infernale

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di JOHN WICKER

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Sharon se ne stava accasciata a terra, tenendo suo fratello in braccio. Il coltello da carne penzolava pericolosamente vicino al viso piangente del piccolo Bruce.
Lo sguardo della ragazza era assente, quasi come se avesse visto negli occhi il reale volto del male.
Jack Milton si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore. Succedeva ogni notte.
-Tutto bene, tesoro?- chiese, ancora assonnata, Darline.
-Tranquilla cara… tranquilla.
Era passato un mese, ma Jack non era ancora riuscito a dimenticare ciò che era successo in quella casa.
Anche Darline faticava molto a prendere sonno, ma non le capitava mai di svegliarsi nel cuore della notte, in preda ad attacchi di terrore notturno come succedeva a lui.
Andavano a trovare Sharon ogni due giorni, nella clinica privata che l’aveva presa in cura. Schizofrenia. La diagnosi parlava chiaro.
La loro primogenita di diciassette anni era schizofrenica ed era monitorata ventiquattr’ore su ventiquattro.
Jack sognava quel momento in continuazione, ponendosi sempre la stessa domanda: cosa sarebbe successo se lui non fosse entrato in tempo in quella stanza?
Sharon avrebbe brutalmente ucciso il suo piccolo fratellino? Sarebbe realmente stata in grado di fare del male ad una creatura così piccola ed indifesa?
Come avevano potuto non accorgersi dei sintomi della malattia mentale della loro primogenita?
Lui passava molto tempo a lavoro, ma aveva sempre avuto un rapporto splendido con Sharon. Lei gli aveva sempre detto che lo considerava più un amico che un padre.
Quando era piccola, lui era solito guardarla intensamente prima di rimboccarle le coperte e dirle -La principessa di papà ha bisogno di un bacio scaccia mostri?
Lei rispondeva sempre -Facciamo due.- e scoppiavano entrambi a ridere.
Il tempo delle risate era finito. La sua principessa era costretta in un lettino, imbottita di psicofarmaci per impedirle di fare del male a qualcuno o addirittura a se stessa.
Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Lungo il tragitto si fermò davanti alla camera di Bruce. Era tutto a posto. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di fare del male alla sua famiglia.
Una volta in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bel bicchiere d’acqua. Probabilmente l’avrebbe aiutato a dormire.
Quasi senza un reale motivo, decise di andare in bagno, nonostante non sentisse nessun impulso fisiologico.
Voleva guardarsi in faccia. Voleva ricordare a se stesso che dietro quel volto c’era ancora un uomo in grado di difendere la sua famiglia.
Non accese nessuna luce, perchè la porta a vetro della camera da letto di lui e sua moglie si trovava nella traiettoria del bagno e non voleva svegliare Darline una seconda volta.
Il turno di mattina la stava uccidendo di stanchezza e le sue crisi notturne non l’aiutavano di certo.
Doveva ritrovare la sua tranquillità in un modo o nell’altro. Quell’instabilità interiore finiva per ripercuotersi anche sul suo lavoro. Era sempre stanco e assonnato e quando i musicisti gli domandavano come fossero andate le registrazioni, lui rispondeva senza aver realmente ascoltato il lavoro appena inciso.
Le orecchie andavano ancora bene, ma il cervello era proprio da un’altra parte.
Gli affari al suo studio di registrazione andavano alla grande, ma da lì a perdere tutti i loro clienti per negligenza, era un niente.
Si sciacquò il volto con dell’acqua ghiacciata e sollevò il suo sguardo nello specchio. Nel bagno c’era qualcuno assieme a lui. Un riflesso distinto di un uomo sulla quarantina, sporco e arruffato era apparso nello specchio.
Un grido sovrumano uscì dalla gola di Jack che crollò a terra, terrorizzato.
Non c’era nessuno dietro di lui. Il bagno era vuoto.
Cosa diavolo era stato? Un’allucinazione? La mancanza del sonno? Forse stava impazzendo. Prima sua figlia e adesso lui.
Uscì dal bagno ancora in stato di shock. La luce dalla camera da letto sua e di Darline era accesa. Probabilmente sua moglie aveva sentito le grida e si era alzata per l’ennesima volta.
Non era un’allucinazione. L’uomo che aveva visto in bagno era entrato dentro la camera del piccolo Bruce.
Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua famiglia. Non faceva altro che ripetere mentalmente quella frase, dall’incidente avvenuto il mese precedente. Adesso era arrivato il momento di dimostrare a tutti che era un uomo perfettamente in grado di difendere la sua progenie.
Correndo come un forsennato verso la stanza del figlio, afferrò il suo ferro numero quattro dalla sacca da golf che teneva sempre nell’ingresso, per mostrare a tutti che era un golfista sempre pronto al gioco ed entrò nella cameretta.
L’uomo se ne stava accanto alla culla.
Con un fendente, Jack cercò di colpire l’oscura presenza per poi afferrare Bruce e portarlo al sicuro.
-Che diavolo succede?- gridò Darline, entrando nella stanza.
-Ci sono io. Ci sono io. Vattene.
-Che cazzo stai facendo?
-Vai via… scappa.
Darline si accorse immediatamente che c’era qualcosa che stava spaventando a morte suo marito, ma doveva assolutamente prendere il piccolo Bruce, prima di occuparsi dell’uomo.
-Senti, adesso devi darmi Bruce, ok?- disse, cercando di rimanere calma, mentre i demoni della rabbia non facevano altro che impadronirsi del suo corpo.
-Non posso. Vai via…
-Perchè hai una mazza da golf in mano?
-Tu non l’hai visto.
-Dammi il bambino, Jack.
-No. Non te lo permetterò. Stammi lontana. Io… io devo proteggerlo.
-Ok. Ok. Bene. Ma dimmi solo da cosa devi proteggere Bruce, così posso darti una mano.
-Era… era… oh mio Dio, Sharon aveva ragione.
Un vaso s’infranse sulla testa dell’uomo e il buio spense il ragionamento.
La madre di Darline si trasferì da lei, subito dopo gli avvenimenti che distrussero definitivamente quello che restava della sua famiglia. Erano entrambi schizofrenici, suo marito e la sua primogenita.
Qualcuno doveva averle lanciato addosso un malocchio grande come una casa.
Bruce era tutto quello che le rimaneva. Non riusciva proprio a capire perchè la pazzia di Sharon e Jack aveva dovuto abbattersi sul piccolo bambino che stringeva tra le mani in quel momento.
Oramai Bruce dormiva assieme a lei, in quella che un tempo era stata la camera da letto che condivideva con il suo amato marito, al momento ricoverato all’interno della stessa struttura che aveva in cura anche la giovane Sharon.
Quella notte avrebbe voluto chiudere gli occhi e risvegliarsi indietro nel tempo; precisamente quando la sua vita era ancora degna d’essere vissuta.
Adesso era tutto relativamente facile. Bruce non faceva alcun tipo di domanda, si limitava a poppare, fare dei gran ruttini e nulla di più. Un giorno, nemmeno poi tanto lontano, le avrebbe sicuramente chiesto dove si trovasse suo padre e chi fosse sua sorella e Darline non avrebbe saputo cosa rispondere.
Tempo al tempo… era solamente un neonato.
Sharon si alzò e andò in bagno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, donna dal sonno estremamente leggero.
Fece pipì e iniziò a riflettere sugli avvenimenti che avevano distrutto la sua vita. Non aveva notato nessun sintomo di squilibrio in Sharon, prima che questi si manifestassero tutti in una volta, esattamente come era successo con Jack.
Dal nulla, entrambi si erano scagliati con enfasi sul più piccolo della famiglia.
Sharon aveva cercato di ucciderlo con un coltello, mentre Jack aveva optato per una mazza da golf.
Cos’era successo alla sua famiglia? Cosa poteva aver distrutto il cervello delle persone che più amava al mondo? La pazzia? Il demonio? Non sapeva più a chi chiedere aiuto, ora che anche la preghiera le sembrava un inutile passatempo, privo di ogni tangibile riscontro.
Forse lei era stata scelta da Dio per vegliare sul piccolo ed indifeso Bruce. Poteva essere un’ipotesi, esattamente come poteva essere solamente un modo d’interpretare una realtà orribilmente grottesca.
L’acqua fredda sulle mani le restituì un po’ di colore in viso. Da quando erano successi quegli avvenimenti, la sua pelle aveva perso un paio di tonalità, regredendo dal rosa acceso, fino ad arrivare ad un bianco tendente al blu acceso.
Le occhiaie le circondavano gli occhi, quasi come se volessero proteggerla dal senso della vista, creando un fossato attorno alle sue pupille.
Prese l’asciugamano tra le mani e alzando lo sguardo verso lo specchio, vide un riflesso di terrore su quella superficie che aveva già condannato altri due esponenti del suo nucleo familiare.
Un grido gelido interruppe il sonno di Eleonor, sua madre, che svegliandosi di soprassalto, vide sua figlia correre in camera da letto, con un coltello da macellaio serrato nel pugno chiuso.

J. Wicker

I racconti di John Wicker li potete trovare anche sul vostro Kindle store. Il terrore è portata di click.

Divagazioni di un viaggiatore del Karma | Non ho mai visto le teste dell’Isola di Pasqua e ne sono fiero |

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Certe volte abbiamo bisogno delle divagazioni.
Divagare è la Costa Smeralda di chi non ha un cazzo di niente. I ricchi prendono le loro anime stanche e se le portano in posti esotici, davanti a panorami spettacolari ed inimmaginabili.
Conoscevo un tizio che aveva visto dal vivo le teste dell’Isola di Pasqua. Ora, non so come spiegarlo senza sembrare la persona più chiusa dell’universo, ma perchè qualcuno sano di mente dovrebbe provare interesse a vedere le teste dell’isola di pasqua? È una cosa che non riuscirò mai capire.
Io di grosse teste di cazzo ne ho viste abbastanza nelle mie vite precedenti e se fossi un ricco, sicuramente non spenderei tutti quei soldi per andare a vedere delle teste conficcate nella terra.
Non riesco proprio ad immedesimarmi o a provare empatia per quella gente. Loro si alzano, fanno le valige, controllano le loro azioni in borsa, pillolina per curare il jet lag, aeroporto, taxi, albergo, cenetta etnica per sentirsi parte del luogo, consumando l’intero fabbisogno dell’isola in una sola portata, notte, escursione e grosse teste di cazzo conficcate nell’erba.
No… non riuscirò mai a sintonizzarmi su quelle frequenze. Mi sento come una vecchia radiosveglia in un mondo di iPod.
Forse sono solamente un personaggio di un romanzo di serie B, imbruttito dalla solitudine, cresciuto in cattività sentimentale e sempre in allerta, come un cane maltrattato.
Viaggiano, corrono, cercano. In parole povere: scappano.
Ecco, la mancanza del coraggio credo che stia alla base della loro voglia di fuggire in continuazione, perchè mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia realmente guardare negli occhi quelle maledettissime teste di pietra, quando in Vaticano abbiamo la Pietà di Michelangelo.
Cercano il coraggio in mete esotiche, lo cercano nei cocktail con gli ombrellini e nelle spiagge immacolate. Mi viene in mente il leone di Dorothy.
Anche quelli come noi scappano, solo che lo fanno in maniera diversa. C’è ancora chi si mette sul terrazzo a guardare le finestre degli altri, domandandosi se anche loro provano quel vuoto dentro. Perchè il grande interrogativo non è: siamo soli nell’universo? Ma: siamo davvero tutti soli?
Ho sentito le storie più belle, raccontate dalle bocche più malconce e sdentate. Ho amato donne bellissime, solamente perchè in tutta la mia vita non ho mai avuto le palle di conoscere veramente una donna nell’anima, apprezzandone le doti umane, prediligendo a queste un bel faccino e un corpo da modella.
Sono stato tutto quello che odio e cerco di scontare giornalmente il mio purgatorio personale, lottando contro me stesso e contro tutte quelle canzoni demoniache che mi risuonano nel cranio.
Mi ritrovo spesso davanti ad uno schermo vuoto, consapevole del fatto che non si riempirà da solo e questo mi terrorizza a morte. Questo è il problema di chi sceglie un mestiere che potrebbe esaurire le sue batterie da un momento all’altro.
Non ho mia preso un aereo, perché sono talmente terrorizzato dall’idea di affidarmi ad un altro essere vivente in alta quota, da non sentire ragioni.
Ho riflettuto molto sul mio lascito cartaceo e non sono soddisfatto, ma questo credo che sia l’unico modo per alimentare le batterie di cui parlavo prima.
Non ho mai visto le teste dell’Isola di Pasqua e ne vado fiero. Non so perchè, ma è così.
Per certi versi sono ancora quel ragazzino del liceo, terrorizzato e spaurito, che gli altri non sceglievano per giocare a pallone e se potessi decidere nuovamente da che parte stare, sceglierei di nuovo la mia, perchè senza tutta la merda che sono stato costretto ad ingoiare, non avrei mai fatto della mia passione il mio lavoro.
Cosa mi ha insegnato questo stile di vita completamente folle? Mi ha insegnato a lavorare con una rivoltella puntata alla testa e questa è una cosa che non tutti possono vantare nel loro curriculum.
Ho provato a spiegare più e più volte il senso di smarrimento di una generazione a cui i sociologi non hanno trovato un nome migliore di “generazione x” e credo di non esserci ancora riuscito, proprio perchè quel senso di smarrimento è talmente radicato in me, da non farmi prendere niente sul serio.
Non è tranquillità zen… è che ci stiamo tutti cagando sotto.

 

 

Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore? | Sublime solitudine | di Salvo Barbaro

salvo

20 Aprile 2006
E’ un giovedì pomeriggio, sono quasi le quattro e mi trovo a casa nella quiete più assoluta. I miei genitori sono usciti per delle commissioni, “evento alquanto straordinario”, mia nonna e mio zio sono fuori per la loro solita passeggiata pomeridiana. Mio fratello è a lavoro.
Finalmente sono solo, rinchiuso nelle “mie” quattro mura, assorto nei miei più assurdi e sconfinati pensieri di giovane-adulto-lavoratore-tempo-determinato. Ho finito da poco più di un’ora di lavorare, operaio addetto alla depurazione delle acque reflue in un’azienda vitivinicola della mia città natale. Sono stanco, cerco disperatamente di riposarmi sul mio letto accomodato con cura dalla nonna. Appoggio la testa al morbido cuscino, guardo il soffitto, sto per chiudere gli occhi e suonano al citofono. Impreco, mi alzo, vado alla porta e rispondo molto scocciato. Dall’altra parte una voce femminile, suadente e devo dire molto bella che mi dice -Salve, lei crede in Dio?
Resto in silenzio per circa quaranta secondi, poi esclamo –Beh, non so, bella domanda. Comunque ho da fare arrivederci.-
Chiudo la conversazione, impreco di nuovo e mi rimetto a letto. Non chiudo occhio, ho una sensazione strana. Sono troppo emozionato per così tanta solitudine, troppo bella questa occasione per buttarla in due ore di sonno inutili. Mi alzo, vado in cucina, apro il frigo. Cerco disperatamente qualcosa da mettere sotto i denti, rovisto tra prosciutto crudo, prosciutto cotto, formaggi, succhi di frutta, acqua gasata, ma niente che possa soddisfare la mia fame da noioso-voglioso-di-dolci.
Idea, apro il freezer e ecco spuntare davanti a me l’essenza della golosità, il sublime piacere del palato, Magnum Algida. Lo addento ancora ghiacciato, lo guardo fisso mentre sembra implorarmi pietà, ma niente… la mia furia è inarrestabile. Dopo nemmeno due minuti, di lui resta solo lo stecchino di legno, bagnato della mia saliva, dalla mia voglia e del mio orgoglio. Lo getto con calma olimpica e un dubbio “vorticoso” mi assale, e ora? Che cazzo faccio? Sono appena le quattro e trenta. Ok, bevo un sorso d’acqua e ritorno in camera. Accendo la tv e come sempre c’è Italia Uno a riempire i vuoti incolmabili di noi giovani annoiati-vogliosi-pipponi. Guardo attentamente Dawson che bacia Joey appassionatamente, mentre lei lo cornifica con Pacey, mentre amoreggia con la sua insegnante. Basta! Mi vergogno un po, spengo la tv e riguardo l’ora, sono le quasi le cinque. Mi alzo dal letto, gironzolo per la stanza, guardo fuori la finestra e vedo il nulla, il niente del mio povero quartiere, che sembra davvero un puglie tramortito, rimasto solo sul ring dopo l’ennesimo KO subito. Chiudo la finestra velocemente e scappo in soggiorno attraversando il corridoio.
Con la coda dell’occhio, in camera dei miei, noto sul comodino di mio padre un libro, giallo e nero. Mi avvicino lentamente come un felino che sta per agguantare la sua preda, entro piano e lo prendo. Leggo il titolo, GOMORRA, lo sfoglio un pochino, lo giro e vedo sul retro la foto di un ragazzo, pelato, bruttino, sofferente. ROBERTO SAVIANO, NATO A NAPOLI IL 22 SETTEMBRE 1979, GIORNALISTA E SCRITTORE. Guardo di cosa si tratta, camorra, appalti, nomi, cognomi, poi la porta di casa si sta per aprire, sono i miei, di già, furtivamente poso il libro e corro in camera mia, mi metto sul letto e faccio finta di dormire.

Salvo Barbaro.

John Wicker | lo scrittore del mistero | un talento da brivido.

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A breve uscirà il nuovo racconto della serie “I racconti del terrore di John Wicker”, un autore sensazionale.

Ma chi è John Wicker?

È bastato mettere online il suo primo racconto per scatenare l’interesse dei lettori che hanno, giustamente, riconosciuto in lui un talento innato.

John Wicker (1967) è uno scrittore italo-americano, nato da padre italiano e madre americana. È cresciuto nel Jersey, per poi trasferirsi in Piemonte, alla ricerca delle sue origini italiane.

Sicuramente il suo background letterario è prettamente americano, anche se il suo libro preferito è il capolavoro del nostro compianto Italo Calvino “Le Cosmicomiche”.

Ma cosa mi ha spinto ad intraprendere un percorso editoriale con questo autore, iniziando a pubblicare i suoi racconti?

Wicker leggeva i racconti del mio blog e rispose ad un mio vecchio annuncio, inviandomi il manoscritto “L’urlo del bosco”, chiedendomi un semplice giudizio.

Dopo aver letto le prime pagine, mi sono trovato davanti ad una sensazione che non sentivo dai tempi dei racconti di Poe. Non per similitudini o cose del genere, ma semplicemente perchè la forma estremamente diretta di questo scrittore riesce a trasportare il lettore all’interno della storia.

Non sono mai stato un fan della letteratura di genere, ma al posto del giudizio che mi era stato richiesto, dissi a John che secondo me quella roba doveva essere pubblicata subito.

Per questioni ovvie, iniziammo a sentirci frequentemente, ma John non ha Facebook ed è una delle persone meno tecnologiche del pianeta. Ha un computer e una mail. Stop.

Leggendo i suoi nuovi racconti, per l’editing e la creazione delle copertine, ho iniziato a notare una vena nostalgica nelle sue parole e gli ho chiesto di parlarmi del suo passato e della sua vita, anche per la bio da inserire nel blog, ma lui, sfuggente come al solito, ha iniziato a divagare, virando la conversazione su dei nuovi soggetti a cui stava lavorando.

Solamente qualche giorno fa, John ha iniziato a raccontare qualcosa di più sulla sua vita, rispondendo alla domanda: perchè hai iniziato a scrivere?

John ha iniziato a scrivere dopo aver perso sua moglie in un incidente stradale. Un evento tragico che ha fortemente influenzato quello che un giorno sarebbe diventato il suo stile.

Jennifer, sua moglie, era un’appassionata della letteratura di genere, mentre lui amava generi completamente differenti tra loro. La notte, prima di addormentarsi, erano soliti inventare storie dell’orrore che finivano sempre con catastrofi e finali terribili. Era il loro modo di scherzare.

Proprio per esorcizzare il finale terribile della sua storia con Jennifer, ha iniziato a scrivere, rielaborando su carta le sue sensazioni.

Detto questo, John è una delle persone più simpatiche con cui abbia mai avuto a che fare. La battuta pronta e un’ironia affilata come la lama di una spada ne contraddistingue la struttura dei suoi dialoghi, non solo nei racconti, ma anche nelle mail.

Vi consiglio vivamente di leggere sul vostro kindle, iPad, iPhone, computer e quant’altro, “L’urlo del bosco” disponibile in versione e-Book, perchè sono sicuro che questo autore riuscirà ad imporsi nell’immaginario dell’orrore con uno stile moderno ed estremamente incisivo.

A breve uscirà il suo secondo racconto per “l’Infernale edizioni” (realtà editoriale del blog).

Spero che questo autore possa terrorizzare anche voi.

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Tutto sarà riferito a John in persona, quando si degnerà di connettersi alla sua casella mail… maledetto a-tecnologico bastardo.

 

Ferdinando de Martino.

Ghost writer | Vuoi un lavoro da scrittore?

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Ghost writer, il lavoro dello scrittore fantasma.

In questo mondo nessuno ti regala niente e se vuoi lavorare come scrittore e meglio che abbandoni subito il  sogno di diventare ricco coi tuoi romanzi.

In Italia gli scrittori che vivono di libri si contano sulle dita di una mano e gli altri si dividono in due categorie, quelli che fanno dell’altro e vivono la scrittura come un hobby e quelli che invece sono disposti a scrivere merda.

Cos’è la merda?

La merda è la robaccia che giornalmente si è costretti a scrivere per guadagnare qualche soldo.

Su internet sono presenti decine e decine di articoli che spiegano come guadagnare facendo lo scrittore, illustrandoti passo per passo tecniche che sono semplicemente FUFFA.

Quasi tutti questi articoli sono scritti per guadagnare traffico e non fanno altro che sponsorizzare i differenti Content Marketplace che dovrebbero farti guadagnare come un dannato. Ecco… parlo per esperienza, guadagnare con i Marketplace è come svegliarsi e accorgersi di essere Kobe Bryant. Solamente a Kobe succede questa cosa.

Non voglio dilungarmi in spiegazione, quindi chiunque fosse interessato a sapere perchè i Content Marketplace sono merda, può benissimo chiedermi le motivazioni tramite messaggi privati.

Torniamo a bomba: come può lavorare uno scrittore?

In primo luogo è di basilare importanza crearsi delle credenziali atte a valorizzare il proprio nome nel mondo della creazione di contenuti.

Se avete pubblicato dei libri e gestite un blog (gestito giornalmente, non abbandonato come un Labrador in estate), le vostre credenziali saranno alla portata di tutti e se il vostro portale è molto visitato, potrete vantare delle ottime credenziali nel mondo della creazione di contenuti.

La tecnica migliore è la seguente: specializzatevi in un campo e aggiornatevi costantemente.

Io ad esempio gestisco un blog che parla prevalentemente di letteratura e attualità, in cui pubblico i miei racconti, i miei romanzi e delle tavole che disegno personalmente. Insomma… tutto quello in cui mi sono specializzato negli anni.

Inoltre parlo di libri di altri autori; libri che non ho letto, ma studiato e questo fa la differenza.

Leggere un libro è quello che fa un lettore, mentre studiare minuziosamente un’opera è quello che deve fare un creatore di contenuti.

Il tuo blog è la tua vetrina, ok… ma a cosa serve questa vetrina?

Questa vetrina serve a fare il ghost writer del web, ovvero un creatore di contenuti sotto falso nome.

La vita del creatore di contenuti non è per niente facile, credetemi, e certe volte vi sentirete alla soglia di un attacco di nervi per la mole di lavoro sottopagato che potrete trovarvi a dover macinare; ma nessuno vi ha puntato una pistola alle tempie dicendovi -Adesso fai il creatore di contenuti.-.

Questo è un lavoro basato sulla dedizione.

Il web è pieno di annunci per creatori di contenuti e cercare i seguenti annunci sarà molto facile, esattamente come sarà facile inviare delle mail di presentazione in cui potrete mostrare il vostro blog, i vostri romanzi pubblicati, le vostre tavole (se disegnate) e vedrete che prima o poi qualcuno vi darà del lavoro.

Rinunciare al diritto d’autore per pubblicare solito il nome di un cliente è un lavoro come un altro, ma bisogna dedicarcisi al centodieci per cento. Questo vuol dire abbandonare la vita sociale per uno stipendio da fame, da una parte, ma dall’altra vuol dire anche libertà, niente cravatta e ascelle pezzate sotto la camicia , oltre a lavorare con un iPad in riva al mare.

Posso garantirvi che ci sono almeno tre settori in grado di proporre mensilmente lavori a creatori di contenuti:

1 l’industria del porno letterario

2 Privati in cerca di biografi

3 Creatori di contenuti web (privati e testate)

L’unico consiglio che posso dare ad un eventuale ghost writer è il seguente: desisti e fai dell’altro, ma se proprio vuoi scrivere, fallo senza tregua.

 

 

 

Ferdinando de Martino.

Bruxelles | Ancora attentati | 13 morti

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Piove ancora odio sulle strade d’Europa. Bruxelles oggi conta almeno dodici morti, causati da due differenti attentati.

Per il momento non sembrano essere pervenute rivendicazioni riguardo alle esplosioni provocate all’interno dello scalo internazionale Zaventem e a due differenti fermate del metrò.

L’europa piange così le ennesime vittime di una guerra impalpabile e imprevedibile, dettata esclusivamente dall’odio.

L’attacco suicida fa pensare ad un’eventuale e plausibile rivendicazione dello Stato islamico, tuttavia per ora non ci sono certezze assolute, ma solo incertezze.

 

Ferdinando de Martino.

 

Vinyl | Sesso droga e Olivia Wilde |

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Cosa dire su Vinyl? Prendete Martin Scorsese, chiudetelo in una stanza con Mick Jagger, date loro una bottiglia di tequila e una macchina da scrivere ed ecco una delle serie tv più cool del palinsesto americano.

Di cosa parla Vinyl?

La serie gira attorno alla vita di un discografico di successo che inizia a vedere il suddetto successo sgretolarglisi davanti agli occhi. Trovare nuove band, per seguire il flusso del ricambio generazionale del mondo musicale attuatosi negli anni settanta, è di vitale importanza.

Il mondo che ci troviamo davanti agli occhi è quello di un epoca in cui Alice Cooper beve birra appena sveglio, Reed e Warhol dominano l’underground e la cocaina è ancora divertente.

La serie è stata stroncata da un sacco di riviste che farebbero meglio a tornare su argomenti più alla loro portata, come le scarpe da quattrocento dollari e cazzate analoghe… perchè qui si sta riscrivendo la storia del rock.

Andiamo… Jagger ci regala la sua visione della scena di quegli anni e noi ci mettiamo a fare le pulci al prodotto in questione?

Tutti gridano al cliché, al già visto un milione di volte e cose del genere. Io non grido,  perchè preferisco limitarmi a guardare questo splendido prodotto sul mondo dei vinili.

Nel caso non vi avessi convinto a dare una possibilità a questo splendido prodotto, lasciate che vi dica un ultima cosa: c’è Olivia Wilde che fa la sexy.

Non si tratta di un sexy tipo “sono Olivia Wilde e sono sexy”, no… qui si tratta di una sensualità ai limiti del surreale. Ogni sguardo, vestito e attitudine al modo di vedere quell’epoca spudoratamente pop è sensualità.

Poi, se resisterete fino alla puntata del vestito rosso… capirete di cosa sto parlando.

 

 

Ferdinando de Martino.

Mezzo cieco | Un racconto di Ferdinando de Martino |

Fu per colpa di un difetto congenito all’occhio che il nostro protagonista non si accorse dell’imminente impatto di una pietra sul suo viso.
Era nato così, con un occhio non vedente. Probabilmente non accusava più di tanto il trauma, in quanto essendo un problema che si trascinava dietro sin dalla nascita, non aveva mai avuto una concezione totalitaria del campo visivo.
È probabile che all’interno della sua testa fosse convinto che tutti quanti vedessero il mondo esattamente come lo vedeva lui.
Stava camminando lungo il ciglio del marciapiede, mentre il freddo batteva sul suo corpo come una serie di aghi acuminati, intinti in un ghiaccio anestetizzante. Era abituato a quel freddo. Viveva in strada da tredici anni.
I margini erano l’unica frazione di vita che conosceva realmente bene.
Come dicevamo, per via di quel difetto congenito, non vide la cattiveria arrivargli addosso, ma la sentì con estrema precisione infrangerglisi in testa.
Erano tre ragazzi, forse quattro. Avrebbe potuto incolpare il sistema, la società, magari qualche divinità, ma certe volte le cose accadevano semplicemente perchè, secondo qualche oscura meccanica, dovevano accadere.
Dopo il primo calcio nello stomaco si accasciò a terra, mentre una raffica di pugni in testa iniziarono a concimare la piantagione del suo dolore. Non si difese non per un mancato spirito di sopravvivenza, bensì perché oramai era troppo vecchio per farlo.
L’ esistenza non gli aveva mai sorriso e lui aveva smesso di mostrarle sofferenza per questo suo atteggiamento e la sua più grande occupazione era diventata la tolleranza.
Ciononostante era molto difficile tollerare la cattiveria gratuita.
Uno dei denti che gli erano rimasti, doveva essersi frantumato. Il sapore del sangue in bocca gli ricordava il gusto dell’acqua sporca.
Non aveva fatto niente per meritarsi quei colpi. Si era semplicemente trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Quei ragazzi si aggiravano tutti intorno ai diciassette anni, ma picchiavano come se ne avessero avuti almeno venti. C’era qualcosa di molto profondo in quel picchiare, quasi come se le botte non fossero dirette a lui, ma verso un’entità  indefinibile.
Come per ogni prima volta, anche in quel pomeriggio invernale, il nostro protagonista provò un dolore che non aveva mai provato prima. Gli sembrò quasi che un’esplosione gli si concentrasse sul collo.
Era troppo tramortito per capire che uno dei ragazzi aveva avuto la geniale idea di spegnergli una sigaretta addosso, proprio mentre si trovava accasciato a terra.
La vecchiaia non era una cosa che potevi nascondere facilmente. Forse ci riuscivano le Stelle di Hollywood, ma anche a loro prima o poi sarebbe risultato impossibile celare al mondo la loro fragilità.
La fragilità. La vecchiaia. La cattiveria. Lui aveva incontrato tutte queste cose in un giorno solo. Era decisamente troppo.
Per quanto possa risultare difficile da concepire, anche la cattiveria finisce per annoiare, se portata alle lunghe. Così, i ragazzi abbandonarono il corpo tumefatto sul quale avevano sfogato i loro spiriti adolescenziali e tornarono alle loro vite.
Arturo aveva un telefono da novecentocinquanta euro in tasca ed un motorino nuovo di pacca che diceva di aver rubato, mentre in realtà era stato il padre a comprarglielo sotto pressione della madre che non voleva che il figlio girasse in autobus, quando il secondogenito dei Borghetti, dirimpettai del loro piano, andava a scuola con uno scooter d’ultima generazione.
Fede era un giocatore di pallacanestro e aveva avuto tutto dalla vita, eccezione fatta per un’incapacità innata nel parlare con le donne.
Ognuno di loro aveva una sua storia, ma forse è il caso di ritornare al vero protagonista di questo racconto.
Carl se ne stava sdraiato a terra. Era una consolazione molto magra, ma quando nella tua vita non hai mai conosciuto realmente il bene, il male che ti viene inflitto ferisce molto meno.
In quel caso, nonostante il bene e Carl non si fossero mai incontrati per davvero, il dolore si fece via via più lancinante. I reni, forse un polmone, le costole… tutto gridava, eccetto la voce.
Non sarebbe mai riuscito a gridare realmente.
Quel pomeriggio, Bruno era di ritorno dal suo viaggio di lavoro ed il telefonino gli si era scaricato a furia d’inviare e scaricare e-mail, durante il tragitto della tangenziale. Aveva rischiato più volte di finire contro le altre macchine, ma era sempre stato un uomo dai pronti riflessi.
Grazie a quella prontezza d’animo, riuscì a notare la sagoma tumefatta e dolorante di Carl, accasciata lungo il marciapiede. Fermò l’auto e scese.
-Cristo santo.- disse, pensando che proprio quel giorno tra tanti, il cellulare aveva deciso di abbandonarlo per sfortuna divina.
-Cerca di stare calmo…- sussurrò, -Adesso ti sollevo e ti porto nella mia macchina.
Sollevare un peso morto era difficile, specialmente con la paura di ferire oltremodo un corpo che era già stato ferito abbastanza.
In maniera molto distratta, Carl iniziò a capire cosa fosse il bene. Non è che ci ragionò sopra, ma si fece trascinare dal flusso esattamente come si stava lasciando trascinare verso l’automobile di quello sconosciuto.
Con una manovra quasi eroica, Bruno riuscì ad aprire la porta posteriore del veicolo senza mollare il corpo.
Non pensò nemmeno per un istante a coprire i sedili per evitare che il sangue sporcasse gli interni. Il tempo doveva essere un suo alleato e non un impedimento. Dopo aver appoggiato una mano al volante, accese una sigaretta e mise in moto, schizzando a velocità sostenuta lungo la strada che portava verso casa sua.
La moglie di Bruno era un’infermiera e avrebbe sicuramente aiutato Carl. Era un casino abitare così lontani da tutto, ma con l’arrivo del secondo figlio i due coniugi sentirono il bisogno di cambiare zona, per far crescere i ragazzi nel verde.
Non accese la radio, perchè non gli sembrava il caso d’infastidire l’ambiente.
Carl capì che quella persona era diversa da quelle che l’avevano ridotto ad un passo dalla grande fine, sebbene Carl stesso non avesse un chiaro concetto della fine.
Certe volte due entità, senza una reale motivazione, finiscono per incontrarsi. C’è chi chiama questo procedimento: destino.
Bruno non credeva nel destino. Nella sfiga ci credeva eccome, ma il destino per lui era una delle tante stronzate new age che si propinavano alle casalinghe disperate per far comprare loro dei libricini del cazzo, inerenti ad una qualche filosofia orientale dalle radici millenarie, scoperta solamente un paio di giorni prima della pubblicazione del suddetto manuale.
Carl non aveva una sua opinione a riguardo.
Una volta parcheggiata l’auto davanti casa, Bruno scese, aprì la porta posteriore e afferrò il suo paziente, cercando di non premere troppo sui punti insanguinati.
Carl si sentì a casa. È terribilmente difficile da spiegare questa cosa a chiunque non abbia passato tredici anni per strada, ma non appena la porta dell’automobile venne aperta, Carl si sentì nuovamente a casa.
Il freddo era una costante nella sua vita. Il caldo era una cosa che arrivava d’estate, ma la notte anche durante quel periodo si faceva fredda certe volte. In parole spicce, il cambiamento climatico repentino era una sensazione che non riconosceva come casalinga.
Per Carl il freddo cominciava all’inizio dell’inverno e finiva con l’arrivo della primavera e per tutta la durata dei mesi invernali, lui abitava nel freddo.
In quella macchina, con il freddo chiuso fuori ermeticamente, si sentiva allontanato da casa.
Bruno trascinò quel corpo sporco e dolorante sotto la veranda della sua abitazione, posandolo a terra.
-Dove diavolo finiscono sempre le chiavi?
Sparivano sempre. Come se all’interno della sua giacca comprata all’Upim sottocosto, ci fosse un buco nero in grado di farle sparire e riapparire al di fuori di ogni logica razionale.
-Eccole.- disse.
Dopo essere entrato, richiuse la porta dietro di sé, mentre Carl iniziava a perdere il suo sguardo oltre le siepi ben curate di quel giardino in cui la libertà assumeva una connotazione che non avrebbe potuto capire nemmeno in un milione di anni.
La pioggia. Quando arrivava era sempre capace di tranquillizzarlo, se si trovava al di sotto di qualche copertura di circostanza.
Il paese cantava e lo faceva attraverso quelle gocce che s’infrangevano sull’asfalto, sui prati e nei giardini ben curati come quello al di là di quella veranda.
Si sentiva un gran vociferare all’interno di quell’abitazione.
Carl riconosceva i “qualcosa”. Quando c’era del trambusto nell’edificio della scuola del paese, stava per succedere qualcosa. Lo stridente suono di gomme che strisciavano… qualcosa. Qualcosa.
La porta si aprì.
-Piccolo… ma è ferito, papà?- chiese Giulio.
-Si tesoro… non accarezzatelo tu e Sandro. Dobbiamo pulirlo bene con la mamma, ma prima bisogna medicarlo.- rispose Bruno, accendendo una sigaretta.
-Possiamo tenerlo? È solo.
-Ne parleremo dopo… adesso lasciamo che la mamma lo rimetta in sesto.
Di tutto quello che stava succedendo, Carl non capiva praticamente niente. L’unica cosa che percepiva in maniera netta era una specie di cambiamento.
Aveva un dolore lancinante ad un’anca, dolore che si faceva molto intenso ad ogni scatto di coda, tuttavia non riusciva a smettere di muovere lentamente quella parte del suo corpo.
Fu in quel preciso istante, proprio quando la mano di Giulio incontrò per la prima volta il collo di Carl, che il vecchio cane capì che quella appendice pelosa non era solamente un problema da gestire nelle zuffe per un tozzo di pane.

Ferdinando de Martino.

Notte pallida |

Notte pallida. Le notti pallide sono quelle in cui tutto il mondo sembra procedere verso una direzione ben precisa, mentre tu rimani perfettamente fossilizzato in un limbo che non si capisce se sia presente o passato.
Devo proprio comprarmi un gatto. Un cane è troppo impegnativo, mentre un gatto si può fare; quelli cagano nella sabbia per cacca di gatto, quindi non li devi portare fuori.
Certo, poi la casa inizia a puzzarti di gatto, ma la solitudine potrebbe diventare meno pesante.
Non credo che sia giusto utilizzare il termine pesantezza quando si parla di emozioni. Forse dovrei prendere le medicine. Dovrei assolutamente prendere le medicine.
Fanculo. Chissà chi era quella ragazza? Non riesco proprio a ricordare dove l’abbia vista.
Me ne stavo a inventare cazzate su Federica per farmi aiutare da Alex a scaricare le casse di Puma Cola, gli ho detto che avrebbe senza dubbio dovuto dire a Federica che era un attore teatrale, quando all’improvviso l’ho rivista dalla vetrata. Giuro, sono sicuro di averla già vista da qualche parte, ma non riesco proprio a riordinare le idee in testa.
Poco importa, siamo un fottio di abitanti su questo pianeta disperato e una faccia in più o una faccia in meno non farà certo la differenza.
Era una gran fica però, proprio una gran fica. Del tipo che scopano male. Solo le brutte scopano bene e questo si sa.
Che poi questo ragionare nell’ottica del bello e del brutto mi è sempre stato sul cazzo, perché le persone come Marta, ad esempio, ne escono sempre male, quando in realtà dovrebbero essere quelle come lei a vincerla su tutte quelle fichette rinsecchite stile Miss arredamento per interni duemila-e-qualcosa.
Si, perché quelle stronzette egocentriche e viziate dall’amore del genere umano, prima o poi dovranno fare i conti con la vecchiaia, a meno che non optino per un colpo in canna e fine dei giochi. Insomma, quando saranno brutte e vecchie, gli uomini capiranno che il carattere da figa numero uno del pianeta è una bella rottura di palle quando non c’è dietro un bel culetto sodo a sorreggere tutta quella merda.
Da vecchia Marta rimorchierà un casino, ne sono sicuro. Chissà io come sarò da vecchio?
Medicine. Acqua. E adesso che cazzo leggo?
Trovare qualcosa da leggere di non interessante sta diventando troppo difficile. Sì, perché se uno ci riflette bene, nulla è superfluo. Non è che tu ti metti a leggere “Tre metri sopra il cielo” e ti addormenti, anche lì per forza di cose c’è una costruzione dei personaggi e roba del genere. Non si possono ignorare queste cose, No?
Con chi cazzo parlo? Da solo? Devo proprio comprarmi un gatto.
Potrei sempre farmi leggere qualche cazzata dal Mac, con quella sua voce robotica da segretaria sensualmente in calore.
Magari un De Lillo, sì, un De Lillo va sempre bene. Magari non White Noise che mi sale la paranoia e mi butto a volo d’angelo giù dal terrazzo e, tra l’altro, non farei altro che la figura del testa di cazzo perché abito al primo piano rialzato. Fanculo.
Con quella ragazza ci siamo scontrati e non riesco proprio a ricordare dove… ma dove l’ho vista?
Jane Austen… perché? Perché proprio Jane Austen? C’è qualcosa nel mio modo di ragionare che certe volte mi fa saltare i nervi. Cristo santo.
Tazza di orzo e youtube; notte pallida risolta.
Certo che fa quasi male pensare a come sono arrivato fin qui. Sono le cinque passate, tutti quelli con cui sono cresciuto staranno dormendo. Medici, avvocati, impiegati, tutti sono le coperte. Devo proprio essere l’unico stronzo che non riesce a prendere sonno dopo il turno del suo lavoro del cazzo, post litio.
Il litio si prende tutto. Cosa mettiamo su youtube? Qualche video di fisica? Un concerto di musica classica da piazzare in cuffia? Aspetta… ma… quella lì è… cioè, uno si scervella ore ed ore per cercare di ricordare il volto di una persona e poi se lo ritrova a fissarlo dai video consigliati su youtube. Recensione “Orgoglio e pregiudizio”.
Quanto diavolo sono piccoli i mondi? Quelli virtuali e quelli reali. Un quarto d’ora di celebrità, ma tutti quanti dobbiamo prendere la carta da culo al supermercato per non macchiarci le mutande.

Tratto da Market 24

Per leggere l’intera opera clicca: OPERA INTERA

Ferdinando de Martino.

Filosofia da bar | BAR E PAZZIA | Socrate il pazzo

diogene

Quando ero ancora un pischello mi capitò di assistere ad una scena che solamente adesso riesco a capire realmente.
Mi trovavo a Torino, avevo assistito da poco ad un concerto dei Sex Pistols ed ero assonnato, mezzo stordito dalle canne e, cosa da non sottovalutare, inebriato dall’aver visto dal vivo quel gruppetto di uomini che negli anni passati avevano dato vita ad un genere che era riuscito ad infondere coraggio a svariate generazioni di sociopatici.
Arrivato in stazione notai un ragazzo, si muoveva in silenzio nel bel mezzo di una marmaglia di pseudo punk addormentati, tenendo in mano un accendino.
Dal nulla, illuminato dal suo accendino iniziò a gridare a squarciagola -SVEGLIA!-, facendo un baccano tale da svegliare tutti quei ragazzi insonnoliti.
Quel ragazzo è un mio amico… uno dei tanti Diogene da bar.
Ebbene sì, siamo arrivati a parlare di uno degli esponenti da me più amati della filosofia antica: Diogene di Sinope, conosciuto anche come Socrate il Pazzo.
Esattamente come il mio amico, anche Diogene di Sinope se ne andava in giro per la città con un oggetto atto a fare luce, mi pare fosse una lanterna. La differenza era che il Socrate pazzo era solito utilizzare la suddetta lanterna di giorno e non di notte come avrebbe fatto un qualsiasi altro essere umano.
Quando la gente gli si avvicinava per chiedergli cosa stesse facendo con quella lanterna in pieno giorno, secondo Diogene Laerzio (da non confondersi col Diogene in questione), lui era solito rispondere -Cerco l’uomo.-.
Che risposta fenomenale. Cerco l’uomo. L’uomo era ed è sotto gli occhi di chiunque, ma gli artifizi, le costrizioni auto indotte, la vita all’interno di una società basata su dei canoni che snaturavano e snaturano l’uomo, fa si che risulti molto difficile trovare un “vero uomo”.
Questo ragionamento potrebbe sembrare poco veritiero, quindi per provare a spiegare quanto questa linea di pensiero sia veritiera, mi basterà farvi un piccolo esempio.
Siete mai andati allo zoo? E al circo? Ecco. Avete mai pensato, guardando un elefante giocare con un pallone -Io non ho mai visto un elefante!-.
Personalmente mi è successo. Mi sono trovato al circo e ho visto un elefante e al contempo ho pensato -Questo non è un elefante. Gli elefanti non giocano a palla.-.
Quindi è possibile vedere un elefante senza effettivamente vedere un elefante, infatti Diogene nel dire -Cerco l’uomo.- intendeva dire -Cerco l’uomo che non si sia adattato alla cattività.-. La ricerca del Socrate pazzo era quella dell’uomo “vero”.
Io credo di non aver mai conosciuto nessun uomo vero, tuttavia posso asserire di aver visto uomini e donne muoversi verso la verità in brevi momenti della loro vita.
Se la vediamo con cinismo (non inteso nell’accezione pessimistica contemporanea) l’uomo si avvicina decine e decine di volte al giorno alla verità, per poi tornare immediatamente nel “non vero”.
Quando l’uomo si avvicina al vero? Prendete tre amici al bar, ognuno di loro avrà in tasca un telefonino con annessa telecamera; chi avrà una telecamera da 7 mega pixel, chi da 4, 6 e chi più ne ha più ne metta. Provate a chiedere ad ognuno di loro cos’è un pixel e attendete la risposta. La maggior parte delle persona non saprà darvi la definizione corretta di pixel.
Il tecnologico del gruppo probabilmente saprà spiegarvi che con il termine pixel si indica l’insieme degli elementi puntiformi che rappresentano un immagine visualizzata da un dispositivo elettronico.
Quando parliamo di mega pixel, invece, ci si riferisce al raggruppamento di un milione di pixel, quasi sempre in rapporto ad una macchina fotografica digitale o un apparecchio mobile dotato di fotocamera annessa.
L’uomo contemporaneo è capace di possedere 7 megapixel in tasca ed ignorare il significato. Per molti di voi questa potrà sembrare una cosa perfettamente normale, ma se proviamo a sostituire il termine megapixel con il termine “castelli”, il gioco cambierà.
Come giudichereste una persona che pur possedendo sette milioni di castelli, ignori cosa voglia dire “castello”?
Questo è l’uomo contemporaneo: un’entità che mira più al possesso che alla comprensione, mentre la natura dell’uomo dovrebbe essere per natura curiosa.
Questa involuzione è probabilmente dovuta alla cattività in cui l’uomo vive; cattività che ha trasformato l’uomo in un non-uomo. Per questo Diogene si aggirava disperato alla ricerca dell’uomo in mezzo all’uomo.
In rarissime occasioni ho visto uomini fuggire da questa estenuante ricerca del possesso per dirigersi verso la contemplazione del tutto e dell’importanza di ciò che lo circonda in relazione con se stesso. Tuttavia, quando in un bar, alleggerito da un bicchierino di troppo, un uomo inizia a domandarsi se sia giusto possedere così tanto senza nemmeno concepire il significato del “tanto” che si possiede, quell’uomo diventa uomo per almeno qualche istante.

Fine.

Vi ringrazio per aver letto questo saggio sull’infernale e spero che la vita vi sorrida in maniera filosofica.

Ferdinando de Martino

Aspetta primavera Villa |

I colori dei locali si somigliano tutti nella mia memoria. Forse questo è dovuto al fatto che le sfumature dei liquori attenuano i ricordi, schiarendone le tinte, instaurando nei nostri cervelli una sorta di qualunquismo mnemonico.
I colori sono simili… le persone no.
Fu così che Villa si avvicinò a me. Sguardo vivo e un sorriso accennato.
-Ma sai che questa ragazza si chiama Bandini? Come Arturo Bandini.
-Cristo santo. Probabilmente è il più bel cognome della storia.
-Sì… e pensa che non lo conosce.
-Cazzo.
-Giuro.
-È strano, ma mi sembra di ricordare che non siamo mai finiti a parlare di Fante.
-Incredibile. È senza dubbio il migliore della sua generazione.
Villa sgrana gli occhi, un po’ come quando si parla di una persona estremamente vicina a noi, ma solamente in senso metaforico. È un tipo di contatto che in pochi riescono a capire e quei pochi hanno sicuramente letto Fante.
-Sai… Fante l’ho conosciuto per via di una ragazza che lo leggeva ed è stato subito amore a prima lettura. È un qualcosa che va oltre al semplice appassionarsi.- dice, appoggiandosi al muro -Spesso parlo con persone di letteratura e se capisco che sono prive di quella sensibilità, non butto mai sul tavolo delle argomentazioni Fante, preferisco parlare di Ammaniti… ma non di Arturo Bandini.
-Ti capisco alla perfezione.
E lo capivo davvero. Fante è l’archetipo dello scrittore che seduce l’italiano. Non vorrei esagerare, ma non credo che gli accademici della crusca o i letterati perdano tempo a leggere la roba di questo umile artigiano della letteratura; probabilmente sono troppo impegnati ad analizzare parole come petaloso (per inciso, vorrei sottoporgli un neologismo atto a descriverli: cristo\del\loro\dio.)
Quindi, non vorrei spararla grossa, ma secondo me Fante dovrebbe essere motivo d’orgoglio per la nostra gente quasi quanto Dante.
Dal nulla iniziamo a parlare, io e il socio Villa, un po’ come se le storie di Fante le avessimo vissute noi.
-Ti ricordi quella volta coi granchi?- e -E quella con il padre?-, ancora -E la messicana?
Questo era John Fante: uno scrittore in grado di scolpirti nella memoria i suoi ricordi, quasi come se fosse più un Michelangelo delle memorie che un semplice scrittore.
Io ho amato le donne di Fante. Giuro. Ho fatto l’amore con loro, ho litigato con suo padre, ho portato a spasso il suo cane Stupido e ho provato l’odio degli altri sulla mia pelle.
Io sono John Fante, Villa è John Fante, esattamente come molti altri stupidi e zotici italiani, fieri di parlare di una cultura che non deve, per forza di cose, mettere in imbarazzo le persone con paroloni difficili, perchè se una frase non ti arriva dritta al cervello, percorrendo meno strada possibile, quello scrittore ha sbagliato mestiere.
Un parolone è come una spada troppo pesante per essere brandita. Pensate ai ninja… loro usano spade piccolissime e spaccano i culi lo stesso, no?
Fante era un ninja, mentre gli altri sono dei barbari guerrieri medievali, biechi e ignoranti.
Uno scrittore raffinato, ma con la camicia sporca di vino. Un poeta vecchio stampo, di quelli che oramai non se ne trovano più.
Villa sembrava perso nei suoi ricordi, mentre io ero perso nei mei e i nostri ricordi si mescolavano, dimostrandoci che si può vivere nello stesso mondo senza mai incontrarsi. Villa era stato a Los Angeles nel periodo in cui anche io e Fante eravamo lì, ma non avevamo mai incrociato i nostri sguardi.
Tutto per ritrovarci in un bar a Genova, chiacchierando del più, del meno e di un genio.

 

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Ferdinando de Martino

 

Frammenti della generazione x |Ferdinando de Martino

basq

 

-Sai cosa? Certe volte penso che ci sia una sorta di piano divino secondo il quale quelli come noi devono, per forza di cause maggiori, vivere ai margini.
-Tipo le caste degli indiani?
-No… quelle le hanno decise gli uomini, io parlo di qualcosa di più trascendentale. Tipo il grande vecchio con la barba che se ne sta lassù, bello spaparanzato, a guardarci mentre ci scotenniamo a vicenda in un paese africano del cazzo, mentre arranchiamo per arrivare a fine mese in periferia, mentre esplodono le bombe e cazzate del genere.
-E quale sarebbe il nome della nostra casta?
-Quella dei fottuti.
-Mi piace. Passami lo spino.
-Sì… la casta dei fottuti. Infanzia da fottuti, adolescenza da fottuti, gioventù, maturità e vecchiaia da fottuti.
-Lo sai che ci pensavo proprio l’altra notte? È buffo. Stavo mettendo a posto i cartoni del latte e mi sono detta — Cazzo Marta… sei proprio fottuta!—.
-Esatto, è questo quello che intendo. Fottuti.
-Siamo tutti fottuti… anche loro.
-No, loro no. Loro riescono. Riescono sempre e comunque; chissà come cazzo fanno?
-Dobbiamo proprio sembrare patetici, visti dall’esterno. Una cicciona e un tipo tutto tatuato che fumano una canna d’erba dentro le uniformi verde pisello del supermercato notturno.
-Sembriamo dei vampiri proletari. Solamente gli scoppiati fanno la spesa a quest’ora! Chi cazzo vuoi che ci veda.
-Siamo invisibili.
-Ci vorrebbe una bella idea.
-Sì… non ho mai avuto belle idee. Ho avuto idee pessime, idee stupide, idee del cazzo, idee idiote e idee più stupide delle stupide standard, tipo uscire con quel ragazzo.
-È andata male?
-Come vuoi che sia andata? Sono una cicciona di merda. Le altre ragazze passano gli appuntamenti ad impedire che i ragazzi le infilino le mani dappertutto, mentre io devo quasi scongiurarli per farsi fare un pompino. Certe volte mi sento così umiliata.
-Io lo accetterei senza tanti complimenti un pompino da te.
-Grazie… è la cosa più romantica che mi sia mai stata detta.
-Eh, sì, è tutto come in Romeo e Giulietta.
-Non c’è niente di simile a Romeo e Giulietta nella nostra vita.
-Appunto… io Romeo e Giulietta l’ho sempre e solo guardato, esattamente come ho sempre guardato la vita: da spettatore.
-Sei la persona più intelligente che io conosca. Non capisco proprio perché tu sia finito qui.
-Perché sono una testa di cazzo. Un antisociale di merda.
-Tra poco dobbiamo riprendere a lavorare.
-Io quella lì la conosco.
-Chi?
-Quella. Cazzo, dove l’ho vista?
-Davvero? Dove l’ho vista? Non basta dire che te la vorresti fare con tutto te stesso? È una fica senza senso.
-Ok, è una fica senza senso, ciò non toglie che non mi ricordi dove l’abbia vista. Cazzo, non so perché l’associo a… a…
-Al pezzo di fica che è?
-No… l’associo a Jane Austen.
-Ok, associ quel pezzo di fica allo scrivere male. Tu sei da ricovero.
-La Austen non scriveva male.
-Che femminuccia che sei, Alf.
-Dai, attacchiamo?
-Sì, quest’erba mi ha proprio stonata.
-Un bel caffè non ce lo toglie nessuno.
-Ci serve una cazzo d’idea.

Dove diavolo l’ho vista? Non riesco proprio a ricordarlo.
Solitamente quando si vede un volto conosciuto si ricorda il luogo di un incontro o cose del genere, non Jane Austen. Perché poi proprio Jane Austen?
Detesto il reparto frutta e verdura con il suo sistema nazista di catalogazione per etichettatura che mette in imbarazzo i clienti.
Io non compro mai la frutta al supermercato, proprio perché mi sta sull’anima tutta questa storia dei guanti, dei sacchetti e dei pulsanti. È una rottura di palle innegabile.
Uno quando vuole fare la spesa non ha voglia di gettarsi in operazioni complesse e, soprattutto, non ha voglia di sentirsi uno stupido; per quello c’è già la vita.
Il reparto frutta e verdura è razzismo alimentare allo stato puro. La carne ha degli addetti, il pesce ha degli addetti e la verdura no. Per la verdura devi metterti un guanto, scegliere la qualità migliore, infilarla in un sacchetto, pesare il suddetto sacchetto e, infine, tornare al punto di partenza per leggere il codice che sicuramente non ricorderai mai, per inserirlo nella macchina sputa-scontrini.
Che palle. Sinceramente consiglio a tutti di fottere i supermercati con il peso. Se prendete un casco di banane, pesatene solamente una e facendo così, di banana in banana riuscirete a creare una voragine economica partendo dal dettaglio, costringendo gli alimentari dell’intero pianeta ad eliminare le macchine sputa scontrini, mettendo finalmente dei reparti frutta con degli addetti.
-Alfonso.- dice la voce stridula.
Solamente lui mi chiama Alfonso. Gli avrò detto milioni di volte —Chiamami Alf, perché Alfonso è da vecchio.—, ma lui… niente. Cazzo di voce stridula che non si può sentire.
-Dimmi pure.
-Ci sarebbe da portare le Puma Cola nel magazzino.
-Ok, finisco qui con la cassa della verdura e vado.
-Grazie mille, Alfonso.
-Non c’è di che. Certo che tu lo prendi proprio seriamente il tuo lavoro, eh?
-Certo, sai… un capo reparto ha tutto sulle sue spalle. È un lavoro con una certa rilevanza.
-Fai sul serio?
-Ognuno di noi qui dentro è un piccolo ingranaggio e quando tutti gli ingranaggi sono ben oleati, la macchina va bene, ma basta un piccolo ingranaggio difettoso per far saltare tutto in aria.
-Non credo che le macchine saltino in aria per un ingranaggio difettoso. Quella roba succede solamente nei film americani che ti piacciono tanto.
-Lo sai, Alfonso, che anche Brad Pitt ha iniziato lavorando in un supermercato?
-Ma dai, questa non la sapevo.
-Sai… non ci tengo a spargere la voce, ma una scuola di teatro mi ha ammesso ai suoi corsi. Hanno detto che sono talentuoso. Capito? Talentuoso.
-Wow, non dovresti tenertele per te tutte queste cose, dovresti dirle… soprattutto alle donne. Secondo me, ad esempio, dovresti dirlo a Federica… ti guarda sempre.
-No… dici che Federica mi guarda?
Il più grande talento dell’essere umano sta nel subordinare, pensate ad Hitler o a Charles Manson.
-Guarda, io so delle cose su Federica… facciamo così, vieni con me fuori, facciamo finta che io abbia bisogno di una mano per scaricare le Puma Cola e intanto ti racconto quello che ho scoperto su Federica. Ok?
-Grande, amico.

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Tratto da “Market 24” di Ferdinando de Martino.

Potete leggere l’intero romanzo cliccando sul link: LINK AL ROMANZO INTERO

Market 24 | il romanzo del web |

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Ecco a voi “Market 24”, un romanzo nato per il web.

I capitoli sottostanti delineano la prima parte del libro. Le parti saranno tre e verrano caricate tutte qui sul blog.

Se il progetto vi piace e se lo trovate interessante, vi chiedo il grande favore di condividerlo sulla vostra pagina Facebook e di consigliarlo ai vostri amici, perchè il web si basa sul passaparola mediatico e senza di questo è destinato a morire nel nulla.

Senza ulteriori indugi, ecco “Market 24”.

Buona lettura.

 

capitolo 1 market 24

capitolo 2 market 24

capitolo 3 market 24

capitolo 4 market 24

capitolo 5 market 24

 

 

Ferdinando de Martino.

 

MARKET 24 | il romanzo del web | Presentazione

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Com’è difficile parlare dei propri lavori…
Partiamo dal principio: avere un blog non serve a niente se non ci butti dentro materiale inedito.
Come molti di voi sanno, è da poco uscito il mio nuovo romanzo “Uroboro”, acquistabile dal sito di Eretica Edizioni. Scrivere Quel libro mi è servito per dimostrare di non essere un totale imbecille, vittima del postmodernismo e degli echi della beat generetion. Scrivere un romanzo lineare è stato divertente e gratificante e spero che il libro possa piacere a chi l’ha acquistato e a chi l’acquisterà in futuro.
Ci tengo a ringraziare chiunque abbia comprato i miei libri o supportato questo piccolo sito, perchè per quanto possa risultare stupido, non è per nulla semplice giocare a fare lo scrittore. È un lavoro estenuante, credetemi, ma nessuno mi ha puntato una pistola alla testa dicendomi -Distruggi la tua esistenza davanti ad un computer mentre gli altri vivono la vita vera.-, quindi è stata una scelta del tutto libera.
Mentre leggerete questo articolo, starò caricando sul blog un libro dal titolo “Market 24”.
Perchè? Semplice: perchè il mestiere dello scrittore è quello di arrivare al pubblico e per quanto ci piaccia credere che meno sei mainstream, più sei geniale, questa versione delle cose differisce molto dalla realtà.
La connessione tra la testa dello scrittore, nel momento in cui ha scritto il libro, e la testa del lettore nel momento in cui legge le parole su carta o foglio elettronico, è l’unico punto d’arrivo.
“Market 24” è un romanzo postmoderno di genere. Ecco… l’ho detto.
È un (tappatevi gli occhi intellettuali) thriller. Tuttavia, non vi saranno le solite scorciatoie e cazzate del genere appena citato, in quanto l’opera è a tutti gli effetti un lavoro singolare.
La storia c’è, ma non è il soggetto, perchè il soggetto sono i soggetti. Ganzo il gioco di parole, eh?
Il romanzo è stato pensato per il web, seguendo il modus operandi di Netflix, ovvero, avendo terminato la prima parte (di tre), ho deciso di caricarla interamente sul sito, dandovi l’opportunità di seguire il lavoro come e quando volete. Potrete leggerlo tutto d’un fiato, oppure frazionare la lettura secondo i vostri ritmi di lavoro.
Come dicevo, la storia è interamente narrata dal punto di vista dei singoli protagonisti, come se il lettore entrasse nella testa di ogni personaggio, ascoltandone i pensieri. Questo renderà difficile seguire la trama, semplificando però l’empatia. Questo è l’obbiettivo di “Market 24”, raccontare i personaggi più che la storia; impresa estremamente difficile per un romanzo di genere.
Ogni capitolo parlerà delle ore relative alle singole giornate dei personaggi, nell’arco di alcune settimane, regalandovi la prospettiva di ogni carattere all’interno dello stesso contesto.
Ogni personaggio avrà il suo modo di esprimersi e pensare, seguendo il tanto amato da noi feticisti della parola scritta, flusso di coscienza.
Ci sarà un pazzo, un altro pazzo un po’ più pazzo del primo, una youtuber, una cassiera, un poliziotto e… altri personaggi nella seconda parte, in produzione.
Ecco fatto. Adesso, dopo aver svelato tutto, mi sento molto più libero e felice di condividere con voi questo materiale inedito.
Anche perchè mi sembra maleducato produrre solamente cose a pagamento, sebbene io debba comunque mangiare, senza coltivare il blog come se fosse un lungo romanzo in continuo sviluppo.
Detto questo, non crediate che i lavori piovano dal cielo a noi scrittori, anzi… non piovono mai e quelli che piovono sono quasi esclusivamente cazzate erotiche e per cazzate erotiche, intendo: porno. Sì, per tirare a campare ho scritto anche porno.
Non voglio rubarvi altro tempo…
Se volete comprare il mio libro, potete comprarlo e spero che Ermand, il suo protagonista, possa allietare le vostre ore di lettura; mentre se volete leggere “Market 24”, dovrete semplicemente fare un giretto sul mio blog e iniziare la lettura.
Spero perdonerete gli eventuali refusi, dovuti alla produzione indipendente del lavoro e la narrazione scostante, dovuta all schiettamente postmoderna linea di prospettiva.

Ciao e grazie.
Ferdinando de Martino.