ZEN e scrittura | la meditazione

image

È estremamente difficile per me parlare di argomenti riguardanti la sfera della meditazione e del mio personalissimo concetto di zen.
La difficoltà in questione è radicata in due differenti concetti: l’ateismo e il morboso.
In primo luogo, credo di essere la perfetta incarnazione dell’ateo. Posso asserire in totale tranquillità che l’unica cosa che mi sia sempre riuscita bene è l’essere ateo.
Non ho nemmeno un granello di quella che viene chiamata fede e, pur rispettando ogni singola religione, non riesco in estrema sincerità a non vederle tutte come una grossa presa in giro globale.
Il termine ateo è quello che mi rappresenta di più anche da un punto di vista filosofico, in quanto non mi sono mai ritenuto agnostico, ma ATEO. Io non credo in nessuna entità spirituale e attribuisco a Dio, Buddha e Allah, le stesse caratteristiche che attribuisco anche al topino dei denti e Babbo Natale.
Chiarito questo concetto, possiamo passare al secondo.
Parlare di zen e meditazione, per me è una sorta di stupro interiore. Ho sempre trovato l’interrogarsi sulla fede delle altre persone, l’atto più morboso dell’intero universo.
Domandarsi quanta fede abbia una persona o in cosa creda davvero, nella mia personale scala dei valori, è dieci volte peggio di hackerare il computer di una donna, rubarle le sue foto intime e metterle su internet.
Credo che la curiosità di entrare nei meandri della coscienza spirituale di un altro individuo sia terribilmente morboso, perché, essendo la natura dell’uomo prevalentemente distruttiva, spesso l’unica motivazione è legata al trovare delle falle ai suoi concetti esistenziali.
Quindi, sono ateo e trovo irrimediabilmente privato il parlare dell’interiorità non tangibile dell’uomo.
Perchè mi sono messo a scrivere queste pagine, allora? Perchè bene o male, quello che ho deciso di fare nella vita è scrivere e l’unico modo per farlo bene è quello d’instaurare con il lettore un rapporto di estrema sincerità.
La sincerità è la base dello scrivere, per quanto mi riguarda. Per questo mi annoio moltissimo a leggere storie di draghi alati e folletti imbecilli.
Il motivo per cui mi sono messo a scrivere, oggi, è il seguente: la sincerità. Mi sono svegliato è mi sono detto -Cazzo, oggi voglio scrivere qualcosa di estremamente sincero.
Quindi ho bevuto il caffè, mi sono messo davanti alla tastiera e, con il mio cane accovacciato sotto la scrivania, ho iniziato a battere sui tasti, sperando di non scrivere troppe stronzate e che i refusi siano pochi.
Mi scuso preventivamente con tutti i buddisti per le stronzate e le inesattezze che dirò sullo zen e sui concetti legati alla meditazione, ma se sono buddisti… non s’incazzeranno più di tanto.
Partiamo.
Io sono una persona iperattiva. L’iperattività spesso è interpretata male dalla massa, in quanto si è portati a credere che una persona iperattiva sia perennemente impegnata in decine di attività e in perpetuo movimento. Non è così.
L’iperattività, almeno nel mio caso, è legata a quello che ho sempre ritenuto uno dei miei più grandi problemi: la noia.
La noia è una cosa terribile per un iperattivo, perchè l’iperattività è radicata per un buon ottanta per cento nel cervello e solamente per il restante venti per cento, nelle azioni legate alle conseguenze dell’iperattività stessa.
Un cervello iperattivo è alla perenne ricerca di stimoli atti a mantenere la soglia della noia al di sotto di un certo livello.
La noia non è solamente l’assenza d’azione legata all’ozio, ma anche quel sentimento che diventa tedio, quando le azioni diventano ripetitive.
Le azioni di un cervello iperattivo spesso non riescono nemmeno ad uscire dalla sua testa, perchè nascono durante un attacco di noia, legato alla ripetitività di un’azione che sta compiendo; questa nuova azione, diventa ripetitiva già nella sua testa, allora il cervello iperattivo inizia a pensare ad un’altra azione che diventerà a breve anch’essa ripetitiva e così via.
Tutto questo meccanismo provoca un down in cui l’iperattivo necessita di riposo e il riposo è noia.
Ma cosa c’entra lo zen con tutte queste cose?
Per quanto mi riguarda, vivere con un cervello iperattivo equivale a guidare da ubriachi. È probabile che non si arrivi da nessuna parte.
Esiste un solo modo per eludere la noia: confondere l’iperattività, mettendo le briglie al proprio cervello.
Per compiere questa operazione, per quanto mi riguarda, esistono solamente due tecniche: o ci si stordisce di alcolici e narcotici, oppure si medita.
La meditazione mi ha letteralmente salvato il cervello, perchè, senza moralismi di alcun genere, sono convinto che entrambi i modi siano efficaci in egual misura.
L’unico problema legato al primo modo è che alla lunga il cervello viene danneggiato dal prolungato neuronicidio di massa, mentre il secondo metodo non ha nessuna controindicazione.
Il primo modo è estremamente più semplice, perché per distruggersi il cervello non bisogna impegnarsi, mentre il secondo modo necessita di un’educazione pseudo-militare.
Personalmente sono arrivato alla meditazione per vie traverse e se parlate con un qualsiasi esperto di meditazione trascendentale e non, vi dirà (probabilmente con tutte le ragioni del mondo) che la mia ideologia legata a questo universo è totalmente errata, quindi vi invito a partecipare a qualche gruppo di meditazione per farvi una vostra idea sull’argomento.
Come in tutte le cose della mia vita, anche il mio percorso meditativo è del tutto privo di un reale e concreto riconoscimento istituzionale, perché sono stato e sempre sarò un pessimo studente.
Quindi, il mio primo approccio alla meditazione risale ad un corso in cui mi insegnarono delle tecniche di rilassamento che non mi rilassarono per niente, ma che da un certo puto di vista, riuscirono ad ammanettare il mio cervello per qualche minuto.
Ero riuscito a concentrarmi solamente su di una visualizzazione, aiutata da alcuni esercizi respiratori. Per voi questo potrebbe risultare stupido, ma per il sottoscritto fu un vero e proprio miracolo; ero sobrio è il cervello non mi andava a fuoco.
Accantonai questa cosa nelle esperienze che probabilmente un giorno mi sarebbero tornate utili e andai avanti.
Anni dopo, studiando Cicerone, venni a conoscenza della tecnica dei loci ciceroniani. Tale tecnica consente di ricordare svariati punti di un discorso, senza prendere alcun tipo di appunto, utilizzando delle visualizzazioni legate al pensiero. Il tutto consisteva nel situare delle visualizzazioni legate ai punti salienti di un discorso, all’interno di un percorso fisico, riprodotto nel pensiero nei minimi dettagli. Una volta focalizzata ogni singola visualizzazione, i concetti sarebbero diventati chiari per l’esposizione pre-powerpoint dell’antica Roma.
Una tecnica similare a quella dei loci ciceroniani è la tecnica del palazzo mentale, che consiste nella riproduzione mnemonica di un insieme di stanze di uno o più appartamenti che trasmettono qualche sensazione positiva all’individuo che ha intenzione di utilizzare tale tecnica.
Una volta riprodotta tale struttura, si può utilizzare per ricordare complesse serie numeriche o, magari, delle annotazioni da utilizzare in futuro, mediante delle visualizzazioni (ovvero, archetipi creati apposta per rappresentare qualcos’altro).
Breve esempio. Immaginate di entrare mentalmente in una stanza che conoscete molto bene ed escludete l’arredamento da questa equazione.
Immaginate di sentire distintamente Vivaldi nella suddetta stanza, mentre davanti a voi trovate il truculento spettacolo di un Cristo crocifisso. Sempre nella stessa stanza, la musica si confonde con il lamento di un gatto intrappolato in un cerchio di fuoco.
Immagini potenti che rappresentano le 4 stagioni di Vivaldi, i 33 anni di Cristo e un cerchio 0, che intrappola un gatto dalle 7 vite.
43307, potrebbe essere una password o un pin da ricordare.
Questa tecnica va allenata molto e ognuno riuscirà a darle una differente accezione. La mia è arrivata dopo un po’ di tempo.
Nel passare degli anni, tra le letture interessanti che mi sono capitate sotto gli occhi, ho trovato estremamente istruttivo il libro di David Lynch sulla meditazione trascendentale, sebbene io non abbia mai praticato questa tipologia di meditazione.
Quello che ho imparato da questo libro è che la mediazione può condurre anche alla creazione di concetti artistici, un po’ come se il nostro mondo interiore, collegato al tutto, fosse un distributore gratuito d’ispirazione.
Questo è il motivo centrale del mio rifiuto verso il credo, assai diffuso, del blocco dello scrittore.
Aggiungete un breve periodo in cui ho frequentato un centro di yoga e meditazione, in cui ero perennemente distratto dalla presenza di donne in posizioni astruse.
Adesso, inizieremo a collegare i tasselli con lo zen.
Tramite un’applicazione del mio primo iPad, mi sono completamente innamorato del concetto di giardino zen. L’arare un campo che non avrebbe mai fatto spuntare nessun genere di ortaggio dalla terra è un concetto bellissimo, secondo il mio modesto parere.
La cura del giardino zen, sebbene virtuale, ha lanciato il mio cervello in una dimensione completamente nuova.
Ogni mia azione era mirata a qualcosa. Ho sempre arato per raccogliere i frutti, vivendo l’arare come un semplice mezzo per raggiungere le carote; quindi per capire il concetto di arare fine a se stesso, ho dovuto spremere il più possibile le mie meningi.
Il tempo che avevo dedicato a quel giardino era tempo dedicato a ma. Il giardino, il respiro e la mente erano diventati un tutt’uno e la noia era sparita.
Il respiro mi permetteva di vivere, la mente muoveva il dito che arava il campo e il giardino zen faceva il giardino zen.
Stavo coltivando me stesso.
Avevo tolto un elemento dall’equazione e tutto aveva preso un senso. L’importanza del coltivare era diventata molto più chiara dopo aver tolto di mezzo la carota.
Il minimalismo zen è stata una grandissima rivoluzione per il mio modo di pensare, perchè mi ha proiettato in una dimensione in cui l’essenziale è diventato “essenzializzare” ogni cosa, riducendola all’osso.
Liberarsi del superfluo, per quanto ci è possibile, arricchisce quel lato del nostro cervello che è in grado di sprigionare la creatività.
È un po’ il concetto espresso da Sherlock Holmes in “Uno studio in rosso”: lo spazio del cervello è limitato, quindi, elimina tutto quello che non credi ti possa tornare utile.
Ho iniziato a meditare molto, con differenti scopi: eludere gli attacchi di panico, liberarmi di alcune dipendenze, allontanare la negatività, cercare di capire i concetti più segreti dell’universo e alla fine ho capito che meditare era importante per il semplice fatto di meditare.
Poche cose mi rasserenavano come lo sgomberare il mio palazzo mentale, quando le informazioni da ricordare non mi sarebbero più servite. Anche quella era una questione di minimalismo.
Così ho iniziato ad utilizzare il mio palazzo mentale per gestire il mio lavoro da scrittore, addentrandomi nei concetti in un mondo inattaccabile da ogni fronte esterno.
Scrivere è di per sé meditazione. Passeggiare con il cane o fare il caffè può essere meditazione se si elimina tutto il superfluo, facendo sì che il nostro pensiero sia connesso al cento per cento con il qui ed ora.
L’ossessione per il materialismo del mondo occidentale in cui sono cresciuto, mi rende praticamente impossibile abbracciare la filosofia del minimalismo in toto, ma senza ombra di dubbio mi ha dato la possibilità di gestire in maniera differente molte problematiche che ero abituato ad eludere in maniera differente.
Ad oggi pratico la meditazione almeno due volta al giorno, in maniera del tutto atipica. Una meditazione è legata al gesto dello scrivere fine a sé stesso, mentre la seconda è legata al concetto di palazzo mentale, ed è sicuramente quella più interessante anche per chi non è ossessionato dalla scrittura, come il sottoscritto.
Per il momento direi che può bastare, ma voglio chiudere questo capitolo con una frase che mi ha sempre affascinato.
Durante una seduta di meditazione, una volta arrivati all’Om collettivo (il momento in cui tutti iniziano a dire ooooooom, come dei cretini), lo Yogi disse -Ci sono molte persone che credono che alla base del Big Bang ci sia stato un Om cosmico.

Ecco, personalmente la reputo una stronzata, ma sono contento di vivere in un mondo in cui qualcuno può partorire un concetto del genere, perché lo trovo estremamente minimalista e zen.

 

Ferdinando de Martino.