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JOHN WICKER | DREAM | presto su Amazon

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Stiamo lavorando agli ultimi ritocchi al nuovo romanzo di John Wicker “DREAM” e mi ritrovo qui, con questo romanzo tra le mani .

Partire con il progetto editoriale dell’Infernale è un piacere inimmaginabile.

Le uniche anticipazioni che possiamo darvi sono relative al genere: DREAM  è un misto tra la classica narrativa weird e l’horror grottesco.

Ho iniziato a leggere le prime pagine di questo romanzo e mi sono sentito subito trascinato in un mondo fatto di avventure in tinte cupe e vite normali, tramutate in qualcosa di estremamente prezioso.

Sono sicuro che avrete avuto il tempo di apprezzare questo scrittore sul nostro portale, leggendo i suoi racconti e se non l’avete ancora fatto… potete trovarli qui: http://linfernale.altervista.org/j-wicker/

Comprare un libro è un po’ come firmare un contratto con se stessi, una sorta di sfida contro il mondo esteriore pre accrescere quello interiore.

 

John Wicker è uno scrittore sensazionale, capace di commuovere ogni molecola del corpo del lettore.

A breve parleremo anche della trama del primo volume di questa trilogia.

Ah, è vero… mi ero dimenticato di dirvi che DREAM sarà una saga d’autore.

Un saluto a tutti i lettori del blog

 

Ferdinando de Martino.

Scrittura creativa | DESCRIZIONI CONVINCENTI | di Ferdinando de Martino

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Una delle regole basilari della scrittura è stata ampiamente descritta da autori come Hemingway: SEMPLICITÀ
Il problema della semplicità come concetto letterario è abbastanza particolare, perchè per quanto possa risultare ironico, non è semplice essere semplici.
Partiamo dal concetto di semplificazione.
Leviamoci dalla testa che semplificare voglia dire tagliare, no… tagliare vuol dire tagliare, mentre semplificare e una mera questione di punti di vista.
Per spiegare al meglio questa cosa, utilizzerò un semplicissimo esempio propedeutico alla semplificazione.
Nella narrativa contemporanea, la semplificazione è sinonimo di verità e tutto ciò che non risulta vero diventa automaticamente artefatto o complesso.
Ma come facciamo ad essere veri?

Prepariamo un soggetto per un incipit:

Una ragazza legge una lettera, seduta nella sua cucina.
Abbiamo il soggetto e adesso proveremo a realizzare in maniera veritiera questa scena, partendo da un modo grezzo di descrivere il tutto.

Marta stringeva tra le mani la carta porosa di quella lettera, contenente una risposta che attendeva ormai da troppo tempo.
La cucina era silenziosa, quasi come se stesse aspettando qualcosa di ancestrale.

Vedete? Abbiamo la cucina, la ragazza e la lettera; oltretutto abbiamo usato anche il termine “ancestrale”, quindi dovremmo essere dei fighi… invece, manca la verità.

Come arriviamo a ciò che è vero? Cambiando prospettiva.
Quando raccontiamo una storia, siamo davanti ad una tastiera. Questo è il primo errore: quando scriviamo una storia, dobbiamo essere all’interno della storia.

Se entriamo in quella cucina, vivremo l’ambiente, ma questo non vuol dire che dobbiamo metterci a descrivere ogni oggetto e sensazione, perchè Proust è già esistito. Quello che dobbiamo fare è vivere in maniera reale tutto ciò che ci circonda.
Limone. La fragranza del detersivo per i piatti che stagnava nel lavandino era sicuramente limone.
Riusciva ad infiltrarsi nel legno, passando per le intercapedini, tra i muri, sotto le sedie e perfino nelle narici di Marta, impegnata a sfiorare la colla appiccicaticcia di quella busta.
La sedia scricchiolava, interrompendo gli attimi di silenzio in cui si perdeva in mille divagazioni.

Abbiamo la cucina, anche se non è stata nominata, abbiamo la busta, la sedia e Marta ma la verità è data esclusivamente dai sensi implicati nella descrizione.
Non c’è nulla di visivo, perchè in questo caso ci siamo affidati solamente all’olfatto, all’udito e al tatto, eppure il lettore ha la scena davanti agli occhi: una ragazza legge una lettera, seduta al tavolo della sua cucina.
Il lettore non è uno stupido, anzi, nella maggior parte dei casi è più intelligente dello scrittore, perchè il tempo che lui impiega a battere le parole sulla tastiera, il lettore lo impiega leggendo e questo la dice molto lunga su tutta la questione.

Non dobbiamo mai dimenticarci che un libro è intrattenimento e l’intrattenimento è interattivo: mai dare troppo o troppo poco.
Dare il giusto al nostro pubblico, significa semplificare la narrazione con espedienti sensoriali, atti a gettare il lettore all’interno della storia, facendolo sentire parte integrante di quel magico processo che è la letteratura.

 

Ferdinando de Martino.

Lo specchio convesso | un racconto di Emil Brune

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Nel piazzale davanti al reparto di ostetricia non c’era anima viva. Regnava una calma inusuale. Quasi come se la città – o forse il mondo intero – si fossero fermati per ascoltare in silenzio il prodigio che stava per avvenire nel palazzone alle sue spalle. Karla, la sua unica figlia stava per spingere nel mondo il suo primo nipotino. Erano mesi che si preparava a quel giorno. Lo scorrere del tempo lo aveva rassicurato e agitato allo stesso tempo. Si era pian piano convinto che sarebbe riuscito ad affrontare quel momento con una maggior calma ma, quando tentò di accendere per la terza volta la sigaretta che gli penzolava tra le labbra, si rese conto di come i suoi buoni propositi fossero andati allegramente a farsi benedire.
“Nessuno ti prepara alla vita”, pensò. Ti ci ritrovi dentro, tuo malgrado, e provi a fare del tuo meglio. O il tuo peggio. Dipende dalle inclinazioni.
Le orme delle sue scarpe sulla neve rendevano il tratto di asfalto – che aveva designato di sua competenza -simile al manto di un dalmata. Continuò a girovagare come un detenuto durante l’ora d’aria finché non scese sua moglie a chiamarlo. Era nato. Piotrek aveva aperto gli occhi per la prima volta.

Quando lo prese tra le braccia, con quel visetto tutto deformato e rugoso per la lotta del parto, sentì il cuore esplodergli per la gioia. Anche se l’espressione non descrive con esattezza ciò che gli stava crescendo nel petto. Era un’euforia che non accennava ad abbandonarlo. Voleva ballare, cantare, fare le boccacce agli inservienti nei corridoi dell’ospedale. E lo fece. Con quell’esserino tra le braccia, incominciò a danzare cantando, ad ampi passi in giro per la nursery. Pianse e ringraziò un onnipotente in cui non credeva per quella creatura che stringeva tra le braccia.
Era una sensazione più grande di lui. Se quello non era il verbo di Dio, tramutato in un minuscolo fagottino rosa, allora Dio non aveva mai proferito parola. E mai lo avrebbe fatto.

Le settimane successive furono estenuanti, ma piene di allegria per tutti. Non c’era un solo membro della famiglia che non fosse stato travolto dalla potenza dell’avvenimento. Era come se un gigantesco e invisibile controllore avesse revocato loro la possibilità di avere una giornata storta o di provare anche il più minuscolo momento di infelicità.
Ebbe la sua generosa porzione di notti insonni, di pannolini da cambiare e rigurgiti sulle camicie da lavoro ma, in fondo, era come se non avesse mai desiderato altro.
Dopo due mesi imparò per l’ennesima volta l’importanza del rito. Ogni volta che andava a casa della figlia a trovare il nipote, appena un attimo prima di varcare la soglia, emetteva due fischi. Uno corto e uno più lungo, ravvicinato al precedente. E, appena entrato nell’appartamento, sapeva di aver già guadagnato il sorriso più dolce del creato. Senza colpo ferire.
Quando arrivava il momento del riposino ordinato dalla rigida tabella di marcia stabilita dalla madre, lo prendeva con sé e lo portava sul terrazzo. Appoggiava la piccola schiena contro il suo petto e gli mostrava le luci della città – mai doma – canticchiandogli Your song.
La sua mamma gli aveva trasmesso la passione per Elton John, che volete farci.
In quei momenti, il bambino cercava nell’aria il lobo del suo orecchio e glielo afferrava. Poi lo guardava. E il tempo sembrava fermarsi di fronte a quei due abissi color nocciola.
Subito dopo iniziavano le rugne di supplica per il lettino. Allora lo adagiava dolcemente fra le coperte dove, tra un gemito e l’altro, finiva per addormentarsi.
Il nonno materno ne approfittava per riposarsi in cucina di fronte a un caffè e allo sguardo della figlia che, solo allora, stava imparando a riconoscere come quello di una giovane madre.
Una lenta e straordinaria mutazione.

Il rumore e l’aroma del caffè che gorgogliavano fuori dalla caffettiera si diffondevano nella casa penetrando  nel sonno del bambino. Ne avvertiva il profumo nei suoi sogni di forme e colori indistinti. Una sensazione rassicurante che lo cullava, spingendolo a sorridere tra giraffe e orsi di peluches.

Passarono sei mesi, e l’entusiasmo che aveva regnato in precedenza era meno definito. Viveva più di fiammate che di un’estasi continua. Ovviamente questo non valeva per i genitori. Così come non valeva per il nonno, che continuava eroico nei suoi sforzi, tra le anonime ore di lavoro e l’amore che gli rubava quella piccola creatura.
Decise che voleva fare qualcosa di speciale. Qualcosa che sarebbe durato per sempre. Che non si sarebbe consumato con lo scorrere del tempo. Voleva una sensazione pura, nitida, che rimanesse incastrata per sempre nella coscienza del bimbo. Aggrappata all’uomo che sarebbe diventato. Come l’odore della minestra di verdure della nonna. O il latrato del cane alla vista dell’ombra dell’ennesima bicicletta vagante.
Una notte, dopo un pomeriggio da cancellare dal calendario con la dicitura ‘il peggior mal di denti del mondo’, Piotrek era finalmente a letto.
Dormiva spesso su un fianco. Per questo gli risultò particolarmente semplice posizionare uno specchio convesso sul bordo della culla, in modo che si potessero vedere vicendevolmente senza alcuna difficoltà. Infilò la testa dentro il box facendo sì che la superficie argentea avesse in un’estremità il suo volto, e dall’altra quella del suo piccolo gioiello. Lo stereo diffondeva una vecchia e malinconica melodia.
Le petite fille de la mer.
Avvenne esattamente quello che aveva sperato. Vide quegli occhietti – gonfi di sonno – spalancarsi di meraviglia. Attraverso lo specchio, i loro sguardi si scontrarono per un secondo che durò quanto la vita dell’universo. Il bambino sorrise. Lo stesso fece lui. La canzone era finita e Piotrek dormiva.
Fuori dalla porta trovò sua figlia che lo aspettava in vestaglia accompagnata da una tazza di caffè.
Lo sorprese con lo specchio ancora in mano.
Con un sorriso leggero e assonnato gli chiese: – Che stai facendo papà? –
– Creo un ricordo. Forse una sensazione – le rispose semplicemente sorridendole di rimando.
Ripeté il rito un gran numero di volte, fino al giorno in cui il bambino non fu troppo grande per dormire protetto da sbarre. Non ne parlò mai con nessuno: era geloso di quell’intimità.
Quei sorrisi nello specchio e quella musica erano solo loro. Di nessun’altro.

Mentre passeggiava nervosamente davanti al casermone color confetto cercò di accendere per tre volte una sigaretta che era ormai consumata. Aveva sempre una gran voglia di andare a trovarlo ma, puntualmente, quando parcheggiava il motorino davanti all’edificio provava solo nausea e l’impeto irrefrenabile di scappare lontano da quel posto.
“Ospizio”.
Che brutta parola.
– Si chiamano case di cura, Piotrek. Smettila di chiamarlo ‘Ospizio’. Gli ospizi hanno le blatte sotto i letti e disgustose cene liofilizzate. Non ho messo tuo nonno in una stamberga per moribondi rincoglioniti. Sta in una casa di riposo, seguito e curato come meglio non potrebbe – gli diceva la madre.
– Come vuoi ma’. Ospizio, casa di cura, chiamala come vuoi. La sostanza non cambia – le rispondeva con la vena polemica che solo un ragazzino di 17 anni può covare nella testa.
Entrò nel complesso residenziale. Ogni volta che attraversava quei corridoi perlacei – conditi da sguardi vitrei, fredde cataratte azzurrine e capelli furibondi – si sentiva smarrito. Nelle sue orecchie risuonava il rumore delle pantofole della vecchina della 209 che sfregavano sul pavimento.
Sembrava che volesse tirare a lucido la lingua verdastra che divideva le stanze degli ospiti (nella sua testa, in realtà, camminava ancora in casa sua, col marito morto e i due figli traditori).
Flebili cantilene arrivavano dalla zona ristoro, vacue e acute risatine riecheggiavano nel corridoio, mentre il ragazzo passava in rassegna le flebo e le lettighe prima di arrivare alla camera del nonno.
Era una sensazione estenuante. Come se ogni parte del corpo – persino i suoi pensieri – si gonfiasse di sabbia. E il peso di ogni granello lo trascinava sempre più a fondo mentre ribadiva a sé stesso – per la centesima volta – che quella non era altro che l’anticamera della morte.
Ogni volta che andava a trovarlo stava vicino al letto elettrico tenendogli la mano, accarezzandola con lentezza, percorrendo amorevolmente ogni scanalatura di quella pelle secca e fragile come carta velina.
Gli parlava di tutto. Della scuola, le prime scopate, delle serate passate con gli amici a suonare, ridere e bere. Gli raccontava dei capelli color rame di Alice. O del profumo della sua pelle. La nota sul registro perché aveva inneggiato all’anarchia davanti al professore. Le gite domenicali. Della sua giovanile voglia di rivalsa sul mondo. Il profumo dell’erba che aveva incontrato nei campeggi estivi. Gli raccontava, quasi come se non facesse parte di quel ricordo, di quando avevano marinato un giorno di scuola assieme solo un paio d’anni prima.  Dopo aver pranzato in un ristorante erano semplicemente evasi dal tavolo. Il tutto ridendo come ossessi mentre scappavano dal cameriere.
Una volta gli aveva persino confidato di essersi innamorato. Non lo aveva detto nessuno. Neanche a lei.
Non gli importava che il nonno non proferisse parola, o che il suo sguardo raramente si spostasse dalla sua innaturale fissità.
Quel giorno, invece, entrò in camera animato da uno spirito rivoluzionario. Quasi garibaldino. La sensazione di pesantezza dovuta alla consueta marcia nel corridoio della morte era già evaporata.
Si tolse la giacca, riscaldò col fiato le mani gelide e, con la cura che si offre solo a un neonato, girò il vecchio sul fianco. Poi gli mise un auricolare nell’orecchio.
Qualche ora prima aveva comprato uno ‘specchio convesso’. Così lo aveva chiamato il negoziante.
Lo tenne in mano mentre si ranicchiava nel letto all’altezza delle nodose ginocchia del nonno.
Lo posizionò nel punto giusto. Poi fece suonare ‘la piccola ragazza del mare’.
Con lo sguardo nello specchio, rivolto in alto, verso quel volto stanco e grigio, si sentì pienamente al sicuro dopo tanto tempo.
Era semplicemente…un attimo che durava quanto la vita dell’universo. Conteneva la stessa potenza. La stessa importanza.
Si perse nella musica e nelle immagini riflesse.
Per un attimo ebbe la fugace sensazione di sentire il suo sguardo ricambiato.
Di vedere un sottile incresparsi di labbra. Il sorriso di una frazione di secondo, perso nei ricordi di un bambino ormai uomo.

 

Emil Brune

BRUXISMO | Un racconto di Emil Brune

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La tapparella si alza di scatto con un fracasso da circo e la luce di una qualsiasi mattina inoltrata mi violenta le cornee. Strizzo tra le dita il piumone sbuffando incazzato.

– Alzati, coglione – sbraita Roberta uscendo dalla stanza

Senza preoccuparmi troppo di togliere la faccia dal cuscino le bofonchio di andare a farsi fottere. Speriamo che il suono si sia propagato comunque e l’abbia raggiunta.
“Se solo avessi la telepatia”.
Sciacqua faccia. Radi. Lava l’involucro. Dirigiti – velocità da crociera – verso la cucina per pasto frugale.
Pilota automatico: gran sballo.
Invado la zona fornelli e bacio mia madre

– Ave Mater
– Ave figlio. Frittata? – risponde alzando gli occhi cielo. Non lo ammetterà mai, ma la diverto un mondo. Sappiamo entrambi che è così.
– Mancata prole di pollame, perché no. Mettiamoci anche delle fette di suino, crepi l’avarizia. Un bell’eccidio multirazziale per cominciare l’uggioso giorno – declamo sorridendo.

Mentre si volta verso il frigo per prendere il necessario, abbasso i pantaloni del pigiama, guardo Roberta seduta al tavolo col naso tra i cereali, le mostro la schiena e sussurro un – baaaciamelo – porgendole le natiche nude. Mi guarda con aria divertita sventagliandomi in faccia il medio.
Dolce routine quotidiana. Anche se non sono rotto, mi accomodo a tavola e aspetto il lieto convivio. Con lo sguardo perso nel vuoto, ancora preda del torpore del sonno, avverto una vibrazione sottile che anima il pavimento. Percepisco un rumore in avvicinamento, senza riuscire ad identificarlo. A questo punto mia madre ha smesso di cucinare. Se ne sta lì, impietrita, col mestolo in mano, a guardare noi due.
Nessuno parla. Le uova carbonizzano nerastre.
Dalla porta a vetri della cucina ho una comoda visuale sulla strada. Vedo un’onda dirigersi verso di noi dall’orizzonte. La sento arrivare. Il rombo aumenta. Si espande in ogni direzione mentre segue il suo cammino verso casa nostra, inghiottendo ogni cosa. Bidoni dell’immondizia, pali, cassette delle lettere e passanti spariscono sotto la sua mole. Divora tutto e tutti.
La vedono anche Roberta e mamma. Urlano. Si urla sempre di fronte all’incomprensibile. Davanti all’orrore sfocato non si rinuncia mai a svuotare i polmoni.
Io no.
Resto lì, impalato. Non ho neppure il battito accelerato. Però…cazzo che male in bocca. Sento lo smalto liscio che sfrega.

Cani. Sono…cani. A centinaia, forse migliaia. Di qualsiasi foggia, razza e dimensione. Mastini con bocche ringhianti, Volpini caracollanti che finiscono per essere schiacciati dalla corsa dei Dobermann. Chiwawa rigurgitanti saliva cavalcano Pastori Maremmani come ussari alla carica. È un incendio di peli che nessun canadair potrà mai spegnere. La piena di un fiume pulcioso che, alla fine, si schianta contro la nostra vetrata.
Mia mamma grida di scappare. Di uscire di là. Roberta trema inerme. Io osservo interessato. Placido.
Ma la mandibola inferiore cozza e sfrega con quella di sopra.
“Fanculo che fastidio”.
Ho giusto il tempo di sentire lo schianto di cristalli in frantumi e vedere il volto di mia madre sparire tra le fauci di un Dogue De Bordeaux per poi ritrovarmi in strada.
Non ho idea di come ci sia arrivato. La torma di cani è un ricordo remoto, sfocato, come un sogno raccontatomi da un estraneo un’eternità fa. Mentre eravamo marci d’alcool, per giunta.
Strana sensazione.
Non dovrei essere nervoso, ma le ossa da grugno digrignano e cozzano fra loro. Le sento sbriciolarsi fino a raggiungere la polpa. Me ne rendo conto ma non posso fermarlo. Non sono io a tirare le redini.

Non avrò il controllo della bocca ma, a quanto pare, mi è ancora permesso avanzare. Quindi lo faccio. 
M’inoltro verso ovest sul vialetto ordinato. Dopo pochi passi incontro il vicino, il signor chisseloricorda, che innaffia il prato dietro il suo steccato color ‘celeste sogno di fata’.
Che nome stronzo.
– Ma buongiorno, mio giovane amico! – mi trombetta giulivo sotto i baffoni bianchi.
– ‘Giorno – rispondo vago mentre cerco di tirar dritto.
– Ma dove corre così veloce, caro ragazzo? Sì fermi per una tazza di tè…o per una limonata, se preferisce – mentre il suo pancione si svuota d’aria scorreggiando parole, ho l’impressione che qualcosa nella sua voce stia mutando innaturalmente.
– No, grazie, sono di fretta – butto lì allungando il passo.
– Ma lei ha appena avuto una forte scrollata canina presso il suo domicilio! Un’imponente precipitazione canide di livello otto –
Cazzo. Cazzo, merda, cazzo. Merda, cazzo e poi merda. La sua voce…è quella di una bambina. Come se parlasse in falsetto. Un maledetto eunuco da opera.
Per la seconda volta, il mio corpo reagisce alla paura in maniera scoordinata: niente palpitazioni o sudori.
Ma, in compenso, ricevo in premio una scarica di agonia sui quattro incisivi.
“Quasi mi mancava”, penso ironico mentre metto la mano sulla bocca, instupidito dal dolore.

– E poi… non vede che ha i denti a pezzi? Suvvia, sia ragionevole, e si accomodi nel mio domicilio. Da bravo, vedremo di contattare subito un dentista e, mentre aspettiamo, potrebbe bere una limonata ghiacciata seduto sulle mie ginocchia! Che ne dice? – miagola sornione con quella vocetta da bimbetta.

Subito dopo, giuro su dio, quel tricheco bastardo mi fa l’occhietto. Apro la bocca per dirgli che la limonata può infilarsela dove l’aria passa di rado ma, come spalanco le fauci, schegge perlacee e sangue vermiglio saettano ovunque.
Schizzi imporporati toccano il suolo mischiandosi alla polvere. Frammenti d’ebano decorano i ciuffi dell’erba ammaestrata dal flebile vento autunnale.
Urlo. Finalmente urlo.

Alzo il busto dal materasso che sto ancora gridando.
Madre e sorella frullano per la stanza come robottini impazziti chiedendomi se sto bene.
– Tutto okay. Solo uno strano incubo. Non ricordo granché – borbotto.
E vai col pilota automatico. Lava l’involucro. Sbarba le guance. Spazzola la dentatura indolenzita.
Poi, finalmente, l’itinerario prestabilito fino alle uova nel piatto.
Incomincio a carburare e riprendo energia. Lo strascico nerastro di quella follia notturna abbandona il mio cervello, così come il formicolio in bocca.
Mi scrollo di dosso i vaghi incubi della notte precedente, ricordando solo l’agonia dei denti spezzati.

Routine, dolce routine. Il percorso nel mondo degli automi, le lezioni e i caffè, le sigarette in compagnia di discorsi da sagra di quartiere e il chiacchiericcio di sottofondo. Il bla bla bla che arricchisce noi tutti, sfarzosi poveri di idiozia e noia.

Sono in uno stanzone piastrellato in bianco. La luce al neon sopra il tavolone di metallo si riflette sulle mattonelle delle pareti dando vita a un’atmosfera da fantascienza. Addosso ai muri si appoggiano mensole metalliche abitate da strumenti operatori. Storti arnesi da tortura si affacciano dagli scaffali. Becchi arcuati, pinze seghettate, vaschette metalliche e punteruoli mi osservano algidi.
Mia madre è appena uscita, lasciandomi solo con quel corpo livido: sul tavolaccio autoptico riposa quella che fino a dodici ore prima era mia nonna.
Mi avvicino a lei e sfioro appena quelle dita che non potranno più accarezzarmi. Guardandola, comincio a elencare mentalmente tutto ciò che mi è stato strappato via con la sua morte. Se ne vanno i ricordi, alcuni condivisi, altri, per me troppo lontani da raggiungere. Persi nella memoria del bambino che sono stato.
Se ne vanno assieme a questo corpo grigio e stanco.
Spariscono i racconti del passato e libri letti assieme. Non ci saranno più Sir Conan Doyle, Edmond Dàntes o Martin Eden. Le loro storie non prenderanno più forma attraverso la sua voce.
Ne resterà il ricordo, forse.
La realtà intorno a me è vacua e torbida. Confusa. Dentro quel corpo non c’è più nulla. Solo organi inerti, liquidi e gas che presto evaderanno dalle cavità senza alcuna cura o gentilezza: il dispetto finale.
Le accarezzo i capelli e – abituato come sono a vederglieli cadere sulle spalle in eleganti boccoli rossicci – mi fa strano sentirli passare fra le dita. Sono stopposi, sfilacciati e lisci.
Compiere quel gesto inusuale mi frantuma.
“Quale nipote accarezza i capelli della propria nonna?”
Non ha senso. Tutto questo è semplicemente…sbagliato.
“Non voglio che te ne vada”.
Il canino destro mi fulmina con un picco di agonia lancinante.
Per una frazione di secondo socchiudo gli occhi, in attesa che il dolore passi e, quando li riapro, la sua testa è piegata su un lato, verso di me. Mi osserva, silenziosa. La morsa d’acciaio dell’ansia stritola i miei polmoni. “Dev’essere un sogno. Deve esserlo”.
Poi, sorride. Stordito, le sorrido di rimando.

– Ma…che…ma che diavolo succede?
– Shh, da bravo. Fatti dare un’occhiata prima di andare.
– Ti voglio bene, nonna – sussurro con un alito di voce al cui interno c’è tutto me stesso.

Quegli occhi nocciola, che sono anche i miei, mi regalano un ultimo saluto. Nelle loro profondità c’è l’amore abissale, che non teme né le ingiurie del tempo né l’eternità della morte. Desidererei che potesse restare qui, per sempre, ma mentre rimette la testa in posizione e chiude gli occhi, so che non le è permesso. Deve rispondere – come tutti – al comando più grande. Così la lascio andare.
La luce del neon traballa mentre piango. Mi inginocchio continuando a stringere la sua mano gelida.
“Non andare. Non ora. Resta con me”.
Il neon smette di sfarfallare. Tra le lacrime che mi offuscano la vista, osservo il mio canino insanguinato sul pavimento.

Lanciando via le coperte sudate, sento ancora addosso il peso una tristezza ignobile. Di quella malinconia bastarda che si intorbidisce nel cuore. I miei denti sono in fiamme, poi, ricomincia lo show: via la barba, lava il sottobraccio, sciacqua il volto. Trascinati – come lo zombi che sei – verso tristi fiocchi d’avena.
Mentre mangio, guardo il muro, apparentemente disconnesso.

– Stanotte ho sognato nonna – annuncio cupo.
– Capita a tutti, credo – risponde Roberta senza alzare lo sguardo.

Stramaledetta routine. Perdi la cognizione del tempo e dello spazio. Stessi luoghi, stessi volti. Inabissati negli schermi sociali, perdi quotidianamente la dignità esibendoti come un pavone daltonico. Rinuncia a serenità e al desiderio di contatto. E allora vai, cammina tronfio, ostentando apparenza. Incazzati come un demonio quando la cassetta degli attrezzi non si chiude più. Cacciaviti, tenaglie e brugole non ritornano docilmente al loro posto, quasi fossero i pezzi sconnessi della tua vita.
Apro internet e navigo tra sogni di denti. Nulla di buono: lutto, mancanza, morte di persone care e via dicendo. “Ottimo. Non potevo desiderare di meglio”.
Denti. Denti. Denti.
Continuo coi miei sogni di dentina in frantumi e polpa esposta e sanguinante. Sento l’aria gelida scorrermi tra i tronconi dei cadaveri bianchi che ho in bocca. Notte dopo notte.

Sono in uno spazio buio. Passo la mano davanti agli occhi ma non riesco a vederla. Provo ad alzarmi, ma non ci riesco. C’è un muro a trenta centimetri dal mio corpo. Sono disteso fra due pareti d’acciaio.
Poi, cristo, una forza mostruosa mi scaraventa all’incazzata a destra e poi a sinistra, manco fossi in una centrifuga. Sento nuca e schiena sfregare sul pavimento mentre brandelli di carne prendono commiato dal mio corpo. Va avanti così per un tempo senza limite.
Dopo di che, pesanti – e colorate – forme geometriche cominciano a lampeggiare nell’oscurità. Mi vengono bruscamente incontro, per poi fermarsi immediatamente davanti agli occhi.
“Mi schiacceranno. Cazzo, mi spappoleranno al suolo. Mi disintegreranno”.
La bocca mi viene spalancata a forza. Qualcosa di cilindrico e zigrinato mi scava fra le labbra: ho decisamente un tubo tra i denti. Vengo sballottato così, senza sosta, a destra e sinistra. Il dolore è insensato. Sento i denti disintegrarsi per lo sfregamento abrasivo. Proprio quando penso di stare per morire dall’agonia, la forza si placa, lasciandomi sospeso in quell’incubo nero.
Respiro all’impazzata per lo shock. Nuove corone spuntano espellendo i monconi insanguinati. Poi ricomincia. Lancette invisibili scorrono incalcolabilmente durante la tortura. Svengo. Non sento più nulla.
Quando riprendo i sensi sono ancora avvolto dal buio. Vorrei urlare, ma non posso: i denti sono ormai troppo lunghi per permettere alla mascella di articolare qualsiasi movimento.

Mi sveglio e sono sereno. Tutto è passato non appena ho aperto gli occhi. Niente dolore sulle arcate, né ansia o preoccupazione alcuna.
Io sono lexotan.
Mi alzo a fatica, ma riesco comunque a mettermi seduto, nonostante le braccia mi strozzino il torace.
Non ci sono più quadretti con volti sorridenti alle pareti. Niente computer, bandiere, foto, boccali da birra o sorelle che mi svegliano scherzando. La luce dell’alba che filtra attraverso la grata della finestra illumina un paio di pantofole bianche e spente pareti grigiastre.
Nel mio abbraccio forzato, con le mani appena sotto le scapole, mi osservo allo specchio.
Le cinghie tintinnano.
Guardo le mie labbra distrutte, poi…spalanco. Scruto nelle ritmiche cavità, e mi dò il buongiorno col mio migliore – e roseo – sorriso.
Finalmente sono libero.

 

Emil Brune

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di JOHN WICKER

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Sharon se ne stava accasciata a terra, tenendo suo fratello in braccio. Il coltello da carne penzolava pericolosamente vicino al viso piangente del piccolo Bruce.
Lo sguardo della ragazza era assente, quasi come se avesse visto negli occhi il reale volto del male.
Jack Milton si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore. Succedeva ogni notte.
-Tutto bene, tesoro?- chiese, ancora assonnata, Darline.
-Tranquilla cara… tranquilla.
Era passato un mese, ma Jack non era ancora riuscito a dimenticare ciò che era successo in quella casa.
Anche Darline faticava molto a prendere sonno, ma non le capitava mai di svegliarsi nel cuore della notte, in preda ad attacchi di terrore notturno come succedeva a lui.
Andavano a trovare Sharon ogni due giorni, nella clinica privata che l’aveva presa in cura. Schizofrenia. La diagnosi parlava chiaro.
La loro primogenita di diciassette anni era schizofrenica ed era monitorata ventiquattr’ore su ventiquattro.
Jack sognava quel momento in continuazione, ponendosi sempre la stessa domanda: cosa sarebbe successo se lui non fosse entrato in tempo in quella stanza?
Sharon avrebbe brutalmente ucciso il suo piccolo fratellino? Sarebbe realmente stata in grado di fare del male ad una creatura così piccola ed indifesa?
Come avevano potuto non accorgersi dei sintomi della malattia mentale della loro primogenita?
Lui passava molto tempo a lavoro, ma aveva sempre avuto un rapporto splendido con Sharon. Lei gli aveva sempre detto che lo considerava più un amico che un padre.
Quando era piccola, lui era solito guardarla intensamente prima di rimboccarle le coperte e dirle -La principessa di papà ha bisogno di un bacio scaccia mostri?
Lei rispondeva sempre -Facciamo due.- e scoppiavano entrambi a ridere.
Il tempo delle risate era finito. La sua principessa era costretta in un lettino, imbottita di psicofarmaci per impedirle di fare del male a qualcuno o addirittura a se stessa.
Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Lungo il tragitto si fermò davanti alla camera di Bruce. Era tutto a posto. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di fare del male alla sua famiglia.
Una volta in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bel bicchiere d’acqua. Probabilmente l’avrebbe aiutato a dormire.
Quasi senza un reale motivo, decise di andare in bagno, nonostante non sentisse nessun impulso fisiologico.
Voleva guardarsi in faccia. Voleva ricordare a se stesso che dietro quel volto c’era ancora un uomo in grado di difendere la sua famiglia.
Non accese nessuna luce, perchè la porta a vetro della camera da letto di lui e sua moglie si trovava nella traiettoria del bagno e non voleva svegliare Darline una seconda volta.
Il turno di mattina la stava uccidendo di stanchezza e le sue crisi notturne non l’aiutavano di certo.
Doveva ritrovare la sua tranquillità in un modo o nell’altro. Quell’instabilità interiore finiva per ripercuotersi anche sul suo lavoro. Era sempre stanco e assonnato e quando i musicisti gli domandavano come fossero andate le registrazioni, lui rispondeva senza aver realmente ascoltato il lavoro appena inciso.
Le orecchie andavano ancora bene, ma il cervello era proprio da un’altra parte.
Gli affari al suo studio di registrazione andavano alla grande, ma da lì a perdere tutti i loro clienti per negligenza, era un niente.
Si sciacquò il volto con dell’acqua ghiacciata e sollevò il suo sguardo nello specchio. Nel bagno c’era qualcuno assieme a lui. Un riflesso distinto di un uomo sulla quarantina, sporco e arruffato era apparso nello specchio.
Un grido sovrumano uscì dalla gola di Jack che crollò a terra, terrorizzato.
Non c’era nessuno dietro di lui. Il bagno era vuoto.
Cosa diavolo era stato? Un’allucinazione? La mancanza del sonno? Forse stava impazzendo. Prima sua figlia e adesso lui.
Uscì dal bagno ancora in stato di shock. La luce dalla camera da letto sua e di Darline era accesa. Probabilmente sua moglie aveva sentito le grida e si era alzata per l’ennesima volta.
Non era un’allucinazione. L’uomo che aveva visto in bagno era entrato dentro la camera del piccolo Bruce.
Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua famiglia. Non faceva altro che ripetere mentalmente quella frase, dall’incidente avvenuto il mese precedente. Adesso era arrivato il momento di dimostrare a tutti che era un uomo perfettamente in grado di difendere la sua progenie.
Correndo come un forsennato verso la stanza del figlio, afferrò il suo ferro numero quattro dalla sacca da golf che teneva sempre nell’ingresso, per mostrare a tutti che era un golfista sempre pronto al gioco ed entrò nella cameretta.
L’uomo se ne stava accanto alla culla.
Con un fendente, Jack cercò di colpire l’oscura presenza per poi afferrare Bruce e portarlo al sicuro.
-Che diavolo succede?- gridò Darline, entrando nella stanza.
-Ci sono io. Ci sono io. Vattene.
-Che cazzo stai facendo?
-Vai via… scappa.
Darline si accorse immediatamente che c’era qualcosa che stava spaventando a morte suo marito, ma doveva assolutamente prendere il piccolo Bruce, prima di occuparsi dell’uomo.
-Senti, adesso devi darmi Bruce, ok?- disse, cercando di rimanere calma, mentre i demoni della rabbia non facevano altro che impadronirsi del suo corpo.
-Non posso. Vai via…
-Perchè hai una mazza da golf in mano?
-Tu non l’hai visto.
-Dammi il bambino, Jack.
-No. Non te lo permetterò. Stammi lontana. Io… io devo proteggerlo.
-Ok. Ok. Bene. Ma dimmi solo da cosa devi proteggere Bruce, così posso darti una mano.
-Era… era… oh mio Dio, Sharon aveva ragione.
Un vaso s’infranse sulla testa dell’uomo e il buio spense il ragionamento.
La madre di Darline si trasferì da lei, subito dopo gli avvenimenti che distrussero definitivamente quello che restava della sua famiglia. Erano entrambi schizofrenici, suo marito e la sua primogenita.
Qualcuno doveva averle lanciato addosso un malocchio grande come una casa.
Bruce era tutto quello che le rimaneva. Non riusciva proprio a capire perchè la pazzia di Sharon e Jack aveva dovuto abbattersi sul piccolo bambino che stringeva tra le mani in quel momento.
Oramai Bruce dormiva assieme a lei, in quella che un tempo era stata la camera da letto che condivideva con il suo amato marito, al momento ricoverato all’interno della stessa struttura che aveva in cura anche la giovane Sharon.
Quella notte avrebbe voluto chiudere gli occhi e risvegliarsi indietro nel tempo; precisamente quando la sua vita era ancora degna d’essere vissuta.
Adesso era tutto relativamente facile. Bruce non faceva alcun tipo di domanda, si limitava a poppare, fare dei gran ruttini e nulla di più. Un giorno, nemmeno poi tanto lontano, le avrebbe sicuramente chiesto dove si trovasse suo padre e chi fosse sua sorella e Darline non avrebbe saputo cosa rispondere.
Tempo al tempo… era solamente un neonato.
Sharon si alzò e andò in bagno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, donna dal sonno estremamente leggero.
Fece pipì e iniziò a riflettere sugli avvenimenti che avevano distrutto la sua vita. Non aveva notato nessun sintomo di squilibrio in Sharon, prima che questi si manifestassero tutti in una volta, esattamente come era successo con Jack.
Dal nulla, entrambi si erano scagliati con enfasi sul più piccolo della famiglia.
Sharon aveva cercato di ucciderlo con un coltello, mentre Jack aveva optato per una mazza da golf.
Cos’era successo alla sua famiglia? Cosa poteva aver distrutto il cervello delle persone che più amava al mondo? La pazzia? Il demonio? Non sapeva più a chi chiedere aiuto, ora che anche la preghiera le sembrava un inutile passatempo, privo di ogni tangibile riscontro.
Forse lei era stata scelta da Dio per vegliare sul piccolo ed indifeso Bruce. Poteva essere un’ipotesi, esattamente come poteva essere solamente un modo d’interpretare una realtà orribilmente grottesca.
L’acqua fredda sulle mani le restituì un po’ di colore in viso. Da quando erano successi quegli avvenimenti, la sua pelle aveva perso un paio di tonalità, regredendo dal rosa acceso, fino ad arrivare ad un bianco tendente al blu acceso.
Le occhiaie le circondavano gli occhi, quasi come se volessero proteggerla dal senso della vista, creando un fossato attorno alle sue pupille.
Prese l’asciugamano tra le mani e alzando lo sguardo verso lo specchio, vide un riflesso di terrore su quella superficie che aveva già condannato altri due esponenti del suo nucleo familiare.
Un grido gelido interruppe il sonno di Eleonor, sua madre, che svegliandosi di soprassalto, vide sua figlia correre in camera da letto, con un coltello da macellaio serrato nel pugno chiuso.

J. Wicker

I racconti di John Wicker li potete trovare anche sul vostro Kindle store. Il terrore è portata di click.

Sono stato in palestra e mi sono anche divertito | Il resoconto di uno scrittore in una palestra di lusso | di Ferdinando de Martino.

Qualche mese fa ho visto su YouTube un video in cui John Irving si allena nella sua palestra casalinga, per poi andare a partorire qualche nuovo capoverso che lo farà diventare ancora più schifosamente ricco di quanto già non sia.
Ero convinto che gli scrittori non dovessero allenare il fisico, ma a quanto pare il mondo si accinge a cambiare e seguire il flusso, dovrebbe essere una prerogativa di chi il mondo lo vuole raccontare.
Assieme ad un mio amico che chiameremo Lucio, ho avuto l’onore di essere stato selezionato per passare una meravigliosa e confortevole giornata negli ambienti iper-stimolanti della palestra più cool di Genova: la Virgin.
Lucio doveva passarmi a prendere alle undici in punto, ma è arrivato con un quarto d’ora di ritardo ed io (che avrei dovuto essere pronto alle undici) sono uscito di casa alle undici e trenta perché… perché dovevo fare i bisogni grossi.
Non so se anche John Irving abbia di questi problemi e forse è proprio per questo che non riesco a sviluppare empatia verso la sua narrativa.
Ritardi a parte, entrai in auto alle undici e trentadue, pronto per un meravigliosa e confortevole giornata negli ambienti iper-stimolanti della Virgin.
Il mio outfit non era proprio in linea con quello di un frequentatore abituale di palestre e affini: pantaloni lunghi di una tuta comprata nei primi duemila, cappellino al contrario di una nota marca di amplificatori e una maglietta con un teschio con su scritto -Skate or Die-. In parole povere, veniva quasi da chiedersi se fossi normale a livello mentale.
In macchina cazzeggiammo un po’, facendo qualche battuta sulle palestre costose e via dicendo. Probabilmente dall’esterno dovevamo sembrare come la volpe della storiella… l’avete presente? Quella in cui la volpe si sbatte come una stronza per arrivare all’uva, ma non arrivandoci, finisce per auto convincersi che l’uva fa schifo? No? Beh, la Virgin è la nostra uva.
Mi piacerebbe avere un abbonamento in quella palestra anche solo per non andarci; ma si sa che io non sono uno con tutte le rotelle al loro posto.
Il nostro arrivo è al quanto epocale. Ci piazziamo davanti alle porte automatiche e veniamo completamente ignorati.
Pensiamo ad un danneggiamento della fotocellula e cose del genere, quindi facciamo dei passi indietro, avanti e di lato, ma niente… la porta rimane sigillata.
-Ma non ci fa proprio entrare?
-Hanno sentito l’odore del buono sconto…
Da temerario quale sono, provo ancora una volta a farmi notare dalla fotocellula come una diva della T.V. in astinenza da telecamera, ma anche quella mia ultima performance si è dimostrata vana.
Un secondo dopo ci accorgiamo che l’entrata della palestra è a fianco alla porta automatica e che gli altri sembrano accorgersene senza nemmeno un attimo di titubanza.
Bene. Iniziamo alla grande.
Entriamo, mostriamo i nostri inviti gratuiti, apprendiamo le nozioni basilari per muoversi all’interno di quel luogo chic e per niente pacchiano, in cui sono presenti quattro iMac d’ultima generazione, utilizzabili dai clienti per postare su Facebook le loro mirabolanti avventure nell’opulento tempio della salute anabolizzante.
C’erano delle donne bellissime, uomini bellissimi, bambini bellissimi, tutti così belli da farmi pensare che nessuno di loro aveva ritardato l’arrivo in palestra per fare i bisogni grossi.
Entrammo negli spogliatoi per mettere i nostri zaini negli appositi armadietti. Qui devo aprire una parentesi importante: il lucchetto.
Io ho un solo lucchetto, ma come gli oggetti più importanti e spaventosamente belli… quel lucchetto ha una storia.
Mio padre lo prese nel millenovecentonovantaquattro. Di quell’anno ricordiamo solamente tre avvenimenti degni di nota: il suicidio di Kurt Cobain, il trionfo di Silvio Berlusconi e mio padre che si accinge a comprare un lucchetto da un ferramenta.
Il lucchetto serviva a qualcosa inerente alla scuola, ma non riesco proprio a ricordare che cosa. La parte importante è un’altra, ovviamente.
Il lucchetto in questione è un lucchetto di Forza Italia. Sì. Sono andato in palestra con un lucchetto promozionale di Forza Italia.
Potevamo tranquillamente distinguere i nostri armadietti da un chilometro di distanza, grazie al dubbio gusto di mio padre in fatto di sicurezza domestica.
Lucchetto a parte, entrammo in palestra alle dodici e dieci.
Non so che dire; a me i posti così schiettamente legati al consumismo, piacciono da impazzire. Amo i centri commerciali e i multisala, esattamente come amo la buona letteratura, il buon vino, le massaggiatrici thailandesi e gli incontri di pugilato.
Le persone erano tutte diverse da me e non mi riferisco solamente al fisico scolpito e ad un atteggiamento da “Questa sera vado in discoteca ad uccidere il mio cervello, dopo aver guardato Uomini e Donne”, bensì a qualcosa di più radicato che al momento non saprei proprio definire a parole.
Decidiamo di partire con il tapirulan. Ovviamente i tapirulan della Virgin hanno un televisore incorporato e l’aria condizionata atta a simulare una corsa reale con il vento che ti scompiglia i capelli.
Qui ho notato la prima perversione. Il mio televisore era rotto. C’era il classico schermo grigio e spinoso di quando MTV non prendeva bene e non riuscivo mai a vedere una puntata intera di Beavis and Butthead, mentre il televisore della macchina accanto alla mia, occupata da Lucio, era sintonizzato su “La prova del cuoco” di Antonella Clerici.
Questa l’ho trovata una scelta estremamente dantesca: guardare della gente a caso, cucinare cibi rimpinzati di grassi, zuccheri e chi più ne ha più ne metta, mentre si è impegnati a correre su dei tapirulan per fuggire in maniera estenuante da una forma fisica che ci rende infelice, rincorrendo uno status da rotocalco che di anno in anno ci fa capire cosa è bello e cosa e brutto.
Il tapirulan è una perfetta metafora della vita: hai la reale consapevolezza di star scappando da qualcosa per raggiungere qualcos’altro, ma in realtà non ti stai muovendo nemmeno di un fottutissimo centimetro. Sul tapirulan sei perfettamente immobile in una fuga perpetua e insensata.
Un trainer della palestra mi chiede se vado ancora in skateboard ed io mi chiedo il come mai di una domanda simile, ma poi ricordo la maglietta e rispondo che mi capita di tanto in tanto di risalire in sella ad una tavola, vergognandomi palesemente, vista la mia età.
Non dev’essere proprio normale incontrare qualcuno con delle magliette simpatiche in quel luogo. Sembrano tutti prendere molto sul serio il loro abbonamento alla Virgin.
Dopo un po’ inizio ad aumentare la pendenza, fingendo di resistere tranquillamente, aumentando anche la velocità.
-Cavolo… non ti facevo così ginnico, Ferdi!- dice Lucio.
La realtà dei fatti era che stavo letteralmente morendo dentro, palesando una faccia distesa e tranquilla, esattamente come quella dei broker quando vanno a lavoro, consapevoli di gettare al cesso la loro esistenza per un mestiere più astratto dell’arte concettuale.
La seconda stranezza che ho notato in quel posto è relativa ad un utilizzo a dir poco illegale di un attrezzo.
Una signora ecuadoriana, sulla cinquantina, aveva acceso una macchina di cui né io, né Lucio eravamo a conoscenza del nome e aveva deciso di utilizzarla in maniera poco convenzionale.
In pratica la macchina era costituita da un cuscinetto rigido, un palo e un manubrio con comandi annessi, che lasciava intuire che l’attrezzo in questione andasse utilizzato da in piedi, mentre la donna aveva deciso di utilizzarlo da sdraiata a pancia in giù, con il basso ventre adagiato sul cuscino in questione.
Sia io che Lucio abbiamo pensato ad un probabile uso lapalissianamente errato dell’attrezzo, ma non abbiamo azzardato nessuna certezza, in quanto non conoscevamo il reale impiego della macchina.
Accanto a noi c’era una ragazza bellissima con una top nero, velato e sensuale che correva verso una bellezza che coltivava in maniera ossessiva. Se quello era il risultato… Dio benedica la Virgin.
Durante una sessione di pesi, in cui Lucio mi spiegò che la mia respirazione nel sollevamento sfuggiva ad ogni senso logico, notai che un tizio simile a 50 Cent, stava correndo sul tapirulan con una pendenza in stile Ivan Draco, al contrario, con la faccia rivolta verso i nostri sguardi increduli e le spalle ai comandi.
Al mondo c’è della gente davvero strana.
Dopo i pesi, lavorammo sui pettorali (credo) con una macchina che non ricordo, per poi finire a fare addominali su dei tappetini rosa Elton John.
A fianco a noi arrivò la ragazza dal top trasparente, bella in maniera prepotente. Probabilmente era la ragazza più bella che avessi mai visto, ma io sono uno che tende ad esagerare.
Dopo gli addominali, fatti spaccandomi la schiena per osservare l’allenamento della ragazza dal top nero che avrebbe potuto tranquillamente chiamarsi Giovanna o Clarissa, insomma, un nome da bellona di circostanza, andammo a mangiare.
A dir la verità, mangiai solamente io.
A quel punto eravamo pronti per quello che era stato il reale motivo della nostra permanenza in quel luogo pieno di persone che sollevavano il loro manubri per tornare a scaricare allegati word dopo una pausa pranzo passata ad affaticarsi un po’ per dare un senso compiuto alla loro stanchezza. Eravamo pronti per la zona relax.
Lucio ebbe un attimo in cui quasi pensò di farsi un paio di vasche in piscina, ma il tutto finì quando vide la vasca idromassaggio calda ed invitante.
All’interno della zona relax, oltre alla vasca idromassaggio, composta a sua volta da tre sezioni con differenti opzioni di gettata, erano presenti un bagno turco, due saune, quattro sdraio in legno, tre docce normali, una doccia scozzese e una doccia monsonica.
Riguardo alla doccia monsonica, il mio amico ha partorito una battuta da romanzo. Eravamo a mollo nella vasca, tra le bolle sparate sulle nostre schiene, quando disse -Pensa come sono fortunati i filippini… loro non hanno bisogno di una SPA per godersi delle belle piogge monsoniche.
Le battute sugli ambienti dei ricchi fanno sempre ridere. Credo che il significato sia strettamente legato al termine ironia, ovvero il definire qualcuno o qualcosa con un termine che ne rappresenta l’evidente contrario.
Esempio: se passa una persona visibilmente grassa e qualcuno grida -Ah silfide…-quella è ironia.
Spesso si confonde l’ironia con la simpatia e questa è una cosa che ho sempre trovato estremamente fastidiosa.
L’ironia fa ridere quando punta al rialzo e non al ribasso.
Se uno ha un conto in banca in rosso, puoi ironizzare dicendogli frasi tipo -Grande… sei proprio ricco eh…- ma è molto raro che qualcuno rida di questa ironia, mentre se ad uno con l’abbonamento alla Virgin dici -Ehi… è proprio dura la vita in Scozia, eh?- mentre si fa la sua doccia scozzese post-sauna, qualcuno potrebbe anche cogliere l’ironia e farsi una risata.
La doccia scozzese, per dovere di cronaca, consiste in una secchiata d’acqua ghiacciata addosso, in un ambiente iper-pagato per cose che potresti tranquillamente fare a casa tua, senza sentirti un imbecille completo.
Comunque, pur essendo un insipido stronzo, troppo retorico per essere preso sul serio da chiunque abbia un cervello o mi conosca di persona… dopo il bagno turco, ho ceduto anche io alla tentazione di fare una doccia monsonica. Una stronzata priva di senso.
Il bagno turco l’ho adorato. Era uno dei miei sogni nel cassetto farne uno e ho deciso di farlo due volte, così da potermene ricordare in futuro.
Una sauna era troppo pesante. Ottanta gradi è una temperatura da rincoglioniti a mio parere. La terza sauna era tranquilla e ho rischiato di addormentarmici dentro.
Dopo ogni sauna\bagno turco, io e Lucio ci buttavamo nella vasca idromassaggio, per assaporare una fetta di vita di quella gente così orribilmente viziata da far sentire George d’Inghilterra uno spacciatore di Compton.
Lucio ha avuto anche il coraggio di fare non una, ma due docce scozzesi. Gran coraggio. Ho visto anche qualche manager ebreo che annuiva verso di lui con profonda stima. Non è vero… queste sono le stronzate che scrivo per sembrare più pulp del dovuto.
Comunque, dopo la doccia (non monsonica o scozzese, ma una maledettissima doccia normale) siamo andati a sfondarci di pollo fritto al KFC, giusto per rovinare il lavoro della palestra.
Ho provato uno strano senso di vuoto, quando abbiamo abbandonato gli ambienti confortevoli della Virgin.
Era come se un’oscura falciatrice metaforica avesse falciato quella piccola parte di me che aveva vissuto quell’esperienza come una cosa normale.
Il bagno turco, la sauna e l’idromassaggio… probabilmente è così che passa la sua vita Trump.
Questo è quanto.

Ferdinando de Martino.

Divagazioni di un viaggiatore del Karma | Non ho mai visto le teste dell’Isola di Pasqua e ne sono fiero |

pasqua

Certe volte abbiamo bisogno delle divagazioni.
Divagare è la Costa Smeralda di chi non ha un cazzo di niente. I ricchi prendono le loro anime stanche e se le portano in posti esotici, davanti a panorami spettacolari ed inimmaginabili.
Conoscevo un tizio che aveva visto dal vivo le teste dell’Isola di Pasqua. Ora, non so come spiegarlo senza sembrare la persona più chiusa dell’universo, ma perchè qualcuno sano di mente dovrebbe provare interesse a vedere le teste dell’isola di pasqua? È una cosa che non riuscirò mai capire.
Io di grosse teste di cazzo ne ho viste abbastanza nelle mie vite precedenti e se fossi un ricco, sicuramente non spenderei tutti quei soldi per andare a vedere delle teste conficcate nella terra.
Non riesco proprio ad immedesimarmi o a provare empatia per quella gente. Loro si alzano, fanno le valige, controllano le loro azioni in borsa, pillolina per curare il jet lag, aeroporto, taxi, albergo, cenetta etnica per sentirsi parte del luogo, consumando l’intero fabbisogno dell’isola in una sola portata, notte, escursione e grosse teste di cazzo conficcate nell’erba.
No… non riuscirò mai a sintonizzarmi su quelle frequenze. Mi sento come una vecchia radiosveglia in un mondo di iPod.
Forse sono solamente un personaggio di un romanzo di serie B, imbruttito dalla solitudine, cresciuto in cattività sentimentale e sempre in allerta, come un cane maltrattato.
Viaggiano, corrono, cercano. In parole povere: scappano.
Ecco, la mancanza del coraggio credo che stia alla base della loro voglia di fuggire in continuazione, perchè mi rifiuto di pensare che qualcuno voglia realmente guardare negli occhi quelle maledettissime teste di pietra, quando in Vaticano abbiamo la Pietà di Michelangelo.
Cercano il coraggio in mete esotiche, lo cercano nei cocktail con gli ombrellini e nelle spiagge immacolate. Mi viene in mente il leone di Dorothy.
Anche quelli come noi scappano, solo che lo fanno in maniera diversa. C’è ancora chi si mette sul terrazzo a guardare le finestre degli altri, domandandosi se anche loro provano quel vuoto dentro. Perchè il grande interrogativo non è: siamo soli nell’universo? Ma: siamo davvero tutti soli?
Ho sentito le storie più belle, raccontate dalle bocche più malconce e sdentate. Ho amato donne bellissime, solamente perchè in tutta la mia vita non ho mai avuto le palle di conoscere veramente una donna nell’anima, apprezzandone le doti umane, prediligendo a queste un bel faccino e un corpo da modella.
Sono stato tutto quello che odio e cerco di scontare giornalmente il mio purgatorio personale, lottando contro me stesso e contro tutte quelle canzoni demoniache che mi risuonano nel cranio.
Mi ritrovo spesso davanti ad uno schermo vuoto, consapevole del fatto che non si riempirà da solo e questo mi terrorizza a morte. Questo è il problema di chi sceglie un mestiere che potrebbe esaurire le sue batterie da un momento all’altro.
Non ho mia preso un aereo, perché sono talmente terrorizzato dall’idea di affidarmi ad un altro essere vivente in alta quota, da non sentire ragioni.
Ho riflettuto molto sul mio lascito cartaceo e non sono soddisfatto, ma questo credo che sia l’unico modo per alimentare le batterie di cui parlavo prima.
Non ho mai visto le teste dell’Isola di Pasqua e ne vado fiero. Non so perchè, ma è così.
Per certi versi sono ancora quel ragazzino del liceo, terrorizzato e spaurito, che gli altri non sceglievano per giocare a pallone e se potessi decidere nuovamente da che parte stare, sceglierei di nuovo la mia, perchè senza tutta la merda che sono stato costretto ad ingoiare, non avrei mai fatto della mia passione il mio lavoro.
Cosa mi ha insegnato questo stile di vita completamente folle? Mi ha insegnato a lavorare con una rivoltella puntata alla testa e questa è una cosa che non tutti possono vantare nel loro curriculum.
Ho provato a spiegare più e più volte il senso di smarrimento di una generazione a cui i sociologi non hanno trovato un nome migliore di “generazione x” e credo di non esserci ancora riuscito, proprio perchè quel senso di smarrimento è talmente radicato in me, da non farmi prendere niente sul serio.
Non è tranquillità zen… è che ci stiamo tutti cagando sotto.

 

 

Ferdinando de Martino.

Come nasce uno scrittore? | Sublime solitudine | di Salvo Barbaro

salvo

20 Aprile 2006
E’ un giovedì pomeriggio, sono quasi le quattro e mi trovo a casa nella quiete più assoluta. I miei genitori sono usciti per delle commissioni, “evento alquanto straordinario”, mia nonna e mio zio sono fuori per la loro solita passeggiata pomeridiana. Mio fratello è a lavoro.
Finalmente sono solo, rinchiuso nelle “mie” quattro mura, assorto nei miei più assurdi e sconfinati pensieri di giovane-adulto-lavoratore-tempo-determinato. Ho finito da poco più di un’ora di lavorare, operaio addetto alla depurazione delle acque reflue in un’azienda vitivinicola della mia città natale. Sono stanco, cerco disperatamente di riposarmi sul mio letto accomodato con cura dalla nonna. Appoggio la testa al morbido cuscino, guardo il soffitto, sto per chiudere gli occhi e suonano al citofono. Impreco, mi alzo, vado alla porta e rispondo molto scocciato. Dall’altra parte una voce femminile, suadente e devo dire molto bella che mi dice -Salve, lei crede in Dio?
Resto in silenzio per circa quaranta secondi, poi esclamo –Beh, non so, bella domanda. Comunque ho da fare arrivederci.-
Chiudo la conversazione, impreco di nuovo e mi rimetto a letto. Non chiudo occhio, ho una sensazione strana. Sono troppo emozionato per così tanta solitudine, troppo bella questa occasione per buttarla in due ore di sonno inutili. Mi alzo, vado in cucina, apro il frigo. Cerco disperatamente qualcosa da mettere sotto i denti, rovisto tra prosciutto crudo, prosciutto cotto, formaggi, succhi di frutta, acqua gasata, ma niente che possa soddisfare la mia fame da noioso-voglioso-di-dolci.
Idea, apro il freezer e ecco spuntare davanti a me l’essenza della golosità, il sublime piacere del palato, Magnum Algida. Lo addento ancora ghiacciato, lo guardo fisso mentre sembra implorarmi pietà, ma niente… la mia furia è inarrestabile. Dopo nemmeno due minuti, di lui resta solo lo stecchino di legno, bagnato della mia saliva, dalla mia voglia e del mio orgoglio. Lo getto con calma olimpica e un dubbio “vorticoso” mi assale, e ora? Che cazzo faccio? Sono appena le quattro e trenta. Ok, bevo un sorso d’acqua e ritorno in camera. Accendo la tv e come sempre c’è Italia Uno a riempire i vuoti incolmabili di noi giovani annoiati-vogliosi-pipponi. Guardo attentamente Dawson che bacia Joey appassionatamente, mentre lei lo cornifica con Pacey, mentre amoreggia con la sua insegnante. Basta! Mi vergogno un po, spengo la tv e riguardo l’ora, sono le quasi le cinque. Mi alzo dal letto, gironzolo per la stanza, guardo fuori la finestra e vedo il nulla, il niente del mio povero quartiere, che sembra davvero un puglie tramortito, rimasto solo sul ring dopo l’ennesimo KO subito. Chiudo la finestra velocemente e scappo in soggiorno attraversando il corridoio.
Con la coda dell’occhio, in camera dei miei, noto sul comodino di mio padre un libro, giallo e nero. Mi avvicino lentamente come un felino che sta per agguantare la sua preda, entro piano e lo prendo. Leggo il titolo, GOMORRA, lo sfoglio un pochino, lo giro e vedo sul retro la foto di un ragazzo, pelato, bruttino, sofferente. ROBERTO SAVIANO, NATO A NAPOLI IL 22 SETTEMBRE 1979, GIORNALISTA E SCRITTORE. Guardo di cosa si tratta, camorra, appalti, nomi, cognomi, poi la porta di casa si sta per aprire, sono i miei, di già, furtivamente poso il libro e corro in camera mia, mi metto sul letto e faccio finta di dormire.

Salvo Barbaro.

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di John Wicker | l’Infernale edizioni

riflesso

Da oggi è disponibile su Amazon il nuovo racconto di John Wicker, lo scrittore del brivido già autore dell’acclamato “L’urlo del bosco”, pubblicato sempre da l’Infernale edizioni sul Kindle store.

In questo nuovo racconto, seguiremo la tragica avventura di una famiglia distrutta e tormentata da una presenza oscura.

“Il riflesso della paura” è un racconto in tinte horror che attinge all’immaginario collettivo del terrore, mantenendo la linearità di un racconto d’autore. Lo stesso Wicker ha affermato più volte di non volersi scrollare da dosso l’etichetta della letteratura di genere, in quanto si ritiene uno scrittore horror, prima di uno scrittore.

L’obiettivo finale di Wicker è sempre lo stesso: spaventarvi.

Per ottenere nella vostra libreria digitale “Il riflesso della paura” sui vostri dispositivi elettronici, dai tablet ai lettori e-reader, basta cliccare il banner sottostante.

Buona lettura.

 

Ferdinando de Martino.

 

Dello stesso autore, leggi anche:        

John Wicker | lo scrittore del mistero | un talento da brivido.

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A breve uscirà il nuovo racconto della serie “I racconti del terrore di John Wicker”, un autore sensazionale.

Ma chi è John Wicker?

È bastato mettere online il suo primo racconto per scatenare l’interesse dei lettori che hanno, giustamente, riconosciuto in lui un talento innato.

John Wicker (1967) è uno scrittore italo-americano, nato da padre italiano e madre americana. È cresciuto nel Jersey, per poi trasferirsi in Piemonte, alla ricerca delle sue origini italiane.

Sicuramente il suo background letterario è prettamente americano, anche se il suo libro preferito è il capolavoro del nostro compianto Italo Calvino “Le Cosmicomiche”.

Ma cosa mi ha spinto ad intraprendere un percorso editoriale con questo autore, iniziando a pubblicare i suoi racconti?

Wicker leggeva i racconti del mio blog e rispose ad un mio vecchio annuncio, inviandomi il manoscritto “L’urlo del bosco”, chiedendomi un semplice giudizio.

Dopo aver letto le prime pagine, mi sono trovato davanti ad una sensazione che non sentivo dai tempi dei racconti di Poe. Non per similitudini o cose del genere, ma semplicemente perchè la forma estremamente diretta di questo scrittore riesce a trasportare il lettore all’interno della storia.

Non sono mai stato un fan della letteratura di genere, ma al posto del giudizio che mi era stato richiesto, dissi a John che secondo me quella roba doveva essere pubblicata subito.

Per questioni ovvie, iniziammo a sentirci frequentemente, ma John non ha Facebook ed è una delle persone meno tecnologiche del pianeta. Ha un computer e una mail. Stop.

Leggendo i suoi nuovi racconti, per l’editing e la creazione delle copertine, ho iniziato a notare una vena nostalgica nelle sue parole e gli ho chiesto di parlarmi del suo passato e della sua vita, anche per la bio da inserire nel blog, ma lui, sfuggente come al solito, ha iniziato a divagare, virando la conversazione su dei nuovi soggetti a cui stava lavorando.

Solamente qualche giorno fa, John ha iniziato a raccontare qualcosa di più sulla sua vita, rispondendo alla domanda: perchè hai iniziato a scrivere?

John ha iniziato a scrivere dopo aver perso sua moglie in un incidente stradale. Un evento tragico che ha fortemente influenzato quello che un giorno sarebbe diventato il suo stile.

Jennifer, sua moglie, era un’appassionata della letteratura di genere, mentre lui amava generi completamente differenti tra loro. La notte, prima di addormentarsi, erano soliti inventare storie dell’orrore che finivano sempre con catastrofi e finali terribili. Era il loro modo di scherzare.

Proprio per esorcizzare il finale terribile della sua storia con Jennifer, ha iniziato a scrivere, rielaborando su carta le sue sensazioni.

Detto questo, John è una delle persone più simpatiche con cui abbia mai avuto a che fare. La battuta pronta e un’ironia affilata come la lama di una spada ne contraddistingue la struttura dei suoi dialoghi, non solo nei racconti, ma anche nelle mail.

Vi consiglio vivamente di leggere sul vostro kindle, iPad, iPhone, computer e quant’altro, “L’urlo del bosco” disponibile in versione e-Book, perchè sono sicuro che questo autore riuscirà ad imporsi nell’immaginario dell’orrore con uno stile moderno ed estremamente incisivo.

A breve uscirà il suo secondo racconto per “l’Infernale edizioni” (realtà editoriale del blog).

Spero che questo autore possa terrorizzare anche voi.

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Tutto sarà riferito a John in persona, quando si degnerà di connettersi alla sua casella mail… maledetto a-tecnologico bastardo.

 

Ferdinando de Martino.

Alcol e scrittura | Il matrimonio infernale

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Sin da quando il primo uomo prese in mano la prima penna, probabilmente accanto al foglio bianco  riposava un bicchiere di scotch.

Il più grande pericolo per una storia è il diventare un cliché, a meno che uno scrittore non sappia gestire le banalità con una narrativa tagliente come la lama di una spada orientale.  Il problema dell’intera questione è che gli scrittori sono quasi tutti dei cliché ambulanti.

Quello di cui andremo a parlare oggi, è uno dei rapporti più complicati della storia dell’arte, ovvero, quello tra lo scrittore e la bottiglia. L’argomento è delicato e spero di non banalizzarlo, riducendolo ad una macchietta ironica su quanto sia bello vivere in maniera dissoluta, vomitando la propria anima ogni  sera.

Non voglio dilungarmi sul mondo dell’arte e sulle droghe, perchè preferisco focalizzarmi sull’atto dello scrivere e sul gesto del bere.

Innanzitutto non dobbiamo cadere nel tranello della semplicistica retorica legata allo scrittore povero che beve come un dannato, perchè l’alcol ha tenuto sotto scacco sia Kerouac che King, quindi la scusa della mancanza di liquidità non regge.

Sicuramente l’insuccesso può condurre al bere, ma io penso che l’anima di questo problema sia radicata più in profondità.

Scrivere è molto spesso un mettere a posto. Quante volte, davanti ad un rapporto ormai deteriorato dal tempo, vi siete trovati a pensare -Adesso mi metto a scrivere una bella lettera per rimediare a tutte le mie cazzate.-?

Rimettere a posto le cose è un’attitudine sintomatica di chi è abituato a mettere in disordine per indole.  Quindi la vera domanda è: forse, al posto di chiederci perchè la maggior parte degli scrittori bevono, dovremmo chiederci se lo scrivere non è spesso una semplice conseguenza del bere?

Con questo non voglio dire che per diventare uno scrittore devi attaccarti ad una bottiglie e attendere che le parole compaiano sul monitor, quello che intendo è che  è più facile mettersi a rassettare dopo aver creato del disordine attorno a noi.

Se ci ragioniamo bene i più grandi romanzi della letteratura sono delle semplici ed imponenti lettere di scuse indirizzate al genere umano. Lettere in cui il soggetto è sempre lo stesso: una persona inadatta alla vita, ma convinta di potersi riscattare regalandoci quello che ha in testa in una forma vagamente infiocchettata.

Questo ragionamento lo si può fare se si conosce bene uno scrittore o almeno la sua vita.   Spesso un manoscritto ha il semplice compito di creare nella testa del lettore un unico interrogativo: forse quella persona non è poi così male se ha in testa tutta questa roba…

Vedete, molto spesso l’attitudine del bevitore è molto comica vista dall’esterno. Chi non si è fatto una risata quando ha scoperto che Fitzgerald da ubriaco chiese ad Hemingway di dare un’occhiata al suo pene per dirgli se secondo lui fosse o non fosse un pene dignitoso?

Il lato nascosto, la faccia della medaglia segreta o il dark side of the moon di questa pessima abitudine non è per niente comico.

Bere è solitudine, tristezza, male e dolore.

Bere è accorgersi dei propri limiti e superarli in continuazione, solamente per vedere che effetto fa.

Bere è distruggere i rapporti sociali e non concepire una vita sobria.

Bere è una cosa che uno scrittore può fare, continuando a scrivere, mentre l’eroina o il crack non ti permettono di restare attivo davanti alla tastiera.

Bere diventa l’armatura di cui non siamo stati dotati alla nascita.

Non so dirvi se ci sia una qualche correlazione tra l’alcol e la testa di chi crea tanto, perchè scrivere è fondamentalmente creare.

L’unica cose che credo di aver capito è che la voglia di mettere a posto arriva solamente dopo aver sputtanto tutto.

 

 

Ferdinando de Martino.

 

Ghost writer | Vuoi un lavoro da scrittore?

ghostwriter

Ghost writer, il lavoro dello scrittore fantasma.

In questo mondo nessuno ti regala niente e se vuoi lavorare come scrittore e meglio che abbandoni subito il  sogno di diventare ricco coi tuoi romanzi.

In Italia gli scrittori che vivono di libri si contano sulle dita di una mano e gli altri si dividono in due categorie, quelli che fanno dell’altro e vivono la scrittura come un hobby e quelli che invece sono disposti a scrivere merda.

Cos’è la merda?

La merda è la robaccia che giornalmente si è costretti a scrivere per guadagnare qualche soldo.

Su internet sono presenti decine e decine di articoli che spiegano come guadagnare facendo lo scrittore, illustrandoti passo per passo tecniche che sono semplicemente FUFFA.

Quasi tutti questi articoli sono scritti per guadagnare traffico e non fanno altro che sponsorizzare i differenti Content Marketplace che dovrebbero farti guadagnare come un dannato. Ecco… parlo per esperienza, guadagnare con i Marketplace è come svegliarsi e accorgersi di essere Kobe Bryant. Solamente a Kobe succede questa cosa.

Non voglio dilungarmi in spiegazione, quindi chiunque fosse interessato a sapere perchè i Content Marketplace sono merda, può benissimo chiedermi le motivazioni tramite messaggi privati.

Torniamo a bomba: come può lavorare uno scrittore?

In primo luogo è di basilare importanza crearsi delle credenziali atte a valorizzare il proprio nome nel mondo della creazione di contenuti.

Se avete pubblicato dei libri e gestite un blog (gestito giornalmente, non abbandonato come un Labrador in estate), le vostre credenziali saranno alla portata di tutti e se il vostro portale è molto visitato, potrete vantare delle ottime credenziali nel mondo della creazione di contenuti.

La tecnica migliore è la seguente: specializzatevi in un campo e aggiornatevi costantemente.

Io ad esempio gestisco un blog che parla prevalentemente di letteratura e attualità, in cui pubblico i miei racconti, i miei romanzi e delle tavole che disegno personalmente. Insomma… tutto quello in cui mi sono specializzato negli anni.

Inoltre parlo di libri di altri autori; libri che non ho letto, ma studiato e questo fa la differenza.

Leggere un libro è quello che fa un lettore, mentre studiare minuziosamente un’opera è quello che deve fare un creatore di contenuti.

Il tuo blog è la tua vetrina, ok… ma a cosa serve questa vetrina?

Questa vetrina serve a fare il ghost writer del web, ovvero un creatore di contenuti sotto falso nome.

La vita del creatore di contenuti non è per niente facile, credetemi, e certe volte vi sentirete alla soglia di un attacco di nervi per la mole di lavoro sottopagato che potrete trovarvi a dover macinare; ma nessuno vi ha puntato una pistola alle tempie dicendovi -Adesso fai il creatore di contenuti.-.

Questo è un lavoro basato sulla dedizione.

Il web è pieno di annunci per creatori di contenuti e cercare i seguenti annunci sarà molto facile, esattamente come sarà facile inviare delle mail di presentazione in cui potrete mostrare il vostro blog, i vostri romanzi pubblicati, le vostre tavole (se disegnate) e vedrete che prima o poi qualcuno vi darà del lavoro.

Rinunciare al diritto d’autore per pubblicare solito il nome di un cliente è un lavoro come un altro, ma bisogna dedicarcisi al centodieci per cento. Questo vuol dire abbandonare la vita sociale per uno stipendio da fame, da una parte, ma dall’altra vuol dire anche libertà, niente cravatta e ascelle pezzate sotto la camicia , oltre a lavorare con un iPad in riva al mare.

Posso garantirvi che ci sono almeno tre settori in grado di proporre mensilmente lavori a creatori di contenuti:

1 l’industria del porno letterario

2 Privati in cerca di biografi

3 Creatori di contenuti web (privati e testate)

L’unico consiglio che posso dare ad un eventuale ghost writer è il seguente: desisti e fai dell’altro, ma se proprio vuoi scrivere, fallo senza tregua.

 

 

 

Ferdinando de Martino.

BAR-SOFIA | Filosofia da bar | capitoli 1, 2 e 3

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Il bar come concetto.

Il bar è uno dei più grandi cliché della narrativa. Cinema, letteratura tradizionale e a fumetti, televisione e teatro tendono ad utilizzare, spesso, il bar più come una sorta di concetto che come un luogo vero e proprio.
Se in un racconto o in una puntata del vostro serial preferito, un investigatore privato si trova all’interno di un bar è per via degli stereotipi che la sua figura rappresenta, rapportata al concetto di bar.
L’investigatore, al contrario del poliziotto, è quasi sempre un outsider (come spiega Poe in uno dei suoi saggi di scrittura) e come ogni outsider che si rispetti, scappa sempre da qualcosa; questo “qualcosa” potrebbe essere un passato da dimenticare, dei cari persi in qualche strano incidente e via dicendo. L’epicentro del discorso è “lo scappare”.
L’investigatore scapperà sempre da qualcosa o da qualcuno. Ora, l’escamotage del bar attribuisce allo “scappare” una nota di tragedia interiore; come se il bar fosse l’unico posto in cui l’investigatore può permettersi di “scappare” senza muoversi.
Quell’uomo avvolto dal suo trench, potrebbe bere in casa sua o addirittura nel suo studio, ma no… lui preferisce il bar.

BAR+INVESTIGATORE, genera TRAGICITÀ

Ogni figura, nella narrativa, ha una sua personale connotazione all’interno del bar. Una donna altolocata, che solitamente entra in un bar sempre e solo per cercare qualcuno, controllerà la polvere sul bancone e scruterà con sdegno il bicchiere di Coca Cola o acqua, che ordinerà solamente per educazione e non per sete.
L’arte, al contrario della filosofia, dev’essere lo specchio della società, mentre la filosofia rappresenta la lente d’ingrandimento di questa. Ecco perché l’arte e la filosofia sono da sempre alleate. In fin dei conti, sempre di lenti si parla.
Essendo l’arte, specchio dell’intera società, la riproduzione artistica del bar deve, in qualche modo, rifarsi all’idea reale di bar. Questo vuol dire che il bar, altro non è che un luogo atto a stereotipizzare ogni individuo? Esatto.
Il bar è la perfetta riproduzione di una piazza greca. Al giorno d’oggi esistono molte piazze, Facebook è l’emblema di queste, ma al contrario del noto social network, il bar riesce a tirar fuori le nostre debolezze, cosa che Facebook cerca di eludere, mostrando i nostri bicipiti e le nostre cosce mentre fingiamo di essere ai Caraibi, durante un pernottamento a Spotorno.
Nei bar tutti hanno qualcosa da dire e lo fanno coi loro atteggiamenti.
Immaginate di trovarvi in questo preciso istante all’interno di un bar, diciamo… con un paio d’amici, intenti a farvi una birretta.
Vedete quel gruppo di ragazzi, lì? Due tavoli a fianco al vostro? Bene.
Sono in cinque e tutti stanno chiacchierando. L’argomento non è importante, quello che è importante è l’atteggiamento.
Se all’interno della comitiva, qualcuno inizierà ad alzare il tono della voce, magari ridendo o scherzando, ecco, quello è l’individuo più solo del gruppo. Ovviamente non sto parlando di un singolo episodio, ma di ripetute dimostrazioni di superiorità canora che andranno a dimostrare quanto da me sostenuto.
Che bisogno c’è di alzare la voce? Che bisogno c’è di essere quello che grida più di tutti, quando segna l’Inter? Che bisogno c’è di ordinare da bere con voce gutturale? La risposta è una ed una soltanto: la solitudine.
Il bar tende ad estremizzare tutto, specialmente quando si passa al secondo bicchiere; solitudine, terrore, amore, invidia, perfidia, tutto verrà estremizzato da quell’ambiente in cui la competizione è silenziosa e serpentina.
Molti sarebbero portati a credere che il più solo del locale sia il tizio che inizia a raccontare la propria vita al primo sconosciuto, ma non è così, in quanto chi ha qualcosa da raccontare, raramente alza la voce. Le tonalità alte rappresentano l’arma di chi non ha un cazzo da raccontare, perché quel poco che si ha, lo si cerca di vendere in maniera altisonante.
La voce degli ambulanti che gracchia dagli altoparlanti -Donne è arrivato l’arrotino.-, ne è la dimostrazione più eloquente.
Credetemi, amici… il bar smaschererà tutti, se gli darete il tempo di farlo.
Tutto il mio discorso si basa sull’apparenza e molti di voi saranno portati a pensare che giudicare dall’apparenza sia uno degli errori più grossolani per una persona. Beh, chi la pensa così, commette un grossolano errore di calcolo.
È stato M. Heidegger a dire -Ciò che non si manifesta nel modo in cui non si manifesta l’apparenza, non può neppure sembrare, esser parvenza.-, ed io la penso esattamente come lui.
L’apparenza descrive alla perfezione l’individualità dell’essere. Dall’apparenza possiamo dedurre i gusti musicali, le ideologie politiche e perché no, anche le tendenze sessuali.
Possiamo tranquillamente asserire che l’apparenza è, a tutti gli effetti, la carta d’identità dell’essere.
Il bar rende più semplice risalire all’essere, enfatizzando l’apparenza.
Addentrandosi in questa foresta di pensieri, si potranno scoprire una miriade di nozioni che potranno tornare utili all’animale da bar.
Il mercoledì sera, ad esempio, è più semplice rimorchiare nei bar. Prima di darmi contro, pensate a tutte le volte in cui avete rimorchiato in un bar o, se non è mai successo, pensate a tutte le volte che i vostri amici hanno rimorchiato all’interno di un bar. Quanti di questi rimorchi hanno avuto luogo durante un mercoledì sera? Ecco.
Il motivo è semplice ed è estremamente radicato nella filosofia da bar: siamo la generazione della pausa.
Siamo i messicani delle generazioni. Prima di additarmi come razzista per aver sostenuto che i messicani siano pigri, lasciatemi il tempo di spiegare questa mia affermazione.
Chiunque sostenga che i messicani non sono pigri, o non ha mai conosciuto un messicano o non ha mai ragionato sulla derivazione del termine, spagnoleggiante, “siesta”. Se questo non bastasse, vi porterò un altro esempio.
I messicani hanno inventato uno strumento musicale chiamato Kahon, strumento che consiste, praticamente, in una scatola su cui sedersi. La musica nasce dal battere le mani sulla suddetta scatola. Ok. Dopo aver dimostrato di non essere razzista, ma solamente obbiettivo, posso tornare al saggio.
Siamo la generazione della pausa. I nostri videogiochi hanno sempre la possibilità di fermare il gioco per fumare una sigaretta e se credete che sia sempre stato così, non avete mai giocato a Pac-man.
Pac-man non aveva l’opzione pausa. Pac-man ti logorava il cervello. È per questo che i rimorchiatori degli anni ottanta uscivano di sabato e non di mercoledì; perché il fine settimana era dedicato al divertimento.
La nostra generazione ha bisogno di una pausa settimanale per “tirare avanti” e così, il mercoledì è diventato il giorno designato a questa pausa dallo stress della vita. E cosa fanno le donne quando sono stressate?
Adesso, probabilmente, mi ritroverò nella merda fino al collo: ehi, dopo i messicani non vorrai mica stereotipizzare anche le donne?
Amici, le regole del gioco non le ho fatte io… è stato il bar. Quel posto con le insegne luminose, tira fuori la verità dalle persone e se le donne sono più inclini a scacciare lo stress facendo l’amore non è colpa del sottoscritto. Gli uomini farebbero l’amore anche per scacciare l’amore stesso. Visto? Siamo tutti degli stereotipi, no?

Il teorema del triangolo.
(il gioco dell’istinto)
Lo scopo di questo libro è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.
Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.
L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.
Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.
L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.
Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi, finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.
Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.
All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzata e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.
L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.
Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.
Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.
Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?
L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro, per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?
Incredibile. Davvero incredibile.
La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.
Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.
Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.
Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.
Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.
Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema, senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.
Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

La questione del demone egizio.

M. Heidegger nutriva una forte avversione verso l’avvento delle nuove tecnologie. Molti studiosi sostengono che questa sua idiosincrasia sia da ricondurre al periodo storico in cui il filosofo ha vissuto.
La tecnologia viene da sempre progettata per essere impiegata in ambiti in cui vi è una forte richiesta d’impiego e ai tempi del vecchio Martin, l’impiego più utile (se di utilità si può parlare in una situazione del genere) era la guerra.
La meccanizzazione della guerra è un fenomeno a cui, ai nostri giorni, siamo del tutto assuefatti, ma durante la seconda guerra mondiale questo procedimento deve aver, sicuramente, destato non poca curiosità da parte del mondo accademico.
Per la prima volta nella storia dell’umanità la freddezza del metodo sperimentale veniva messa al servizio di una grande macchina della morte.
Ma ciò che interessa a noi è la filosofia da bar, dove vuoi andare a parare, dunque? Datemi un momento e tenterò di arrivare ad estrapolare un concetto da queste pagine.
Sempre Heidegger, grande esistenzialista, ha scritto uno dei più importanti tomi di filosofia del novecento: Essere e tempo.
All’interno di questo libro, il filosofo, si pone una domanda che, sin dall’antica Grecia, ha messo in ginocchio la filosofia: cos’è l’essere?
Bella domanda. Cos’è l’essere?
Proprio da questa domanda, Heidegger, ci regala una perla di saggezza inestimabile. Da questa lezione ho imparato una verità sconcertante, per una mente come la mia, che di filosofia non so praticamente niente.
Quando ci poniamo la domanda in questione, ciò che sbagliamo non è la domanda in sé, quanto più la forma. Se domandiamo a qualcuno -Cosa è l’essere?-, finiamo automaticamente a catalogare “l’essere” come ente. Questo è uno dei più grossolani errori della società.
Il vecchio Martin, dunque, sostiene che l’essere non si possa ridurre ad ente, in quanto l’essere è tale, proprio perché si manifesta esclusivamente nell’ente.
Molto spesso non sono le domande ad essere sbagliate, ma solo la loro forma e, purtroppo, la forma è strettamente legata al significato.
Prendiamo, ad esempio, la domanda: si può analizzare la vastità della società contemporanea in un microcosmo come può essere il bar?
Anche in questo caso non è la domanda ad essere sbagliata, bensì la forma. La domanda giusta è: si può analizzare il bar, rapportandolo alla vastità della società contemporanea che si esprime al di fuori del suo microcosmo? È la risposta a senza alcun dubbio: sì.
Bisogna pensare al bar come ad un ente preso a caso. Potevamo servirci della scuola, dell’università, di un centro commerciale e via dicendo… io ho scelto di utilizzare il bar, per la connotazione pop che ha assunto all’interno del nostro immaginario collettivo.
In questo caso dobbiamo pensare al bar, come ad una rappresentazione contemporanea del mito della grotta di Platone.
In pratica, ciò che vediamo all’interno del bar, altro non è che il contorno delineante di un qualcosa che a stento possiamo immaginare, ma di cui possiamo analizzare il rapporto con la società esterna in quanto, al contrario del mito di Platone, noi dal bar possiamo uscire quando ci pare e piace.
Ora, grazie a Socrate riusciremo a mettere insieme i pezzi di questo puzzle di concetti.
Al momento sappiamo che: Heidegger non amava la tecnologia.
Abbiamo imparato ad osservare bene la struttura di una domanda.
Stiamo utilizzando il bar per rilevare le ombre della società che vogliamo andare a razionalizzare.
L’avversità nei confronti della tecnologia di Heidegger, acquisisce un’attualità quasi sconcertante, se si va ad analizzare uno dei più particolari discorsi di Socrate, ovvero, “il demone d’Egitto”.
Ve la farò molto breve. In pratica, Socrate raccontò di un certo Theuth (demone egizio) che di tanto in tanto si dilettava nell’inventare. Un giorno inventò, ad esempio, l’astronomia, un altro giorno inventò la geometria, la scrittura e il gioco d’azzardo coi dadi.
Queste sue invenzioni vennero, da lui stesso, mostrate al re d’Egitto Thamus. Quando si arrivò alla scrittura, Theuth si trovò davanti ad un muro di cinismo, costruito dalla saggezza del sovrano d’Egitto. La scrittura doveva servire come Viagra della cultura e della memoria (detto alla buona), tuttavia Thamus denigrò a gran voce questa subdola invenzione, regalandoci una chiave di lettura che tutt’ora mi fa dubitare molto spesso del mio lavoro.
La scrittura, secondo Thamus, avrebbe distrutto la memoria stessa del popolo egizio che, abituato a dover tenere a mente tutta una serie di concetti, avrebbe iniziato a scrivere questi concetti per tenerli meglio a mente, al posto d’impegnare la loro memoria a contenere i suddetti concetti.
Questa storiella di Socrate, ci fa capire quanto il saggio ateniese fosse riluttante nei confronti della scrittura.
Abbiamo, quindi, la scrittura, la tecnologia, il bar e la società contemporanea. Adesso non ci rimane che dar vita ad un “demone”che avrebbe fatto incazzare a dismisura sia Socrate che Heidegger, ovvero, una sorta di ibrido tra letteratura e tecnologia. Lo smartphone, anzi, lo smartphone rapportato al bar.
Grazie al recente sviluppo della tecnologia mobile, ciò che è scritto è alla portata di chiunque in qualunque momento e se ponete una domanda del tipo: “chi è David Bowie?” basteranno una manciata di minuti, ad un qualsiasi individuo, per imparare vita, morte e miracoli del cantante inglese.
Questo potrebbe sembrare un enorme traguardo dell’umanità e in un certo senso lo è, perché se venite morsi da un serpente, grazie al vostro telefono potrete individuare la tipologia di rettile che vi ha morso mostrandola al vostro medico; ma provate a chiedere alla stessa persona, dopo dieci minuti: in che anno è nato David Bowie?
Probabilmente l’individuo in questione vi risponderà -Aspetta che vado a controllare su internet.-. Ecco la dimostrazione che, anche se da un certo punto di vista la nostra vita è notevolmente migliorata, i dubbi di Socrate e Heidegger non erano del tutto infondati.
Avendo imparato che il bar, generalmente, rappresenta una visione alleggerita di una società esterna che, a tutti gli effetti, si arrovella dietro a problematiche più importanti dei compleanni delle rockstar, questa dilagante ondata di qualunquismo tecno-letterario mette davvero i brividi.
Avevano ragione Socrate e Heidegger, quindi? A questo quesito non possiamo rispondere.
Quello che possiamo fare, invece, è l’immaginare un Socrate contemporaneo. Una buona domanda da porsi è: come vivrebbe Socrate nella società contemporanea?
Se si conosce anche a grandi linee la vita di Socrate, non si può dubitare del fatto che il sommo ateniese non avrebbe mai resistito alla possibilità di rompere le palle ad individui che situati in continenti lontani miglia e miglia dal suo, grazie al web.
Ebbene sì. Socrate avrebbe amato a tal punto Facebook da diventare un generatore automatico di spam sulle più disparate accezioni della morale.
Le nostre bacheche sarebbero piene di domande tipo <<Cos’è una buona azione?>> o,<<Definisci la bellezza.>> e via dicendo.
Socrate avrebbe scritto, affrontando il nostro tempo esattamente come affrontò la guerra, il processo per empietà e perfino la sua condanna a morte, ovvero, con estremo rispetto ed eleganza interiore, senza mai abbassare la testa.
Detto questo, Socrate dev’essere stato un rompi coglioni di proporzioni bibliche e in un bar qualsiasi, sarebbe finito in duelli senza fine coi vari Diogene da bancone.

Ferdinando de Martino.

FILOSOFIA DA BAR #2 | il teorema del triangolo o il gioco dell’istinto.

testa_socrate

Lo scopo di questo saggio è il seguente: analizzare la società, utilizzando il metro del bar.

Molto spesso, alleggerendo il nostro modo di ragionare, finiamo per lasciarci guidare dall’istinto. Quella spinta inconscia che provoca, negli esseri viventi, reazioni e risposte immediate agli stimoli esterni.

L’istinto fa parte del nostro animo più ancestrale, ovvero, quello che ci lega in maniera stretta ed indissolubile al genere animale. Preso da un punto di vista scientifico, l’istinto, non andrebbe mai lodato, in quanto prerogativa innata di ogni essere vivente. L’istinto non si può allenare come si farebbe con un muscolo e a chiunque sostenga il contrario, potrei rispondere in tutta tranquillità che credere di poter allenare l’istinto è del tutto simile al credere di poter allungare il proprio pene, seguendo un blog su internet.

Quando annusate un qualcosa di estremamente maleodorante, l’istinto  sarà quello di allontanare il suddetto oggetto dal vostro naso. Questo perché, ad un livello teorico, ciò che profuma dovrebbe essere meno pericoloso di ciò che puzza.

L’istinto ci fa fare in un nano secondo, quello che il ragionamento meditato e filosofico ci farebbe fare in tre o quattro secondi. Perché, allora, parlare dell’istinto in questo libro se l’intento è quello di spiegare la “filosofia” da bar? Semplice: perché l’istinto può portare a delle scoperte molto interessanti, dal punto di vista filosofico.

Chiunque abbia bazzicato l’ambiente dei bar, è consapevole del fatto che, prima o poi, qualcuno finirà col raccontare al barman i propri problemi. È un dato di fatto. Può trattarsi di un problema sentimentale, di una sconfitta sportiva, un licenziamento e via dicendo… tutti, prima o poi,  finiscono col raccontare i propri drammi al loro oste di fiducia.

Ci si siede al bancone, si ordina qualcosa di virile o simil-virile e si dà il via ad un monologo incentrato sul mondo e sulla sfiga, entrambi elementi che sembrano essersi messi d’accordo contro il malcapitato.

All’interno di questa equazione c’è un’incognita: lo sgabello. Eh si, perché gli sgabelli dei bar ballano sempre. Mettetevi nei panni d’un povero cristo, uno che ha perso il lavoro dopo aver perso la fidanzate e dopo aver scoperto di non poter più pagare le rate della macchina; pensate alla sfiga tremenda, trovi un barista con cui sfogare il tuo odio verso il mondo e lo sgabello su cui sei seduto non ne vuole proprio sapere di star fermo.

L’istinto ha portato, almeno nel sottoscritto, a sviluppare una sorta di senso di ragno (alla spiderman), atto a testare col sedere uno sgabello, prima di sedersi. In pratica, si finge di appoggiarsi qua e la, fino a quando non si trova lo sgabello meno traballante.

Un giorno, questo mio istinto di sopravvivenza alcolica, mi aiutò a sviluppare il teorema del triangolo o “il gioco dell’istinto”.

Mi trovavo in un bar, pronto a chiacchierare con una barista niente male, quando appoggiando il sedere per testare la stabilità di uno sgabello, notai qualcosa di strano. Quello era decisamente lo sgabello più stabile dell’intero pianeta. Come diavolo era possibile? Semplice. Abbassando lo sguardo, mi si aprì un mondo.

Duemila anni e passa di evoluzione, ecologismo, software incredibili, nanotecnologia, bombe atomiche, penicillina, porno gratuito e davvero il mondo ancora non aveva capito qual era la soluzione al traballamento generale di sedie e tavolini di tutto l’intero pianeta?

L’uomo, lo stesso animale che aveva inventato la ruota, non riusciva a trovare soluzioni migliori dell’utilizzo di un libro,  per impedire alla gamba di un tavolo di rovinare una cena?

Incredibile. Davvero incredibile.

La soluzione a questo dramma da taverna è estremamente banale. In un futuro prossimo, potremmo risparmiare tonnellate e tonnellate di legname, dando vita ad una nuova politica del risparmio sulle gambe dei tavolini, degli sgabelli e delle sedie; perché il numero ottimale di gambe per una sedia, sgabello o tavolo che sia è tre.

Pensateci bene, se le gambe di una sedia fossero tre, non avrebbe importanza nemmeno la misura di queste, in quanto risulterebbe impossibile far ballare una qualsiasi struttura, appoggiata su tre gambe.

Senza il mio istinto non avrei mai capito questa stronzata. Infatti, sebbene il numero tre sia molto importante sotto svariati aspetti, uno su tutti è sicuramente quello che ne fa il primo numero in grado di costituire una maggioranza ed una minoranza all’interno di un gruppo, non è questo il punto centrale del mio ragionamento.

Il teorema del triangolo, serve esclusivamente a spiegare che il ruolo dell’istinto è di basilare importanza in ambito filosofico, perché l’istinto, essendo un tutt’uno con la paura e con le nostre memorie ataviche, spesso ci può fornire in maniera del tutto gratuita lo spunto per interpretare meglio ciò che ci circonda.

Insomma, il bar è solamente un metro di misura, mentre l’istinto è ciò che può smuovere i pensieri, proprio quando avevamo deciso di alleggerire il peso del ragionamento. L’istinto, in questo caso, è una sorta di assicurazione sull’utilizzo del pilota automatico.

Se solo ci fosse un modo semplice e razionale per capire quando il nostro cervello inizia a remarci contro, focalizzandosi esclusivamente sul problema,  senza cercare una soluzione apparente, tutto sarebbe più facile. Pensare meno e affidarsi totalmente all’istinto non è una soluzione, in quanto istinto e ragionamento viaggiano di pari passo, un po’ come l’apollineo e il dionisiaco.

Applicare il ragionamento a ciò che l’istinto ci mostra è l’unica strada che può portare a mirabolanti scoperte come, ad esempio, quella del teorema del triangolo.

Letture consigliate dall’infernale:

Ferdinando de Martino

Scia di sangue in alto mare | UN ESORDIO SPETTACOLARE.

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Navigare nel cyberspazio è un po’ come gironzolare in un vecchio mercatino di libri e dischi usati, la differenza è che i prodotti che puoi trovare nel mondo virtuale sono spesso nuovi.

Dio solo sa quanto ami la produzione indipendente del web e oggi voglio parlarvi di un prodotto eccezionale, realizzato da due autori giovani e promettenti: Cristian e Veronica Papillo.

Questo romanzo è un gioiellino della letteratura italiana e va a dimostrare che nel nostro paese c’è ancora qualcuno in grado di scrivere un libro senza aver fatto prima il D.J., l’attore o il Grande Fratello.

SCIA DI SANGUE IN ALTO MARE è un giallo, è un thriller psicologico, è un noir e anche un libro con delle forti tendenze erotiche, insomma, è tutto ciò che dovrebbe essere un buon libro.

Come molti di voi sapranno, sono un amante della costruzione dei personaggi e in questo lavoro ho riscontrato una capacità di struttura del personaggio impressionante.

Ogni comparsa, protagonista o personaggio ricorrente è descritto nei minimi dettagli caratteriali in maniera concisa e mai prolissa. Per uno scrittore questa capacità è traducibile in un semplice termine: talento.

L’universo creato da Veronica e Cristian è un universo cupo e ironico, dove nulla è ciò che sembra e l’amore rappresenta ancora una via di fuga dalla realtà.

Pagina dopo pagina, questi due autori faranno a pezzi le vostre elucubrazioni, stravolgendo la storia e giocando con la visione d’insieme come se alle loro spalle avessero almeno una decina di romanzi. Credetemi, trovare delle perle come questo libro nel web, restituisce a noi avidi lettori di letteratura con le palle, una nuova speranza.

Pur essendo in promozione col mio ultimo libro, non posso fare altro che consigliarvi la lettura di questo straordinario romanzo d’esordio.

Attualmente sono riuscito a mettermi in contatto con gli autori e spero di riuscire ad intervistarli per analizzare il loro lavoro al microscopio.

Sono estremamente curioso di scoprire come siano riusciti questi coniugi a partorire un libro così ben strutturato al primo colpo, perché sin dalle prime pagine l’impressione che ho avuto è stata quella di trovarmi davanti ad una coppia di autori ultra-navigati.

 

 

Ferdinando de Martino.