del genere da Stephen King.  Ovviamente non mi riferisco all’appartenenza di genere, quanto più al particolare ed estremamente ben definito stile letterario.

Mucchio d’ossa è un libro che mi ha letteralmente conquistato dalla prima all’ultima pagina.

Entrare nella mente e nelle elucubrazioni di un personaggio delineato alla perfezione in una veste autoriale mi ha regalato un eccellente punto di vista sul mondo della letteratura, nonostante abbia letto decine e decine di libri sul “blocco” dello scrittore.

Molti potrebbero gridare alla banalità, ma “Mucchio d’ossa” non è un libro sul morbo dello scrittore senza parole, bensì una storia in cui eventi ben più importanti hanno come cornice il suddetto problema che molti scribacchini vivono come un suicidio professionale .

I brividi trasmessi dai dialoghi-monologhi mi hanno congelato l’anima più d’una volta.

Leggendo le pagine di questo piccolo gioiello mi sono imbattuto in un vero e proprio best seller d’autore.

Ferdinando de Martino.

JOHN WICKER | DREAM | presto su Amazon

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Stiamo lavorando agli ultimi ritocchi al nuovo romanzo di John Wicker “DREAM” e mi ritrovo qui, con questo romanzo tra le mani .

Partire con il progetto editoriale dell’Infernale è un piacere inimmaginabile.

Le uniche anticipazioni che possiamo darvi sono relative al genere: DREAM  è un misto tra la classica narrativa weird e l’horror grottesco.

Ho iniziato a leggere le prime pagine di questo romanzo e mi sono sentito subito trascinato in un mondo fatto di avventure in tinte cupe e vite normali, tramutate in qualcosa di estremamente prezioso.

Sono sicuro che avrete avuto il tempo di apprezzare questo scrittore sul nostro portale, leggendo i suoi racconti e se non l’avete ancora fatto… potete trovarli qui: http://linfernale.altervista.org/j-wicker/

Comprare un libro è un po’ come firmare un contratto con se stessi, una sorta di sfida contro il mondo esteriore pre accrescere quello interiore.

 

John Wicker è uno scrittore sensazionale, capace di commuovere ogni molecola del corpo del lettore.

A breve parleremo anche della trama del primo volume di questa trilogia.

Ah, è vero… mi ero dimenticato di dirvi che DREAM sarà una saga d’autore.

Un saluto a tutti i lettori del blog

 

Ferdinando de Martino.

BRUXISMO | Un racconto di Emil Brune

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La tapparella si alza di scatto con un fracasso da circo e la luce di una qualsiasi mattina inoltrata mi violenta le cornee. Strizzo tra le dita il piumone sbuffando incazzato.

– Alzati, coglione – sbraita Roberta uscendo dalla stanza

Senza preoccuparmi troppo di togliere la faccia dal cuscino le bofonchio di andare a farsi fottere. Speriamo che il suono si sia propagato comunque e l’abbia raggiunta.
“Se solo avessi la telepatia”.
Sciacqua faccia. Radi. Lava l’involucro. Dirigiti – velocità da crociera – verso la cucina per pasto frugale.
Pilota automatico: gran sballo.
Invado la zona fornelli e bacio mia madre

– Ave Mater
– Ave figlio. Frittata? – risponde alzando gli occhi cielo. Non lo ammetterà mai, ma la diverto un mondo. Sappiamo entrambi che è così.
– Mancata prole di pollame, perché no. Mettiamoci anche delle fette di suino, crepi l’avarizia. Un bell’eccidio multirazziale per cominciare l’uggioso giorno – declamo sorridendo.

Mentre si volta verso il frigo per prendere il necessario, abbasso i pantaloni del pigiama, guardo Roberta seduta al tavolo col naso tra i cereali, le mostro la schiena e sussurro un – baaaciamelo – porgendole le natiche nude. Mi guarda con aria divertita sventagliandomi in faccia il medio.
Dolce routine quotidiana. Anche se non sono rotto, mi accomodo a tavola e aspetto il lieto convivio. Con lo sguardo perso nel vuoto, ancora preda del torpore del sonno, avverto una vibrazione sottile che anima il pavimento. Percepisco un rumore in avvicinamento, senza riuscire ad identificarlo. A questo punto mia madre ha smesso di cucinare. Se ne sta lì, impietrita, col mestolo in mano, a guardare noi due.
Nessuno parla. Le uova carbonizzano nerastre.
Dalla porta a vetri della cucina ho una comoda visuale sulla strada. Vedo un’onda dirigersi verso di noi dall’orizzonte. La sento arrivare. Il rombo aumenta. Si espande in ogni direzione mentre segue il suo cammino verso casa nostra, inghiottendo ogni cosa. Bidoni dell’immondizia, pali, cassette delle lettere e passanti spariscono sotto la sua mole. Divora tutto e tutti.
La vedono anche Roberta e mamma. Urlano. Si urla sempre di fronte all’incomprensibile. Davanti all’orrore sfocato non si rinuncia mai a svuotare i polmoni.
Io no.
Resto lì, impalato. Non ho neppure il battito accelerato. Però…cazzo che male in bocca. Sento lo smalto liscio che sfrega.

Cani. Sono…cani. A centinaia, forse migliaia. Di qualsiasi foggia, razza e dimensione. Mastini con bocche ringhianti, Volpini caracollanti che finiscono per essere schiacciati dalla corsa dei Dobermann. Chiwawa rigurgitanti saliva cavalcano Pastori Maremmani come ussari alla carica. È un incendio di peli che nessun canadair potrà mai spegnere. La piena di un fiume pulcioso che, alla fine, si schianta contro la nostra vetrata.
Mia mamma grida di scappare. Di uscire di là. Roberta trema inerme. Io osservo interessato. Placido.
Ma la mandibola inferiore cozza e sfrega con quella di sopra.
“Fanculo che fastidio”.
Ho giusto il tempo di sentire lo schianto di cristalli in frantumi e vedere il volto di mia madre sparire tra le fauci di un Dogue De Bordeaux per poi ritrovarmi in strada.
Non ho idea di come ci sia arrivato. La torma di cani è un ricordo remoto, sfocato, come un sogno raccontatomi da un estraneo un’eternità fa. Mentre eravamo marci d’alcool, per giunta.
Strana sensazione.
Non dovrei essere nervoso, ma le ossa da grugno digrignano e cozzano fra loro. Le sento sbriciolarsi fino a raggiungere la polpa. Me ne rendo conto ma non posso fermarlo. Non sono io a tirare le redini.

Non avrò il controllo della bocca ma, a quanto pare, mi è ancora permesso avanzare. Quindi lo faccio. 
M’inoltro verso ovest sul vialetto ordinato. Dopo pochi passi incontro il vicino, il signor chisseloricorda, che innaffia il prato dietro il suo steccato color ‘celeste sogno di fata’.
Che nome stronzo.
– Ma buongiorno, mio giovane amico! – mi trombetta giulivo sotto i baffoni bianchi.
– ‘Giorno – rispondo vago mentre cerco di tirar dritto.
– Ma dove corre così veloce, caro ragazzo? Sì fermi per una tazza di tè…o per una limonata, se preferisce – mentre il suo pancione si svuota d’aria scorreggiando parole, ho l’impressione che qualcosa nella sua voce stia mutando innaturalmente.
– No, grazie, sono di fretta – butto lì allungando il passo.
– Ma lei ha appena avuto una forte scrollata canina presso il suo domicilio! Un’imponente precipitazione canide di livello otto –
Cazzo. Cazzo, merda, cazzo. Merda, cazzo e poi merda. La sua voce…è quella di una bambina. Come se parlasse in falsetto. Un maledetto eunuco da opera.
Per la seconda volta, il mio corpo reagisce alla paura in maniera scoordinata: niente palpitazioni o sudori.
Ma, in compenso, ricevo in premio una scarica di agonia sui quattro incisivi.
“Quasi mi mancava”, penso ironico mentre metto la mano sulla bocca, instupidito dal dolore.

– E poi… non vede che ha i denti a pezzi? Suvvia, sia ragionevole, e si accomodi nel mio domicilio. Da bravo, vedremo di contattare subito un dentista e, mentre aspettiamo, potrebbe bere una limonata ghiacciata seduto sulle mie ginocchia! Che ne dice? – miagola sornione con quella vocetta da bimbetta.

Subito dopo, giuro su dio, quel tricheco bastardo mi fa l’occhietto. Apro la bocca per dirgli che la limonata può infilarsela dove l’aria passa di rado ma, come spalanco le fauci, schegge perlacee e sangue vermiglio saettano ovunque.
Schizzi imporporati toccano il suolo mischiandosi alla polvere. Frammenti d’ebano decorano i ciuffi dell’erba ammaestrata dal flebile vento autunnale.
Urlo. Finalmente urlo.

Alzo il busto dal materasso che sto ancora gridando.
Madre e sorella frullano per la stanza come robottini impazziti chiedendomi se sto bene.
– Tutto okay. Solo uno strano incubo. Non ricordo granché – borbotto.
E vai col pilota automatico. Lava l’involucro. Sbarba le guance. Spazzola la dentatura indolenzita.
Poi, finalmente, l’itinerario prestabilito fino alle uova nel piatto.
Incomincio a carburare e riprendo energia. Lo strascico nerastro di quella follia notturna abbandona il mio cervello, così come il formicolio in bocca.
Mi scrollo di dosso i vaghi incubi della notte precedente, ricordando solo l’agonia dei denti spezzati.

Routine, dolce routine. Il percorso nel mondo degli automi, le lezioni e i caffè, le sigarette in compagnia di discorsi da sagra di quartiere e il chiacchiericcio di sottofondo. Il bla bla bla che arricchisce noi tutti, sfarzosi poveri di idiozia e noia.

Sono in uno stanzone piastrellato in bianco. La luce al neon sopra il tavolone di metallo si riflette sulle mattonelle delle pareti dando vita a un’atmosfera da fantascienza. Addosso ai muri si appoggiano mensole metalliche abitate da strumenti operatori. Storti arnesi da tortura si affacciano dagli scaffali. Becchi arcuati, pinze seghettate, vaschette metalliche e punteruoli mi osservano algidi.
Mia madre è appena uscita, lasciandomi solo con quel corpo livido: sul tavolaccio autoptico riposa quella che fino a dodici ore prima era mia nonna.
Mi avvicino a lei e sfioro appena quelle dita che non potranno più accarezzarmi. Guardandola, comincio a elencare mentalmente tutto ciò che mi è stato strappato via con la sua morte. Se ne vanno i ricordi, alcuni condivisi, altri, per me troppo lontani da raggiungere. Persi nella memoria del bambino che sono stato.
Se ne vanno assieme a questo corpo grigio e stanco.
Spariscono i racconti del passato e libri letti assieme. Non ci saranno più Sir Conan Doyle, Edmond Dàntes o Martin Eden. Le loro storie non prenderanno più forma attraverso la sua voce.
Ne resterà il ricordo, forse.
La realtà intorno a me è vacua e torbida. Confusa. Dentro quel corpo non c’è più nulla. Solo organi inerti, liquidi e gas che presto evaderanno dalle cavità senza alcuna cura o gentilezza: il dispetto finale.
Le accarezzo i capelli e – abituato come sono a vederglieli cadere sulle spalle in eleganti boccoli rossicci – mi fa strano sentirli passare fra le dita. Sono stopposi, sfilacciati e lisci.
Compiere quel gesto inusuale mi frantuma.
“Quale nipote accarezza i capelli della propria nonna?”
Non ha senso. Tutto questo è semplicemente…sbagliato.
“Non voglio che te ne vada”.
Il canino destro mi fulmina con un picco di agonia lancinante.
Per una frazione di secondo socchiudo gli occhi, in attesa che il dolore passi e, quando li riapro, la sua testa è piegata su un lato, verso di me. Mi osserva, silenziosa. La morsa d’acciaio dell’ansia stritola i miei polmoni. “Dev’essere un sogno. Deve esserlo”.
Poi, sorride. Stordito, le sorrido di rimando.

– Ma…che…ma che diavolo succede?
– Shh, da bravo. Fatti dare un’occhiata prima di andare.
– Ti voglio bene, nonna – sussurro con un alito di voce al cui interno c’è tutto me stesso.

Quegli occhi nocciola, che sono anche i miei, mi regalano un ultimo saluto. Nelle loro profondità c’è l’amore abissale, che non teme né le ingiurie del tempo né l’eternità della morte. Desidererei che potesse restare qui, per sempre, ma mentre rimette la testa in posizione e chiude gli occhi, so che non le è permesso. Deve rispondere – come tutti – al comando più grande. Così la lascio andare.
La luce del neon traballa mentre piango. Mi inginocchio continuando a stringere la sua mano gelida.
“Non andare. Non ora. Resta con me”.
Il neon smette di sfarfallare. Tra le lacrime che mi offuscano la vista, osservo il mio canino insanguinato sul pavimento.

Lanciando via le coperte sudate, sento ancora addosso il peso una tristezza ignobile. Di quella malinconia bastarda che si intorbidisce nel cuore. I miei denti sono in fiamme, poi, ricomincia lo show: via la barba, lava il sottobraccio, sciacqua il volto. Trascinati – come lo zombi che sei – verso tristi fiocchi d’avena.
Mentre mangio, guardo il muro, apparentemente disconnesso.

– Stanotte ho sognato nonna – annuncio cupo.
– Capita a tutti, credo – risponde Roberta senza alzare lo sguardo.

Stramaledetta routine. Perdi la cognizione del tempo e dello spazio. Stessi luoghi, stessi volti. Inabissati negli schermi sociali, perdi quotidianamente la dignità esibendoti come un pavone daltonico. Rinuncia a serenità e al desiderio di contatto. E allora vai, cammina tronfio, ostentando apparenza. Incazzati come un demonio quando la cassetta degli attrezzi non si chiude più. Cacciaviti, tenaglie e brugole non ritornano docilmente al loro posto, quasi fossero i pezzi sconnessi della tua vita.
Apro internet e navigo tra sogni di denti. Nulla di buono: lutto, mancanza, morte di persone care e via dicendo. “Ottimo. Non potevo desiderare di meglio”.
Denti. Denti. Denti.
Continuo coi miei sogni di dentina in frantumi e polpa esposta e sanguinante. Sento l’aria gelida scorrermi tra i tronconi dei cadaveri bianchi che ho in bocca. Notte dopo notte.

Sono in uno spazio buio. Passo la mano davanti agli occhi ma non riesco a vederla. Provo ad alzarmi, ma non ci riesco. C’è un muro a trenta centimetri dal mio corpo. Sono disteso fra due pareti d’acciaio.
Poi, cristo, una forza mostruosa mi scaraventa all’incazzata a destra e poi a sinistra, manco fossi in una centrifuga. Sento nuca e schiena sfregare sul pavimento mentre brandelli di carne prendono commiato dal mio corpo. Va avanti così per un tempo senza limite.
Dopo di che, pesanti – e colorate – forme geometriche cominciano a lampeggiare nell’oscurità. Mi vengono bruscamente incontro, per poi fermarsi immediatamente davanti agli occhi.
“Mi schiacceranno. Cazzo, mi spappoleranno al suolo. Mi disintegreranno”.
La bocca mi viene spalancata a forza. Qualcosa di cilindrico e zigrinato mi scava fra le labbra: ho decisamente un tubo tra i denti. Vengo sballottato così, senza sosta, a destra e sinistra. Il dolore è insensato. Sento i denti disintegrarsi per lo sfregamento abrasivo. Proprio quando penso di stare per morire dall’agonia, la forza si placa, lasciandomi sospeso in quell’incubo nero.
Respiro all’impazzata per lo shock. Nuove corone spuntano espellendo i monconi insanguinati. Poi ricomincia. Lancette invisibili scorrono incalcolabilmente durante la tortura. Svengo. Non sento più nulla.
Quando riprendo i sensi sono ancora avvolto dal buio. Vorrei urlare, ma non posso: i denti sono ormai troppo lunghi per permettere alla mascella di articolare qualsiasi movimento.

Mi sveglio e sono sereno. Tutto è passato non appena ho aperto gli occhi. Niente dolore sulle arcate, né ansia o preoccupazione alcuna.
Io sono lexotan.
Mi alzo a fatica, ma riesco comunque a mettermi seduto, nonostante le braccia mi strozzino il torace.
Non ci sono più quadretti con volti sorridenti alle pareti. Niente computer, bandiere, foto, boccali da birra o sorelle che mi svegliano scherzando. La luce dell’alba che filtra attraverso la grata della finestra illumina un paio di pantofole bianche e spente pareti grigiastre.
Nel mio abbraccio forzato, con le mani appena sotto le scapole, mi osservo allo specchio.
Le cinghie tintinnano.
Guardo le mie labbra distrutte, poi…spalanco. Scruto nelle ritmiche cavità, e mi dò il buongiorno col mio migliore – e roseo – sorriso.
Finalmente sono libero.

 

Emil Brune

SPAVENTACI | Sei un autore horror ? Dimostracelo con un racconto | Stiamo cercando te |

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Sei un autore horror? Credi di avere dei racconti validi?

Sei stanco delle case editrici che rifiutano i racconti? Forse facciamo al caso tuo.

Inviaci un racconto e noi dell’infernale lo leggeremo con attenzione, valutandolo minuziosamente per un’eventuale proposta di pubblicazione con la sezione editoriale del nostro blog.

Tu dacci una storia convincente e noi valuteremo un’intera raccolta.

Credere nel web e nell’editoria giovane e nuova è una ragione di vita.

SPAVENTACI è l’opportunità che stavi aspettando.

Invia una mail a ferdidioniso@gmail.com specificando SPAVENTACI come oggetto e verrete ricontattati  in ogni caso.

Fatevi avanti…

Ferdinando de Martino (Direttore editoriale)

 

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di JOHN WICKER

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Sharon se ne stava accasciata a terra, tenendo suo fratello in braccio. Il coltello da carne penzolava pericolosamente vicino al viso piangente del piccolo Bruce.
Lo sguardo della ragazza era assente, quasi come se avesse visto negli occhi il reale volto del male.
Jack Milton si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore. Succedeva ogni notte.
-Tutto bene, tesoro?- chiese, ancora assonnata, Darline.
-Tranquilla cara… tranquilla.
Era passato un mese, ma Jack non era ancora riuscito a dimenticare ciò che era successo in quella casa.
Anche Darline faticava molto a prendere sonno, ma non le capitava mai di svegliarsi nel cuore della notte, in preda ad attacchi di terrore notturno come succedeva a lui.
Andavano a trovare Sharon ogni due giorni, nella clinica privata che l’aveva presa in cura. Schizofrenia. La diagnosi parlava chiaro.
La loro primogenita di diciassette anni era schizofrenica ed era monitorata ventiquattr’ore su ventiquattro.
Jack sognava quel momento in continuazione, ponendosi sempre la stessa domanda: cosa sarebbe successo se lui non fosse entrato in tempo in quella stanza?
Sharon avrebbe brutalmente ucciso il suo piccolo fratellino? Sarebbe realmente stata in grado di fare del male ad una creatura così piccola ed indifesa?
Come avevano potuto non accorgersi dei sintomi della malattia mentale della loro primogenita?
Lui passava molto tempo a lavoro, ma aveva sempre avuto un rapporto splendido con Sharon. Lei gli aveva sempre detto che lo considerava più un amico che un padre.
Quando era piccola, lui era solito guardarla intensamente prima di rimboccarle le coperte e dirle -La principessa di papà ha bisogno di un bacio scaccia mostri?
Lei rispondeva sempre -Facciamo due.- e scoppiavano entrambi a ridere.
Il tempo delle risate era finito. La sua principessa era costretta in un lettino, imbottita di psicofarmaci per impedirle di fare del male a qualcuno o addirittura a se stessa.
Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Lungo il tragitto si fermò davanti alla camera di Bruce. Era tutto a posto. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di fare del male alla sua famiglia.
Una volta in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bel bicchiere d’acqua. Probabilmente l’avrebbe aiutato a dormire.
Quasi senza un reale motivo, decise di andare in bagno, nonostante non sentisse nessun impulso fisiologico.
Voleva guardarsi in faccia. Voleva ricordare a se stesso che dietro quel volto c’era ancora un uomo in grado di difendere la sua famiglia.
Non accese nessuna luce, perchè la porta a vetro della camera da letto di lui e sua moglie si trovava nella traiettoria del bagno e non voleva svegliare Darline una seconda volta.
Il turno di mattina la stava uccidendo di stanchezza e le sue crisi notturne non l’aiutavano di certo.
Doveva ritrovare la sua tranquillità in un modo o nell’altro. Quell’instabilità interiore finiva per ripercuotersi anche sul suo lavoro. Era sempre stanco e assonnato e quando i musicisti gli domandavano come fossero andate le registrazioni, lui rispondeva senza aver realmente ascoltato il lavoro appena inciso.
Le orecchie andavano ancora bene, ma il cervello era proprio da un’altra parte.
Gli affari al suo studio di registrazione andavano alla grande, ma da lì a perdere tutti i loro clienti per negligenza, era un niente.
Si sciacquò il volto con dell’acqua ghiacciata e sollevò il suo sguardo nello specchio. Nel bagno c’era qualcuno assieme a lui. Un riflesso distinto di un uomo sulla quarantina, sporco e arruffato era apparso nello specchio.
Un grido sovrumano uscì dalla gola di Jack che crollò a terra, terrorizzato.
Non c’era nessuno dietro di lui. Il bagno era vuoto.
Cosa diavolo era stato? Un’allucinazione? La mancanza del sonno? Forse stava impazzendo. Prima sua figlia e adesso lui.
Uscì dal bagno ancora in stato di shock. La luce dalla camera da letto sua e di Darline era accesa. Probabilmente sua moglie aveva sentito le grida e si era alzata per l’ennesima volta.
Non era un’allucinazione. L’uomo che aveva visto in bagno era entrato dentro la camera del piccolo Bruce.
Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua famiglia. Non faceva altro che ripetere mentalmente quella frase, dall’incidente avvenuto il mese precedente. Adesso era arrivato il momento di dimostrare a tutti che era un uomo perfettamente in grado di difendere la sua progenie.
Correndo come un forsennato verso la stanza del figlio, afferrò il suo ferro numero quattro dalla sacca da golf che teneva sempre nell’ingresso, per mostrare a tutti che era un golfista sempre pronto al gioco ed entrò nella cameretta.
L’uomo se ne stava accanto alla culla.
Con un fendente, Jack cercò di colpire l’oscura presenza per poi afferrare Bruce e portarlo al sicuro.
-Che diavolo succede?- gridò Darline, entrando nella stanza.
-Ci sono io. Ci sono io. Vattene.
-Che cazzo stai facendo?
-Vai via… scappa.
Darline si accorse immediatamente che c’era qualcosa che stava spaventando a morte suo marito, ma doveva assolutamente prendere il piccolo Bruce, prima di occuparsi dell’uomo.
-Senti, adesso devi darmi Bruce, ok?- disse, cercando di rimanere calma, mentre i demoni della rabbia non facevano altro che impadronirsi del suo corpo.
-Non posso. Vai via…
-Perchè hai una mazza da golf in mano?
-Tu non l’hai visto.
-Dammi il bambino, Jack.
-No. Non te lo permetterò. Stammi lontana. Io… io devo proteggerlo.
-Ok. Ok. Bene. Ma dimmi solo da cosa devi proteggere Bruce, così posso darti una mano.
-Era… era… oh mio Dio, Sharon aveva ragione.
Un vaso s’infranse sulla testa dell’uomo e il buio spense il ragionamento.
La madre di Darline si trasferì da lei, subito dopo gli avvenimenti che distrussero definitivamente quello che restava della sua famiglia. Erano entrambi schizofrenici, suo marito e la sua primogenita.
Qualcuno doveva averle lanciato addosso un malocchio grande come una casa.
Bruce era tutto quello che le rimaneva. Non riusciva proprio a capire perchè la pazzia di Sharon e Jack aveva dovuto abbattersi sul piccolo bambino che stringeva tra le mani in quel momento.
Oramai Bruce dormiva assieme a lei, in quella che un tempo era stata la camera da letto che condivideva con il suo amato marito, al momento ricoverato all’interno della stessa struttura che aveva in cura anche la giovane Sharon.
Quella notte avrebbe voluto chiudere gli occhi e risvegliarsi indietro nel tempo; precisamente quando la sua vita era ancora degna d’essere vissuta.
Adesso era tutto relativamente facile. Bruce non faceva alcun tipo di domanda, si limitava a poppare, fare dei gran ruttini e nulla di più. Un giorno, nemmeno poi tanto lontano, le avrebbe sicuramente chiesto dove si trovasse suo padre e chi fosse sua sorella e Darline non avrebbe saputo cosa rispondere.
Tempo al tempo… era solamente un neonato.
Sharon si alzò e andò in bagno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, donna dal sonno estremamente leggero.
Fece pipì e iniziò a riflettere sugli avvenimenti che avevano distrutto la sua vita. Non aveva notato nessun sintomo di squilibrio in Sharon, prima che questi si manifestassero tutti in una volta, esattamente come era successo con Jack.
Dal nulla, entrambi si erano scagliati con enfasi sul più piccolo della famiglia.
Sharon aveva cercato di ucciderlo con un coltello, mentre Jack aveva optato per una mazza da golf.
Cos’era successo alla sua famiglia? Cosa poteva aver distrutto il cervello delle persone che più amava al mondo? La pazzia? Il demonio? Non sapeva più a chi chiedere aiuto, ora che anche la preghiera le sembrava un inutile passatempo, privo di ogni tangibile riscontro.
Forse lei era stata scelta da Dio per vegliare sul piccolo ed indifeso Bruce. Poteva essere un’ipotesi, esattamente come poteva essere solamente un modo d’interpretare una realtà orribilmente grottesca.
L’acqua fredda sulle mani le restituì un po’ di colore in viso. Da quando erano successi quegli avvenimenti, la sua pelle aveva perso un paio di tonalità, regredendo dal rosa acceso, fino ad arrivare ad un bianco tendente al blu acceso.
Le occhiaie le circondavano gli occhi, quasi come se volessero proteggerla dal senso della vista, creando un fossato attorno alle sue pupille.
Prese l’asciugamano tra le mani e alzando lo sguardo verso lo specchio, vide un riflesso di terrore su quella superficie che aveva già condannato altri due esponenti del suo nucleo familiare.
Un grido gelido interruppe il sonno di Eleonor, sua madre, che svegliandosi di soprassalto, vide sua figlia correre in camera da letto, con un coltello da macellaio serrato nel pugno chiuso.

J. Wicker

I racconti di John Wicker li potete trovare anche sul vostro Kindle store. Il terrore è portata di click.

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di John Wicker | l’Infernale edizioni

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Da oggi è disponibile su Amazon il nuovo racconto di John Wicker, lo scrittore del brivido già autore dell’acclamato “L’urlo del bosco”, pubblicato sempre da l’Infernale edizioni sul Kindle store.

In questo nuovo racconto, seguiremo la tragica avventura di una famiglia distrutta e tormentata da una presenza oscura.

“Il riflesso della paura” è un racconto in tinte horror che attinge all’immaginario collettivo del terrore, mantenendo la linearità di un racconto d’autore. Lo stesso Wicker ha affermato più volte di non volersi scrollare da dosso l’etichetta della letteratura di genere, in quanto si ritiene uno scrittore horror, prima di uno scrittore.

L’obiettivo finale di Wicker è sempre lo stesso: spaventarvi.

Per ottenere nella vostra libreria digitale “Il riflesso della paura” sui vostri dispositivi elettronici, dai tablet ai lettori e-reader, basta cliccare il banner sottostante.

Buona lettura.

 

Ferdinando de Martino.

 

Dello stesso autore, leggi anche:        

Freaks Show. American Horror Story, Poe e Tod Browning.

L’episodio pilota di American Horror Story (freak show) è stato un vero e proprio piacere per gli occhi e per la mente.

Che dire? Jessica Lange è la recitazione fatta persona, una vera diva d’altri tempi che di serie in serie riesce a rinnovare la sua perfidia e il suo estro inquietante.

Il tema dei Freaks  è sempre stato uno dei più interessanti e controversi del panorama artistico, basti pensare al celebre FREAKS di Tod Browning con una stupenda ed insuperabile Olga Baklanova alle prese con un gruppo di “diversi” dotati di un talento espressivo senza eguali.

Oltre all’opera in questione e alla serie appena cominciata, consiglio vivamente la lettura del racconto di Poe “Hop Frog”, lavoro geniale e al contempo struggente come pochi.

Il diverso, colui che appare differente dalla moltitudine e proprio per colpa di questa sua differenza, viene relegato al ruolo di fenomeno da baraccone; questo è il tema affrontato nei lavori di cui mi trovo a scrivere in questo momento.

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Credo fermamente che l’arte e la cultura dovrebbero essere le armi primordiali contro la guerra all’ignoranza che relega il “non replicante” alla condizione di mostro o se vogliamo di Freak.

Poi… cari lettori, Jessica Lange è la sessantacinquenne più affascinante del pianeta; quindi vi auguro una buona visione con American Horror Story (freak show).

Ferdinando de Martino