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Come nasce uno scrittore? | Sublime solitudine | di Salvo Barbaro

salvo

20 Aprile 2006
E’ un giovedì pomeriggio, sono quasi le quattro e mi trovo a casa nella quiete più assoluta. I miei genitori sono usciti per delle commissioni, “evento alquanto straordinario”, mia nonna e mio zio sono fuori per la loro solita passeggiata pomeridiana. Mio fratello è a lavoro.
Finalmente sono solo, rinchiuso nelle “mie” quattro mura, assorto nei miei più assurdi e sconfinati pensieri di giovane-adulto-lavoratore-tempo-determinato. Ho finito da poco più di un’ora di lavorare, operaio addetto alla depurazione delle acque reflue in un’azienda vitivinicola della mia città natale. Sono stanco, cerco disperatamente di riposarmi sul mio letto accomodato con cura dalla nonna. Appoggio la testa al morbido cuscino, guardo il soffitto, sto per chiudere gli occhi e suonano al citofono. Impreco, mi alzo, vado alla porta e rispondo molto scocciato. Dall’altra parte una voce femminile, suadente e devo dire molto bella che mi dice -Salve, lei crede in Dio?
Resto in silenzio per circa quaranta secondi, poi esclamo –Beh, non so, bella domanda. Comunque ho da fare arrivederci.-
Chiudo la conversazione, impreco di nuovo e mi rimetto a letto. Non chiudo occhio, ho una sensazione strana. Sono troppo emozionato per così tanta solitudine, troppo bella questa occasione per buttarla in due ore di sonno inutili. Mi alzo, vado in cucina, apro il frigo. Cerco disperatamente qualcosa da mettere sotto i denti, rovisto tra prosciutto crudo, prosciutto cotto, formaggi, succhi di frutta, acqua gasata, ma niente che possa soddisfare la mia fame da noioso-voglioso-di-dolci.
Idea, apro il freezer e ecco spuntare davanti a me l’essenza della golosità, il sublime piacere del palato, Magnum Algida. Lo addento ancora ghiacciato, lo guardo fisso mentre sembra implorarmi pietà, ma niente… la mia furia è inarrestabile. Dopo nemmeno due minuti, di lui resta solo lo stecchino di legno, bagnato della mia saliva, dalla mia voglia e del mio orgoglio. Lo getto con calma olimpica e un dubbio “vorticoso” mi assale, e ora? Che cazzo faccio? Sono appena le quattro e trenta. Ok, bevo un sorso d’acqua e ritorno in camera. Accendo la tv e come sempre c’è Italia Uno a riempire i vuoti incolmabili di noi giovani annoiati-vogliosi-pipponi. Guardo attentamente Dawson che bacia Joey appassionatamente, mentre lei lo cornifica con Pacey, mentre amoreggia con la sua insegnante. Basta! Mi vergogno un po, spengo la tv e riguardo l’ora, sono le quasi le cinque. Mi alzo dal letto, gironzolo per la stanza, guardo fuori la finestra e vedo il nulla, il niente del mio povero quartiere, che sembra davvero un puglie tramortito, rimasto solo sul ring dopo l’ennesimo KO subito. Chiudo la finestra velocemente e scappo in soggiorno attraversando il corridoio.
Con la coda dell’occhio, in camera dei miei, noto sul comodino di mio padre un libro, giallo e nero. Mi avvicino lentamente come un felino che sta per agguantare la sua preda, entro piano e lo prendo. Leggo il titolo, GOMORRA, lo sfoglio un pochino, lo giro e vedo sul retro la foto di un ragazzo, pelato, bruttino, sofferente. ROBERTO SAVIANO, NATO A NAPOLI IL 22 SETTEMBRE 1979, GIORNALISTA E SCRITTORE. Guardo di cosa si tratta, camorra, appalti, nomi, cognomi, poi la porta di casa si sta per aprire, sono i miei, di già, furtivamente poso il libro e corro in camera mia, mi metto sul letto e faccio finta di dormire.

Salvo Barbaro.

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di John Wicker | l’Infernale edizioni

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Da oggi è disponibile su Amazon il nuovo racconto di John Wicker, lo scrittore del brivido già autore dell’acclamato “L’urlo del bosco”, pubblicato sempre da l’Infernale edizioni sul Kindle store.

In questo nuovo racconto, seguiremo la tragica avventura di una famiglia distrutta e tormentata da una presenza oscura.

“Il riflesso della paura” è un racconto in tinte horror che attinge all’immaginario collettivo del terrore, mantenendo la linearità di un racconto d’autore. Lo stesso Wicker ha affermato più volte di non volersi scrollare da dosso l’etichetta della letteratura di genere, in quanto si ritiene uno scrittore horror, prima di uno scrittore.

L’obiettivo finale di Wicker è sempre lo stesso: spaventarvi.

Per ottenere nella vostra libreria digitale “Il riflesso della paura” sui vostri dispositivi elettronici, dai tablet ai lettori e-reader, basta cliccare il banner sottostante.

Buona lettura.

 

Ferdinando de Martino.

 

Dello stesso autore, leggi anche:        

John Wicker | lo scrittore del mistero | un talento da brivido.

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A breve uscirà il nuovo racconto della serie “I racconti del terrore di John Wicker”, un autore sensazionale.

Ma chi è John Wicker?

È bastato mettere online il suo primo racconto per scatenare l’interesse dei lettori che hanno, giustamente, riconosciuto in lui un talento innato.

John Wicker (1967) è uno scrittore italo-americano, nato da padre italiano e madre americana. È cresciuto nel Jersey, per poi trasferirsi in Piemonte, alla ricerca delle sue origini italiane.

Sicuramente il suo background letterario è prettamente americano, anche se il suo libro preferito è il capolavoro del nostro compianto Italo Calvino “Le Cosmicomiche”.

Ma cosa mi ha spinto ad intraprendere un percorso editoriale con questo autore, iniziando a pubblicare i suoi racconti?

Wicker leggeva i racconti del mio blog e rispose ad un mio vecchio annuncio, inviandomi il manoscritto “L’urlo del bosco”, chiedendomi un semplice giudizio.

Dopo aver letto le prime pagine, mi sono trovato davanti ad una sensazione che non sentivo dai tempi dei racconti di Poe. Non per similitudini o cose del genere, ma semplicemente perchè la forma estremamente diretta di questo scrittore riesce a trasportare il lettore all’interno della storia.

Non sono mai stato un fan della letteratura di genere, ma al posto del giudizio che mi era stato richiesto, dissi a John che secondo me quella roba doveva essere pubblicata subito.

Per questioni ovvie, iniziammo a sentirci frequentemente, ma John non ha Facebook ed è una delle persone meno tecnologiche del pianeta. Ha un computer e una mail. Stop.

Leggendo i suoi nuovi racconti, per l’editing e la creazione delle copertine, ho iniziato a notare una vena nostalgica nelle sue parole e gli ho chiesto di parlarmi del suo passato e della sua vita, anche per la bio da inserire nel blog, ma lui, sfuggente come al solito, ha iniziato a divagare, virando la conversazione su dei nuovi soggetti a cui stava lavorando.

Solamente qualche giorno fa, John ha iniziato a raccontare qualcosa di più sulla sua vita, rispondendo alla domanda: perchè hai iniziato a scrivere?

John ha iniziato a scrivere dopo aver perso sua moglie in un incidente stradale. Un evento tragico che ha fortemente influenzato quello che un giorno sarebbe diventato il suo stile.

Jennifer, sua moglie, era un’appassionata della letteratura di genere, mentre lui amava generi completamente differenti tra loro. La notte, prima di addormentarsi, erano soliti inventare storie dell’orrore che finivano sempre con catastrofi e finali terribili. Era il loro modo di scherzare.

Proprio per esorcizzare il finale terribile della sua storia con Jennifer, ha iniziato a scrivere, rielaborando su carta le sue sensazioni.

Detto questo, John è una delle persone più simpatiche con cui abbia mai avuto a che fare. La battuta pronta e un’ironia affilata come la lama di una spada ne contraddistingue la struttura dei suoi dialoghi, non solo nei racconti, ma anche nelle mail.

Vi consiglio vivamente di leggere sul vostro kindle, iPad, iPhone, computer e quant’altro, “L’urlo del bosco” disponibile in versione e-Book, perchè sono sicuro che questo autore riuscirà ad imporsi nell’immaginario dell’orrore con uno stile moderno ed estremamente incisivo.

A breve uscirà il suo secondo racconto per “l’Infernale edizioni” (realtà editoriale del blog).

Spero che questo autore possa terrorizzare anche voi.

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Tutto sarà riferito a John in persona, quando si degnerà di connettersi alla sua casella mail… maledetto a-tecnologico bastardo.

 

Ferdinando de Martino.

Alcol e scrittura | Il matrimonio infernale

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Sin da quando il primo uomo prese in mano la prima penna, probabilmente accanto al foglio bianco  riposava un bicchiere di scotch.

Il più grande pericolo per una storia è il diventare un cliché, a meno che uno scrittore non sappia gestire le banalità con una narrativa tagliente come la lama di una spada orientale.  Il problema dell’intera questione è che gli scrittori sono quasi tutti dei cliché ambulanti.

Quello di cui andremo a parlare oggi, è uno dei rapporti più complicati della storia dell’arte, ovvero, quello tra lo scrittore e la bottiglia. L’argomento è delicato e spero di non banalizzarlo, riducendolo ad una macchietta ironica su quanto sia bello vivere in maniera dissoluta, vomitando la propria anima ogni  sera.

Non voglio dilungarmi sul mondo dell’arte e sulle droghe, perchè preferisco focalizzarmi sull’atto dello scrivere e sul gesto del bere.

Innanzitutto non dobbiamo cadere nel tranello della semplicistica retorica legata allo scrittore povero che beve come un dannato, perchè l’alcol ha tenuto sotto scacco sia Kerouac che King, quindi la scusa della mancanza di liquidità non regge.

Sicuramente l’insuccesso può condurre al bere, ma io penso che l’anima di questo problema sia radicata più in profondità.

Scrivere è molto spesso un mettere a posto. Quante volte, davanti ad un rapporto ormai deteriorato dal tempo, vi siete trovati a pensare -Adesso mi metto a scrivere una bella lettera per rimediare a tutte le mie cazzate.-?

Rimettere a posto le cose è un’attitudine sintomatica di chi è abituato a mettere in disordine per indole.  Quindi la vera domanda è: forse, al posto di chiederci perchè la maggior parte degli scrittori bevono, dovremmo chiederci se lo scrivere non è spesso una semplice conseguenza del bere?

Con questo non voglio dire che per diventare uno scrittore devi attaccarti ad una bottiglie e attendere che le parole compaiano sul monitor, quello che intendo è che  è più facile mettersi a rassettare dopo aver creato del disordine attorno a noi.

Se ci ragioniamo bene i più grandi romanzi della letteratura sono delle semplici ed imponenti lettere di scuse indirizzate al genere umano. Lettere in cui il soggetto è sempre lo stesso: una persona inadatta alla vita, ma convinta di potersi riscattare regalandoci quello che ha in testa in una forma vagamente infiocchettata.

Questo ragionamento lo si può fare se si conosce bene uno scrittore o almeno la sua vita.   Spesso un manoscritto ha il semplice compito di creare nella testa del lettore un unico interrogativo: forse quella persona non è poi così male se ha in testa tutta questa roba…

Vedete, molto spesso l’attitudine del bevitore è molto comica vista dall’esterno. Chi non si è fatto una risata quando ha scoperto che Fitzgerald da ubriaco chiese ad Hemingway di dare un’occhiata al suo pene per dirgli se secondo lui fosse o non fosse un pene dignitoso?

Il lato nascosto, la faccia della medaglia segreta o il dark side of the moon di questa pessima abitudine non è per niente comico.

Bere è solitudine, tristezza, male e dolore.

Bere è accorgersi dei propri limiti e superarli in continuazione, solamente per vedere che effetto fa.

Bere è distruggere i rapporti sociali e non concepire una vita sobria.

Bere è una cosa che uno scrittore può fare, continuando a scrivere, mentre l’eroina o il crack non ti permettono di restare attivo davanti alla tastiera.

Bere diventa l’armatura di cui non siamo stati dotati alla nascita.

Non so dirvi se ci sia una qualche correlazione tra l’alcol e la testa di chi crea tanto, perchè scrivere è fondamentalmente creare.

L’unica cose che credo di aver capito è che la voglia di mettere a posto arriva solamente dopo aver sputtanto tutto.

 

 

Ferdinando de Martino.

 

Animalisti contro Giuseppe Cruciani |chi sono i nuovi facinorosi?

Giuseppe Cruciani con un coniglio morto.

Giuseppe Cruciani contro gli animalisti.

Certe notizie riescono ancora a strapparmi un sorriso, soprattutto perché non essendo un giornalista, bensì un blogger, posso tranquillamente permettermi di lasciarmi trasportare dalle emozioni e questa, credetemi, è una grandissima conquista che solamente la stampa digitale indipendente può vantare.

Ci sono diverse chiavi di lettura per interpretare i fatti avvenuti negli ultimi giorni, fuori dagli studi di Radio 24, ma quella che preferisco è la seguente: un gruppo di figli di papà con un mucchio di tempo da perdere ha tentato di assalire un giornalista.

Per chi non avesse seguito la vicenda, farò un breve riassunto in stile serie televisiva: nelle puntate precedenti Giuseppe Cruciani, giornalista e conduttore della trasmissione a sfondo politico “La Zanzara“, ha iniziato una guerra ideologica contro gli animalisti, esercitando il suo diritto a mangiare carne. Questa guerriglia ideologizzata è arrivata a toccare punti grotteschi, come la presenza di un coniglio morto all’interno della trasmissione del noto conduttore.

Ora, non voglio assolutamente additare gli animalisti in maniera negativa, anche perchè dubito che tutti gli animalisti siano uguali; anche io ho un breve passato da vegetariano e sono, ad esempio, uno dei più grandi detrattori del circo. Tuttavia vorrei muovere una critica al gruppetto di perdigiorno che ha cercato di aggredire Giuseppe Cruciani.

Partiamo da un semplice principio: Cruciani si trovava a lavoro, mentre gli animalisti bighellonavano sotto gli studi di Radio 24, quindi possiamo dire in tutta tranquillità che questi amanti degli animali non avevano da lavorare quel giorno.

Quando un attivista dedica così tanto tempo all’attivismo, senza andare a lavoro è per forza di cose un ricco, pieno di tempo da perdere in questioni estremamente futili.

Il lavoro di Cruciani è quello di fare (a suo modo) informazione. Sono il primo a definire “particolare” l’attitudine del conduttore alla professione del giornalista, ma bisogna ammettere che in quanto a professionalità nessuno può rimproverare niente a Cruciani, perchè i numeri del suo show parlano da soli.

Ebbene sì, sto parlando di numeri. Lo so che gli hippie non capiranno questo discorso, ma una rivista, un blog o un canale televisivo, vive esclusivamente grazie ai numeri che riesce a portare a casa. Questi numeri vengono tramutati in sponsor, collaborazioni remunerate e denaro (quella cosa che esce dai portafogli dei genitori degli ambientalisti in questione).

Perchè mi sto accanendo così tanto su questo gruppetto di pacifisti/picchiatori? Perchè quelli come loro cercano da sempre di annientare chi prova a fare qualcosa della propria vita e lo fanno con la violenza.

Perchè per quanto possano sentirsi diversi dai picchiatori fascisti o dalle guardie rosse, questi ragazzetti viziati a assuefatti dalla pessima informazione, sono l’esatta riproduzione dei modelli appena citati.

Gridare -Stronzo figlio di puttana.- invadendo uno studio per picchiare un conduttore radiofonico, perchè ha tra le mani un salame è IGNORANZA. Non si può descrivere diversamente.

Chiunque voglia combattere il sistema, può farlo creando controcultura: volantini, blog, le care e vecchie fanzine e chi più ne ha più ne metta.

La violenza in questi casi non è una risposta se non alla domanda: ma il vostro Q.I. supera il 4?

 

 

 

Ferdinando de Martino.

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Hank, quale? | da Cinaski a Kapinos |

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Avete mai visto Californication?

Los show firmato da Tom Kapinos, già autore del teen drama Dawson’s creek, andato in onda per ben sette stagioni, ha riportato in auge la figura dello scrittore.

Un tempo, se dicevi -Sono uno scrittore.- le persone immaginavano una vita ricurva sui libri, priva di scossoni e una probabile cirrosi epatica prima dei quaranta. Post-Californication la figura dello scrittore ha subito un cambiamento palese, almeno agli occhi della gente.

Da gobbi topi di biblioteca siamo diventati dei papponi e sciupafemmine, incalliti alla guida di macchine costose.

Bella la vita oltreoceano… perchè qui le donne ci guardano come dei ritardati e giriamo in autobus, perchè se fai lo scrittore è molto probabile che non riuscirai mai a comprarti una macchina.

Ma come nasce il personaggio carismatico di Hank Moody?  Da dove viene quell’indole così complicata che non riesce a rispecchiarsi a fondo nell’immagine del suo protagonista.

Personalmente credo che Duchovny sia un attore eccellente e perfetto per il ruolo in questione, ma non è di questo che voglio parlare.

Da dove viene quell’odio per il mondo? Quella misoginia incomprensibile? E soprattutto, da dove viene quella solitudine annegata in una pozza di cliché?

Semplice, viene da un altro Hank. Un Hank molto diverso.

Il carattere  (nel gergo degli sceneggiatori: la spiegazione e le attitudini di un personaggio), sono le stesse di Hank Henry Cinaski, alter ego dello scrittore di L.A. Charles Bukowski.

Scrittore solitario, grande amante del gentil sesso in maniera compulsiva, alcolista cronico e occasionalmente curioso nei confronti delle droghe.  Il perfetto carattere per andare avanti all’infinito con una serie di libri o uno show della showtime.

Il problema è uno: perchè il primordiale Hank ha questo carattere?

Hank Cinaski è intelligentissimo ma odia gli intelligenti, è colto, ma detesta gli ambienti culturali e gli artisti  d’ogni specie, esattamente come Hank Moody. Dov’è la differenza? E badate che esiste solamente una differenza tra i due caratteri.

Chinaski è un cesso. Stop.

Alle persone, al pubblico, alle donne, agli uomini, non importa niente del cervello, esistono solamente i muscoli.

Chinaski entrava nei bar, diceva qualche frase geniale in cui riversava il suo odio per il mondo e tutta la sua misantropia, sparando anche qualche insulto offensivo e le donne, giustamente, non se lo scopavano.

Hank Moody fa la stessa identica cosa, ma è bello… quindi se lo scopano.

Hank Cinaski odiava gli “altri” perchè gli scopavano le donne. Allora finiva a bere, fumare come un dannato, leggendo libri su libri, rintanandosi un mondo fatto di cliché atti a ricreare attorno alla sua persona una muraglia cinese per difendersi dagli attacchi emotivi di quella bellezza di cui non era mai stato dotato e da cui il mondo sembrava ossessionato.

Quando arrivarono le donne nella sua vita, aveva più di cinquant’anni ed aveva passato i suoi anni migliori a fare lavori del cazzo per tirare avanti, per poi mettersi a fare lo scrittore in età avanzata. La collezione di tutte quelle donne che avevano preferito gli “altri” era riuscita a costruire un bagaglio emotivo talmente ingombrante da nutrire la sua ispirazione per più di due decenni.

È questo il grosso problema del carattere di Hank Moody, nessuno capisce da dove venga quell’odio e quello sconforto. Una marea di donne aspetta di poter ritirare l numerino per portarselo a letto, è pieno di soldi e la vita gli ha solamente sorriso… smettila di fare il depresso!

Hank Cinaski ripiegava nella scapigliatura un male relativo al non essere accettato. Tutti i suoi amori si facevano sbattere da qualche mentecatto sulla superficie lucida di un flipper, mentre lui era costretto nelle fattezze di un Cyrano di circostanza. Ecco da dove viene l’odio.

Un carattere ingiustificato è la base per un grosso buco di sceneggiatura.

Con il mio ex coinquilino abbiamo passato intere nottate e guardare e riguardare Californication, ridendo come pazzi davanti al viso di Runkle gocciolante (sol chi ha visto… può capire), ciononostante trovo ingiustificato il novanta per cento del carattere di Hank Moody ed è proprio per questo che lo show è finito per diventare la parodia i se stesso.

E voi? Che Hank Siete?

 

 

Ferdinando de Martino

 

 

 

 

Vinyl | Sesso droga e Olivia Wilde |

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Cosa dire su Vinyl? Prendete Martin Scorsese, chiudetelo in una stanza con Mick Jagger, date loro una bottiglia di tequila e una macchina da scrivere ed ecco una delle serie tv più cool del palinsesto americano.

Di cosa parla Vinyl?

La serie gira attorno alla vita di un discografico di successo che inizia a vedere il suddetto successo sgretolarglisi davanti agli occhi. Trovare nuove band, per seguire il flusso del ricambio generazionale del mondo musicale attuatosi negli anni settanta, è di vitale importanza.

Il mondo che ci troviamo davanti agli occhi è quello di un epoca in cui Alice Cooper beve birra appena sveglio, Reed e Warhol dominano l’underground e la cocaina è ancora divertente.

La serie è stata stroncata da un sacco di riviste che farebbero meglio a tornare su argomenti più alla loro portata, come le scarpe da quattrocento dollari e cazzate analoghe… perchè qui si sta riscrivendo la storia del rock.

Andiamo… Jagger ci regala la sua visione della scena di quegli anni e noi ci mettiamo a fare le pulci al prodotto in questione?

Tutti gridano al cliché, al già visto un milione di volte e cose del genere. Io non grido,  perchè preferisco limitarmi a guardare questo splendido prodotto sul mondo dei vinili.

Nel caso non vi avessi convinto a dare una possibilità a questo splendido prodotto, lasciate che vi dica un ultima cosa: c’è Olivia Wilde che fa la sexy.

Non si tratta di un sexy tipo “sono Olivia Wilde e sono sexy”, no… qui si tratta di una sensualità ai limiti del surreale. Ogni sguardo, vestito e attitudine al modo di vedere quell’epoca spudoratamente pop è sensualità.

Poi, se resisterete fino alla puntata del vestito rosso… capirete di cosa sto parlando.

 

 

Ferdinando de Martino.

The Affair | Una serie poeticamente erotica

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Per innamorarsi di “The Affair” basta guardare il primo episodio.

All’interno di questa serie tutto è ammaliante, partendo dalla struttura e arrivando alla costruzione impeccabile dei personaggi.

La linea guida dello show è semplicemente perfetta ed intrigante allo stesso tempo. Ogni episodio è diviso in due parti, una narrata da Noah e una da Alison.

Chi sono questi due personaggi?

Noah è uno romanziere\professore che convive con un enorme complesso d’inferiorità nei confronti del padre di sua moglie, un noto romanziere di successo americano.  Il lavoro gli lascia molto tempo libero per scrivere durate l’estate, ma tutto quello che Noah vorrebbe è un riconoscimento a livello letterario. Ciononostante la bella famiglia che è riuscito mettere in piedi è la nota gentile della sua armonia.

Alison è una donna che porta dentro di sé una vera e propria tragedia greca. Vive con suo marito in uno stato di perenne confusione emotiva per via di un trauma che entrambi si trascinano dentro come un macigno esistenziale.

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Una sera, Alison e Noah incontrano i loro sguardi e i rispettivi universi cambieranno irrimediabilmente. Ogni episodio verrà raccontato in differenti maniere, in vista di un evento tragico che lo spettatore intuirà sin dalla prima puntata.

I caratteri dei personaggi sono eccellenti e studiati alla perfezione. Le differenti prospettive e la drammaticità mai effimera di questo magnifico prodotto, firmato Show Time, rendono la visione di questa serie una vera e propria esperienza visiva.

 

 

 

Ferdinando de Martino.

Può Britney Spears farci capire il pensiero di Nietzsche ? | di Ferdinando de Martino

Immaginatevi un incontro di pugilato. Da una parte abbiamo l’industria musicale, mentre dall’altra abbiamo un tizio coi baffi folti e matto come un cavallo.
L’industria musicale sostiene di forgiare talenti e di anticipare i trend con lungimiranza, proprio mentre dall’altro lato del ring il ginnico Nietzsche si sta scaldando per dimostrare, a suon di pugni metaforici, che l’industria musicale non fa altro che seguire il flusso di una serie di eventi che si manifestano e si manifesteranno perennemente in maniera ciclica.
Vi siete mai trovati davanti ad osservazioni come -Un tempo avevamo i Beatles e adesso ci ritroviamo Justine Bieber?
Se la risposta è sì, siamo sulla strada giusta per comprendere uno dei concetti più interessanti della filosofia dell’ottocento.
Premetto di non voler insultare i gusti musicali di nessuno, sebbene credo che la differenza tra Bob Dylan e Justin Bieber sia lapalissiana. In caso contrario, mi dispiace molto per le vostre orecchie.
Non esiste una vera e propria motivazione atta a giustificare il successo di certe pop star. Possono essere brave a saltellare sul palco, dimenando gli addominali e in certi casi possono avere anche un gran bella voce, ma non sono questi elementi a decretarne il loro successo a tavolino.
Il fatto è che non è spiegabile nemmeno il successo di Dylan, perchè il semplice consenso delle folle non può decretare la beatificazione di una rockstar da sotto un palco, in quanto quella rockstar deve arrivare sul palco per essere beatificata.
Se alla rockstar togli il palco o il canale YouTube, il pubblico perde il suo potere beatificante.
Il centro della questione è: perchè nascono i Dylan e i Bieber?
Li sentite? Sono i pugni di Nietzsche che si colpiscono tra loro, prima di sferrare il primo montante.
Al suono del gong parte il primo attacco: in un sistema finito, con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
Questo meraviglioso ed elementare concetto decreta una delle leggi più affascinati della filosofia ottocentesca.
L’esempio più semplice che possiamo fare è quello di un mazzo di carte o di una moneta.
Immaginate di aver pescato da un mazzo di carte il due di denari. Rimettete dentro la suddetta carta, mischiate nuovamente il mazzo e pescate una seconda volta.
Fingiamo che sia uscito l’asso di coppe.
Continuando questo giochetto all’infinito, per una semplice questione matematica, prima o poi il due di denari e l’asso di coppe verrano estratti nuovamente dal mazzo, proprio perchè in un sistema finito (come il mazzo di carte), con un tempo infinito, ogni combinazione può ripetersi infinite volte.
Quindi in un sistema finito come quello dell’industria musicale, durante il naturale scorrere degli eventi, avremo un susseguirsi di Bob e Justine.
Bob Dylan dovrà nascere ancora, proprio perchè è nato una volta. Bob Dylan è nato quanto Mozart ha visto per la prima volta un clavicembalo, quando Ray Charles ha capito che si poteva vedere anche con gli occhi del suono; è nato quando Hendrix ha guardato una chitarra, domandandosi -Cosa si può fare di diverso?
Bob Dylan è nato quando il primo uomo ha iniziato a cantare e continuerà a nascere finché il tempo rimarrà infinito.
La stessa identica cosa vale per Justine. Bieber è nato quando un produttore musicale ha guardato i volti sbarazzini degli ’N Sync e ha detto -Con questi copriamo tutto il mercato di persone che non hanno mai sentito la bella musica.
Vi siete mai chiesti perchè per l’industria musicale è così importante la fascia 14/15?
Semplice… perchè è più facile fare il lavaggio del cervello a persone che non hanno cultura in un campo specifico e l’unico modo per impedire ad un individuo di farsi una cultura musicale è quella di propinargli l’esca giusta al momento giusto.
Gli ’N Sync o i Take That potevano vendere solamente a chi non aveva mai sentito un pezzo degli Aerosmith. Perchè? Andiamo… chi comprerebbe mai un disco degli ’N Sync dopo aver sentito un pezzo qualsiasi di Tyler e soci?
Bieber è nato quando sono nate le Spice Girls, quando sono nati i Tokyo Hotel e quando i Blue scalavano le classifiche di tutto il mondo.
Molti potrebbero storcere il naso, ma quando io penso alla musica che ascoltavo dieci anni fa, mi congratulo con me stesso, mentre la maggior parte di voi dovrà scendere a patti con il fatto che dieci anni fa cantava -Dan blu da bi di da bi da e da bi di da bu da e da bi di da bu da.
Capito il senso dell’eterno ritorno?
Quando dal mazzo di carte esce un Bieber, viene partorito un testo che recita -Dan blu da bi di e da bu da e da bi di e da bu da e da bi di e da bu da.-, mentre quando esce un Dylan, ci ritroviamo un -Daltonici presbiti, mendicanti di vista, il mercante di luce, il vostro oculista ora vuole soltanto clienti speciali che non sanno che farne di occhi normali.
In parole povere: Nietzsche aveva predetto l’andamento del mercato discografico mondale.
Cosa centra Britney Spears in tutto questo? Adesso ve lo spiego.
Proprio la biondina più amata d’America, passata da ragazza della porta accanto a calva consumatrice di crack, ha espresso il concetto dell’eterno ritorno in uno dei suoi testi più acclamati: Ops… l’ho fatto di nuovo.

Visto? Tutto torna e tutto tornerà e Britney lo farà di nuovo e di nuovo e di nuovo…

 

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Ferdinando de Martino

Market 24 | il romanzo del web |

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Ecco a voi “Market 24”, un romanzo nato per il web.

I capitoli sottostanti delineano la prima parte del libro. Le parti saranno tre e verrano caricate tutte qui sul blog.

Se il progetto vi piace e se lo trovate interessante, vi chiedo il grande favore di condividerlo sulla vostra pagina Facebook e di consigliarlo ai vostri amici, perchè il web si basa sul passaparola mediatico e senza di questo è destinato a morire nel nulla.

Senza ulteriori indugi, ecco “Market 24”.

Buona lettura.

 

capitolo 1 market 24

capitolo 2 market 24

capitolo 3 market 24

capitolo 4 market 24

capitolo 5 market 24

 

 

Ferdinando de Martino.

 

MARKET 24 | il romanzo del web | Presentazione

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Com’è difficile parlare dei propri lavori…
Partiamo dal principio: avere un blog non serve a niente se non ci butti dentro materiale inedito.
Come molti di voi sanno, è da poco uscito il mio nuovo romanzo “Uroboro”, acquistabile dal sito di Eretica Edizioni. Scrivere Quel libro mi è servito per dimostrare di non essere un totale imbecille, vittima del postmodernismo e degli echi della beat generetion. Scrivere un romanzo lineare è stato divertente e gratificante e spero che il libro possa piacere a chi l’ha acquistato e a chi l’acquisterà in futuro.
Ci tengo a ringraziare chiunque abbia comprato i miei libri o supportato questo piccolo sito, perchè per quanto possa risultare stupido, non è per nulla semplice giocare a fare lo scrittore. È un lavoro estenuante, credetemi, ma nessuno mi ha puntato una pistola alla testa dicendomi -Distruggi la tua esistenza davanti ad un computer mentre gli altri vivono la vita vera.-, quindi è stata una scelta del tutto libera.
Mentre leggerete questo articolo, starò caricando sul blog un libro dal titolo “Market 24”.
Perchè? Semplice: perchè il mestiere dello scrittore è quello di arrivare al pubblico e per quanto ci piaccia credere che meno sei mainstream, più sei geniale, questa versione delle cose differisce molto dalla realtà.
La connessione tra la testa dello scrittore, nel momento in cui ha scritto il libro, e la testa del lettore nel momento in cui legge le parole su carta o foglio elettronico, è l’unico punto d’arrivo.
“Market 24” è un romanzo postmoderno di genere. Ecco… l’ho detto.
È un (tappatevi gli occhi intellettuali) thriller. Tuttavia, non vi saranno le solite scorciatoie e cazzate del genere appena citato, in quanto l’opera è a tutti gli effetti un lavoro singolare.
La storia c’è, ma non è il soggetto, perchè il soggetto sono i soggetti. Ganzo il gioco di parole, eh?
Il romanzo è stato pensato per il web, seguendo il modus operandi di Netflix, ovvero, avendo terminato la prima parte (di tre), ho deciso di caricarla interamente sul sito, dandovi l’opportunità di seguire il lavoro come e quando volete. Potrete leggerlo tutto d’un fiato, oppure frazionare la lettura secondo i vostri ritmi di lavoro.
Come dicevo, la storia è interamente narrata dal punto di vista dei singoli protagonisti, come se il lettore entrasse nella testa di ogni personaggio, ascoltandone i pensieri. Questo renderà difficile seguire la trama, semplificando però l’empatia. Questo è l’obbiettivo di “Market 24”, raccontare i personaggi più che la storia; impresa estremamente difficile per un romanzo di genere.
Ogni capitolo parlerà delle ore relative alle singole giornate dei personaggi, nell’arco di alcune settimane, regalandovi la prospettiva di ogni carattere all’interno dello stesso contesto.
Ogni personaggio avrà il suo modo di esprimersi e pensare, seguendo il tanto amato da noi feticisti della parola scritta, flusso di coscienza.
Ci sarà un pazzo, un altro pazzo un po’ più pazzo del primo, una youtuber, una cassiera, un poliziotto e… altri personaggi nella seconda parte, in produzione.
Ecco fatto. Adesso, dopo aver svelato tutto, mi sento molto più libero e felice di condividere con voi questo materiale inedito.
Anche perchè mi sembra maleducato produrre solamente cose a pagamento, sebbene io debba comunque mangiare, senza coltivare il blog come se fosse un lungo romanzo in continuo sviluppo.
Detto questo, non crediate che i lavori piovano dal cielo a noi scrittori, anzi… non piovono mai e quelli che piovono sono quasi esclusivamente cazzate erotiche e per cazzate erotiche, intendo: porno. Sì, per tirare a campare ho scritto anche porno.
Non voglio rubarvi altro tempo…
Se volete comprare il mio libro, potete comprarlo e spero che Ermand, il suo protagonista, possa allietare le vostre ore di lettura; mentre se volete leggere “Market 24”, dovrete semplicemente fare un giretto sul mio blog e iniziare la lettura.
Spero perdonerete gli eventuali refusi, dovuti alla produzione indipendente del lavoro e la narrazione scostante, dovuta all schiettamente postmoderna linea di prospettiva.

Ciao e grazie.
Ferdinando de Martino.

PostErArt | Poster&pop e pittura digitale |

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Oggi voglio parlare di un progetto relativo alla pittura digitale.

Innanzitutto, vorrei esprimere il mio parere su tutto ciò che riguarda la digitalizzazione all’interno del campo pittorico.

Per quanto mi riguarda (Vittorio Sgarbi, non fulminarmi) la pittura digitale è la naturale evoluzione della Pop Art. Quando si contestualizza il termine pop, in un campo artistico, non si può che andare a parare sulla semplicità legata alla volontà di rendere un disegno “popolare”, laddove popolare vuol dire alla portata del popolo.

L’avvento dei poster ha dato la possibilità di appendere in casa propria delle copie d’opere d’arte o magari anche delle opere stesse, nate appositamente per il concept del poster.

La produzione in serie è arte? Il disegno digitale è arte? Un poster può essere arte?

Non esiste una risposta universale a queste domande, semplicemente perchè le domande in questione sono sbagliate. L’arte è tale solamente quando se ne discute e non ci sono giudici e giudicati, ma semplicemente canali tramite i quali esporre il proprio materiale.

Un ritratto digitale su poster può esprimere un concetto, quando il soggetto è un personaggio celebre, legato a qualche contestualizzazione particolare, come ad esempio “Kate Moss” qui sopra, paladina di una certa tipologia di bellezza che basa le sue fondamenta sull’imperfezione. L’immagine deve colpire a livello estetico e concettuale, ma deve farlo non rivolgendosi all’élite di acculturati esperti d’arte, bensì rivolgendosi letteralmente al popolo, perchè chiunque può commissionare un ritratto in formato poster ad un artista digitale.

È così che siamo passati dalle madonne su tela alle Marilyn prodotte in serie di Warhol. I passaggi che conducono da una tipologia d’arte all’altra, sono sotterranei.

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D’incanto un selfie può diventare un poster o una stampa su tela, grazie al retaggio culturale che i precursori della cultura pop hanno lasciato in noi poveri artigiani, perchè di artigianato stiamo parlando.

Essendo uno scrittore, nei miei poster cerco di ragionare in maniera “narrativa”, scegliendo con cura le foto da cui partire per lo schizzo, solamente perchè la pretesa del mio lavoro è quella di raccontare qualcosa, anche quando si utilizza un’immagine.

Un fotogramma di un film può, tramite la pittura digitale, divenire una riduzione di tutti i ricordi legati all’opera da cui è tratto, creando un lavoro che non sarà mai a sé stante, in quanto perennemente legato alla “popolarità” che il prodotto che ne sta alla base, si trascina appresso.

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Per ulteriori informazioni, per chiacchierare un po’ o per ordinare un poster, commissionare un ritratto e cose del genere… basta seguire i miei lavori su  POstErArt Facebook .

 

Ferdinando de Martino.

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Filosofia da bar #8 | CAFFÈ E RAZZISMO |

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Adesso andremo a trattare un argomento molto scottante, cercando di analizzarlo da un punto di vista filosofico: il razzismo.
Come in ogni capitolo, anche in questo partiremo dal bar.
-Scusi mi fa un macchiato caldo?
-Io vorrei un mocaccino.
-Cappuccio grazie.
-Ha del latte di soia?
-Espresso.
-Un americano, grazie.
-Un caffè d’orzo. ( prima o poi qualcuno dovrà spiegare a chi ordina un “caffè d’orzo” che l’orzo è orzo e il caffè è caffè ed ordinare un “caffè d’orzo” equivale ad ordinare un “mandarino di torta”)
-Per me doppio.
Queste sono solamente alcune delle ordinazioni che un qualunque barista riceverà durante la prima mattinata, quando l’italiano medio entrerà in un bar, deciso a prendere un caffè.
Quando invitate una persona a prendere un caffè con voi, magari per caffè intendete dire cappuccino o caffellatte, mocaccini e quant’altro ma per convenienza preferite non specificarlo. Questo atteggiamento è reputato normale se rapportato al caffè.
Proviamo adesso a rapportarlo a qualcos’altro. Per esempio, fingiamo che abbiate invitato un vostro amico o una vostra amica a mangiare una pizza fuori e una volta all’interno del ristorante designato, il vostro invitato o invitata si accorge che sul menù non compare la pizza. È probabile che questo o questa finisca per chiedervi -Ma non mi avevi invitato a mangiare una pizza fuori?
Questo fa di voi un bugiardo o una bugiarda? No. Questo fa di voi un o una qualunquista.
Molto spesso le parole che usiamo sono, per comodità, semplicemente degli input a cui la società ha modificato il significato. Il razzismo fa parte di questa categoria.
Quindi per capire il razzismo, bisognerà estrapolarlo dal suo concetto generico, cercando di analizzare cosa siamo noi rapportati al razzismo.
Diamo una nostra personale definizione di razzismo: discriminazione di una tipologia di individui in base alla loro etnia, estetica o estrazione culturale, spesso in relazione con determinati atteggiamenti derivanti dal contesto in cui sono cresciuti.
Vi va bene? Spero di sì, perché non ho voglia di mettermi a discutere sull’accademico significato del termine “razzismo” o di variazioni di genere.

Prendiamo due persone a cui viene chiesto se è giusto o sbagliato essere razzisti:

No, il razzismo è dettato dall’ignoranza.
Sì, il razzismo è intrinseco in ognuno di noi.

Entrambe queste risposte sono sbagliate.
Partiamo dalla prima. Abbiamo una persona che giudica il razzismo un preconcetto dettato dall’ignoranza e, quindi, possiamo definire questa persona un individuo non razzista.
Avendo tirato giù una definizione di razzismo, possiamo dire che questo individuo afferma di non discriminare nessuna tipologia di persona, basandosi sulla sua provenienza, etnia, e estrazione culturale con annessi comportamenti derivati.
Proviamo a porre a questo ipotetico individuo una nuova domanda -Daresti ad un ex pedofilo la possibilità di lavorare all’interno di una scuola materna?-, secondo voi cosa potrà mai rispondere?
-No, mi sembrerebbe stupido.
Quindi una persona che non discrimina nessuno, in base agli atteggiamenti provenienti di nicchie ristrette di estrazioni culturali differenti dalla sua, ha effettivamente discriminato un ex pedofilo, impedendogli di lavorare in una scuola materna. Perché l’ha fatto?
Perché reputava discriminante il fattore pedofilia, rapportato ad una scuola materna. Ovviamente il ragionamento di questo individuo è giusto, tuttavia è anche discriminante.
Poniamo una nuova domanda al nostro amico -Sposeresti più volentieri una ragazza magra o una estremamente grassa e calva?
Tutti noi conosciamo la risposta.
E questo atteggiamento non è forse discriminante verso l’estetica? Il prediligere le bionde alle rosse, non è a tutti gli effetti discriminare un gruppo, basandoci esclusivamente su di un fattore estetico o addirittura etnico? Però in questo caso la discriminazione è tollerata dal nostro individuo.
Questo dimostra che pur manifestando degli atteggiamenti riconducibili al razzismo, il nostro amico fa distinzione tra discriminazione e discriminazione; in pratica discrimina certe discriminazioni.
Se al sottoscritto chiedete -Preferisci le bianche o le nere?-, credetemi, non esiterei un solo secondo, essendo un amante del ceppo africano. Questo è, tuttavia, un atteggiamento razzista, cioè riconducibile alla discriminazione delle etnie che il sottoscritto cataloga meno belle.
Quindi, forse, il secondo interrogato aveva ragione. Il razzismo è giusto, perché intrinseco dentro di noi.
No, anche questa risposta è sbagliata. L’uomo è in grado di discriminare le persone in base ad estrazione culturale, fattori estetici, colore della pelle, nazionalità di provenienza, ideologie di base e quant’altro, ma è anche capace di generalizzare a tal punto da definire il caffè, orzo.
La risposta giusta è, probabilmente, la seguente: Il razzismo non è né giusto, né sbagliato. Il razzismo è.
È, in quanto è un termine coniato per definire un concetto, quindi, esistente.
Il razzismo esiste, esattamente come esiste l’aracnofobia o il panettone e non è né giusto, né sbagliato, in quanto il concetto di giusto e sbagliato è talmente soggettivo da essere riconducibile al rapporto generico tra orzo, caffè, mocaccino, cappuccino e latte di soia.

 

 

Ferdinando de Martino.

BAR-SOFIA | Filosofia da bar | capitoli 1, 2 e 3

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Il bar come concetto.

Il bar è uno dei più grandi cliché della narrativa. Cinema, letteratura tradizionale e a fumetti, televisione e teatro tendono ad utilizzare, spesso, il bar più come una sorta di concetto che come un luogo vero e proprio.
Se in un racconto o in una puntata del vostro serial preferito, un investigatore privato si trova all’interno di un bar è per via degli stereotipi che la sua figura rappresenta, rapportata al concetto di bar.
L’investigatore, al contrario del poliziotto, è quasi sempre un outsider (come spiega Poe in uno dei suoi saggi di scrittura) e come ogni outsider che si rispetti, scappa sempre da qualcosa; questo “qualcosa” potrebbe essere un passato da dimenticare, dei cari persi in qualche strano incidente e via dicendo. L’epicentro del discorso è “lo scappare”.
L’investigatore scapperà sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora, l’escamotage del bar attribuisce allo “scappare” una nota di tragedia interiore; come se il bar fosse l’unico posto in cui l’investigatore può permettersi di “scappare” senza muoversi.
Quell’uomo avvolto dal suo trench, potrebbe bere in casa sua o addirittura nel suo studio, ma no… lui preferisce il bar.

BAR+INVESTIGATORE, genera TRAGICITÀ

Ogni figura, nella narrativa, ha una sua personale connotazione all’interno del bar. Una donna altolocata, che solitamente entra in un bar sempre e solo per cercare qualcuno, controllerà la polvere sul bancone e scruterà con sdegno il bicchiere di Coca Cola o acqua, che ordinerà solamente per educazione e non per sete.
L’arte, al contrario della filosofia, dev’essere lo specchio della società, mentre la filosofia rappresenta la lente d’ingrandimento di questa. Ecco perché l’arte e la filosofia sono da sempre alleate. In fin dei conti, sempre di lenti si parla.
Essendo l’arte, specchio dell’intera società, la riproduzione artistica del bar deve, in qualche modo, rifarsi all’idea reale di bar. Questo vuol dire che il bar, altro non è che un luogo atto a stereotipizzare ogni individuo? Esatto.
Il bar è la perfetta riproduzione di una piazza greca. Al giorno d’oggi esistono molte piazze, Facebook è l’emblema di queste, ma al contrario del noto social network, il bar riesce a tirar fuori le nostre debolezze, cosa che Facebook cerca di eludere, mostrando i nostri bicipiti e le nostre cosce mentre fingiamo di essere ai Caraibi, durante un pernottamento a Spotorno.
Nei bar tutti hanno qualcosa da dire e lo fanno coi loro atteggiamenti.
Immaginate di trovarvi in questo preciso istante all’interno di un bar, diciamo… con un paio d’amici, intenti a farvi una birretta.
Vedete quel gruppo di ragazzi, lì? Due tavoli a fianco al vostro? Bene.
Sono in cinque e tutti stanno chiacchierando. L’argomento non è importante, quello che è importante è l’atteggiamento.
Se all’interno della comitiva, qualcuno inizierà ad alzare il tono della voce, magari ridendo o scherzando, ecco, quello è l’individuo più solo del gruppo. Ovviamente non sto parlando di un singolo episodio, ma di ripetute dimostrazioni di superiorità canora che andranno a dimostrare quanto da me sostenuto.
Che bisogno c’è di alzare la voce? Che bisogno c’è di essere quello che grida più di tutti, quando segna l’Inter? Che bisogno c’è di ordinare da bere con voce gutturale? La risposta è una ed una soltanto: la solitudine.
Il bar tende ad estremizzare tutto, specialmente quando si passa al secondo bicchiere; solitudine, terrore, amore, invidia, perfidia, tutto verrà estremizzato da quell’ambiente in cui la competizione è silenziosa e serpentina.
Molti sarebbero portati a credere che il più solo del locale sia il tizio che inizia a raccontare la propria vita al primo sconosciuto, ma non è così, in quanto chi ha qualcosa da raccontare, raramente alza la voce. Le tonalità alte rappresentano l’arma di chi non ha un cazzo da raccontare, perché quel poco che si ha, lo si cerca di vendere in maniera altisonante.
La voce degli ambulanti che gracchia dagli altoparlanti -Donne è arrivato l’arrotino.-, ne è la dimostrazione più eloquente.
Credetemi, amici… il bar smaschererà tutti, se gli darete il tempo di farlo.
Tutto il mio discorso si basa sull’apparenza e molti di voi saranno portati a pensare che giudicare dall’apparenza sia uno degli errori più grossolani per una persona. Beh, chi la pensa così, commette un grossolano errore di calcolo.
È stato M. Heidegger a dire -Ciò che non si manifesta nel modo in cui non si manifesta l’apparenza, non può neppure sembrare, esser parvenza.-, ed io la penso esattamente come lui.
L’apparenza descrive alla perfezione l’individualità dell’essere. Dall’apparenza possiamo dedurre i gusti musicali, le ideologie politiche e perché no, anche le tendenze sessuali.
Possiamo tranquillamente asserire che l’apparenza è, a tutti gli effetti, la carta d’identità dell’essere.
Il bar rende più semplice risalire all’essere, enfatizzando l’apparenza.
Addentrandosi in questa foresta di pensieri, si potranno scoprire una miriade di nozioni che potranno tornare utili all’animale da bar.
Il mercoledì sera, ad esempio, è più semplice rimorchiare nei bar. Prima di darmi contro, pensate a tutte le volte in cui avete rimorchiato in un bar o, se non è mai successo, pensate a tutte le volte che i vostri amici hanno rimorchiato all’interno di un bar. Quanti di questi rimorchi hanno avuto luogo durante un mercoledì sera? Ecco.
Il motivo è semplice ed è estremamente radicato nella filosofia da bar: siamo la generazione della pausa.
Siamo i messicani delle generazioni. Prima di additarmi come razzista per aver sostenuto che i messicani siano pigri, lasciatemi il tempo di spiegare questa mia affermazione.
Chiunque sostenga che i messicani non sono pigri, o non ha mai conosciuto un messicano o non ha mai ragionato sulla derivazione del termine, spagnoleggiante, “siesta”. Se questo non bastasse, vi porterò un altro esempio.
I messicani hanno inventato uno strumento musicale chiamato Kahon, strumento che consiste, praticamente, in una scatola su cui sedersi. La musica nasce dal battere le mani sulla suddetta scatola. Ok. Dopo aver dimostrato di non essere razzista, ma solamente obbiettivo, posso tornare al saggio.
Siamo la generazione della pausa. I nostri videogiochi hanno sempre la possibilità di fermare il gioco per fumare una sigaretta e se credete che sia sempre stato così, non avete mai giocato a Pac-man.
Pac-man non aveva l’opzione pausa. Pac-man ti logorava il cervello. È per questo che i rimorchiatori degli anni ottanta uscivano di sabato e non di mercoledì; perché il fine settimana era dedicato al divertimento.
La nostra generazione ha bisogno di una pausa settimanale per “tirare avanti” e così, il mercoledì è diventato il giorno designato a questa pausa dallo stress della vita. E cosa fanno le donne quando sono stressate?
Adesso, probabilmente, mi ritroverò nella merda fino al collo: ehi, dopo i messicani non vorrai mica stereotipizzare anche le donne?
Amici, le regole del gioco non le ho fatte io… è stato il bar. Quel posto con le insegne luminose, tira fuori la verità dalle persone e se le donne sono più inclini a scacciare lo stress facendo l’amore non è colpa del sottoscritto. Gli uomini farebbero l’amore anche per scacciare l’amore stesso. Visto? Siamo tutti degli stereotipi, no?

Il teorema del triangolo.
(il gioco dell’istinto)
Lo scopo di questo libro è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.
Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.
L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.
Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.
L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.
Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi, finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.
Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.
All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzata e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.
L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.
Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.
Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.
Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?
L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro, per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?
Incredibile. Davvero incredibile.
La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.
Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.
Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.
Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.
Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.
Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema, senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.
Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

La questione del demone egizio.

M. Heidegger nutriva una forte avversione verso l’avvento delle nuove tecnologie. Molti studiosi sostengono che questa sua idiosincrasia sia da ricondurre al periodo storico in cui il filosofo ha vissuto.
La tecnologia viene da sempre progettata per essere impiegata in ambiti in cui vi è una forte richiesta d’impiego e ai tempi del vecchio Martin, l’impiego più utile (se di utilità si può parlare in una situazione del genere) era la guerra.
La meccanizzazione della guerra è un fenomeno a cui, ai nostri giorni, siamo del tutto assuefatti, ma durante la seconda guerra mondiale questo procedimento deve aver, sicuramente, destato non poca curiosità da parte del mondo accademico.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la freddezza del metodo sperimentale veniva messa al servizio di una grande macchina della morte.
Ma ciò che interessa a noi è la filosofia da bar, dove vuoi andare a parare, dunque? Datemi un momento e tenterò di arrivare ad estrapolare un concetto da queste pagine.
Sempre Heidegger, grande esistenzialista, ha scritto uno dei più importanti tomi di filosofia del novecento: Essere e tempo.
All’interno di questo libro, il filosofo, si pone una domanda che, sin dall’antica Grecia, ha messo in ginocchio la filosofia: cos’è l’essere?
Bella domanda. Cos’è l’essere?
Proprio da questa domanda, Heidegger, ci regala una perla di saggezza inestimabile. Da questa lezione ho imparato una verità sconcertante, per una mente come la mia, che di filosofia non so praticamente niente.
Quando ci poniamo la domanda in questione, ciò che sbagliamo non è la domanda in sé, quanto più la forma. Se domandiamo a qualcuno -Cosa è l’essere?-, finiamo automaticamente a catalogare “l’essere” come ente. Questo è uno dei più grossolani errori della società.
Il vecchio Martin, dunque, sostiene che l’essere non si possa ridurre ad ente, in quanto l’essere è tale, proprio perché si manifesta esclusivamente nell’ente.
Molto spesso non sono le domande ad essere sbagliate, ma solo la loro forma e, purtroppo, la forma è strettamente legata al significato.
Prendiamo, ad esempio, la domanda: si può analizzare la vastità della società contemporanea in un microcosmo come può essere il bar?
Anche in questo caso non è la domanda ad essere sbagliata, bensì la forma. La domanda giusta è: si può analizzare il bar, rapportandolo alla vastità della società contemporanea che si esprime al di fuori del suo microcosmo? È la risposta a senza alcun dubbio: sì.
Bisogna pensare al bar come ad un ente preso a caso. Potevamo servirci della scuola, dell’università, di un centro commerciale e via dicendo… io ho scelto di utilizzare il bar, per la connotazione pop che ha assunto all’interno del nostro immaginario collettivo.
In questo caso dobbiamo pensare al bar, come ad una rappresentazione contemporanea del mito della grotta di Platone.
In pratica, ciò che vediamo all’interno del bar, altro non è che il contorno delineante di un qualcosa che a stento possiamo immaginare, ma di cui possiamo analizzare il rapporto con la società esterna in quanto, al contrario del mito di Platone, noi dal bar possiamo uscire quando ci pare e piace.
Ora, grazie a Socrate riusciremo a mettere insieme i pezzi di questo puzzle di concetti.
Al momento sappiamo che: Heidegger non amava la tecnologia.
Abbiamo imparato ad osservare bene la struttura di una domanda.
Stiamo utilizzando il bar per rilevare le ombre della società che vogliamo andare a razionalizzare.
L’avversità nei confronti della tecnologia di Heidegger, acquisisce un’attualità quasi sconcertante, se si va ad analizzare uno dei più particolari discorsi di Socrate, ovvero, “il demone d’Egitto”.
Ve la farò molto breve. In pratica, Socrate raccontò di un certo Theuth (demone egizio) che di tanto in tanto si dilettava nell’inventare. Un giorno inventò, ad esempio, l’astronomia, un altro giorno inventò la geometria, la scrittura e il gioco d’azzardo coi dadi.
Queste sue invenzioni vennero, da lui stesso, mostrate al re d’Egitto Thamus. Quando si arrivò alla scrittura, Theuth si trovò davanti ad un muro di cinismo, costruito dalla saggezza del sovrano d’Egitto. La scrittura doveva servire come Viagra della cultura e della memoria (detto alla buona), tuttavia Thamus denigrò a gran voce questa subdola invenzione, regalandoci una chiave di lettura che tutt’ora mi fa dubitare molto spesso del mio lavoro.
La scrittura, secondo Thamus, avrebbe distrutto la memoria stessa del popolo egizio che, abituato a dover tenere a mente tutta una serie di concetti, avrebbe iniziato a scrivere questi concetti per tenerli meglio a mente, al posto d’impegnare la loro memoria a contenere i suddetti concetti.
Questa storiella di Socrate, ci fa capire quanto il saggio ateniese fosse riluttante nei confronti della scrittura.
Abbiamo, quindi, la scrittura, la tecnologia, il bar e la società contemporanea. Adesso non ci rimane che dar vita ad un “demone”che avrebbe fatto incazzare a dismisura sia Socrate che Heidegger, ovvero, una sorta di ibrido tra letteratura e tecnologia. Lo smartphone, anzi, lo smartphone rapportato al bar.
Grazie al recente sviluppo della tecnologia mobile, ciò che è scritto è alla portata di chiunque in qualunque momento e se ponete una domanda del tipo: “chi è David Bowie?” basteranno una manciata di minuti, ad un qualsiasi individuo, per imparare vita, morte e miracoli del cantante inglese.
Questo potrebbe sembrare un enorme traguardo dell’umanità e in un certo senso lo è, perché se venite morsi da un serpente, grazie al vostro telefono potrete individuare la tipologia di rettile che vi ha morso mostrandola al vostro medico; ma provate a chiedere alla stessa persona, dopo dieci minuti: in che anno è nato David Bowie?
Probabilmente l’individuo in questione vi risponderà -Aspetta che vado a controllare su internet.-. Ecco la dimostrazione che, anche se da un certo punto di vista la nostra vita è notevolmente migliorata, i dubbi di Socrate e Heidegger non erano del tutto infondati.
Avendo imparato che il bar, generalmente, rappresenta una visione alleggerita di una società esterna che, a tutti gli effetti, si arrovella dietro a problematiche più importanti dei compleanni delle rockstar, questa dilagante ondata di qualunquismo tecno-letterario mette davvero i brividi.
Avevano ragione Socrate e Heidegger, quindi? A questo quesito non possiamo rispondere.
Quello che possiamo fare, invece, è l’immaginare un Socrate contemporaneo. Una buona domanda da porsi è: come vivrebbe Socrate nella società contemporanea?
Se si conosce anche a grandi linee la vita di Socrate, non si può dubitare del fatto che il sommo ateniese non avrebbe mai resistito alla possibilità di rompere le palle ad individui che situati in continenti lontani miglia e miglia dal suo, grazie al web.
Ebbene sì. Socrate avrebbe amato a tal punto Facebook da diventare un generatore automatico di spam sulle più disparate accezioni della morale.
Le nostre bacheche sarebbero piene di domande tipo <<Cos’è una buona azione?>> o,<<Definisci la bellezza.>> e via dicendo.
Socrate avrebbe scritto, affrontando il nostro tempo esattamente come affrontò la guerra, il processo per empietà e perfino la sua condanna a morte, ovvero, con estremo rispetto ed eleganza interiore, senza mai abbassare la testa.
Detto questo, Socrate dev’essere stato un rompi coglioni di proporzioni bibliche e in un bar qualsiasi, sarebbe finito in duelli senza fine coi vari Diogene da bancone.

Ferdinando de Martino.

Intervista a Cristian e Veronica Papillo.

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Ciao ragazzi, è un piacere avere l’opportunità di ospitare sull’Infernale due autori emergenti come voi.

In coda al vostro romanzo, che ho trovato spettacolare, ho letto i motivi che vi hanno portato a scrivere SCIA DI SANGUE IN ALTO MARE. Mi piacerebbe fare arrivare anche al pubblico dell’Infernale il vostro messaggio e le motivazioni che hanno portato alla nascita del vostro libro. Vi va di raccontarcele?

La motivazione è semplice: vogliamo che i nostri lettori si possano immedesimare nell’amore di Ettore e di Mary e di rimando nel nostro. L’ispirazione nasce circa un anno fa quando lontani a causa del lavoro ci ritroviamo a pensare al nostro viaggio di nozze e a come sarebbe potuto essere una location perfetta per l’ambientazione di un thriller. 

Personalmente ciò che ho amato di più del vostro romanzo è la sua “incatalogabilità”. Mi sono trovato davanti ad una serie di pagine estremamente erotiche, pagine thriller e thriller psicologico, tinte molto cupe in certi punti e addirittura delle venature splatter, il tutto senza mai togliere realismo alla trama principale. Avete dei modelli a cui vi ispirate? Se sì, quali sono?

Non abbiamo nessun modello. L’ispirazione siamo noi stessi, la nostra quotidianità,  i nostri gesti, il nostro sesso, la nostra passione per il vino e persino i nostri due Scottish fold.

Quanto conta la coppia e il lavoro di coppia per voi?

È fondamentale. Il lavoro è stato costruito insieme così come la nostra vita.

Quanto di voi è presente in Ettore e Mary?

Tanto. Sono presenti delle abitudini,  dei modi di fare e tutto lo “sporco” che c’è nel libro.
Ancora oggi a stesura terminata tra di noi ci chiamiamo per sbaglio con i nomi dei due protagonisti!Molte persone hanno trovato il vostro libro scandaloso, per via dei contenuti esplicitamente sessuali, mentre per quanto riguarda il sottoscritto, mi sono innamorato del lavoro già dopo la prefazione, carica di sesso e splatter. Come giudicate le critiche mosse verso il vostro lavoro?

Ogni lavoro di questo tipo riceve le sue critiche. Noi, non ce ne preoccupiamo in quanto siamo i primi a criticare tutti gli altri!Il libro è stato scritto totalmente a quattro mani o ci sono delle parti scritte da Veronica e parti scritte solamente da Cristian?

Totalmente a quattro mani, consumando litri di caffè! Tornando allo scandalo, credete che questo possa tornare utile per la pubblicità del libro o credete che potrebbe danneggiarne l’immagine?

Il libro è stato scritto prendendo spunto da emozioni personali. Quello che è nato è un prodotto forte che se ne frega della pubblicità cosi come degli scandali. 

Personalmente credo che il vostro libro abbia suscitato scalpore perché il pubblico medio crede davvero che “50 sfumature di grigio sia un romanzo erotico”, mentre il vostro che dovrebbe essere un giallo è dieci volte più erotico di quel mucchio di pagine sfumate di grigio.
Comunque, volevo farvi un ultima domanda… vi andrebbe di pubblicare qualche stralcio del vostro libro on line? Perché mi farebbe molto piacere far conoscere il vostro lavoro ai lettori del mio blog.

Aprendo una parentesi sulle 50 sfumature, noi apparteniamo a quella categoria di persone stufe di vedere nelle librerie pile di libri sul classico bello, ricco e pervertito e brutta, sfigata e asessuata.  Ettore e Mary sono erotici in quanto  marito e moglie e anche se alla maggior parte delle coppie quello che stiamo per dire sembrerà irreale, essere marito e moglie è la forma più pura e allo stesso tempo sporca dell’erotismo. Perfetto, allora vi ringrazio per l’intervista e vi auguro una buona giornata, ma non prima dell’ultima domanda (sì, lo so che l’ultima doveva essere quella precedente).
Da fan del vostro romanzo, mi sorge spontanea una domanda: avete già immaginato un possibile seguito per Ettore e Mary?

Ci sono due lavori in corso. In uno li troveremo a Parigi alle prese con un branco di stronzi e l’altro, molto probabilmente verrà ambientato nella valle del Lujo dove viviamo noi.
Questo invece è un appello che facciamo noi, a tutti gli innamorati, a quelli che ci credono davvero e a quelli che lottano per realizzare i propri progetti: noi abbiamo fatto tutto da soli e credetemi completamente e totalmente SOLI, ma la realtà è che quando accanto a sé si ha la persona che Dio ha creato per noi, si può fare qualunque cosa, anche scrivere un romanzo e vedere avverati i propri sogni.

Ferdinando de Martino.