La GUERRA dello scrivere | scrittura creativa | di Ferdinando de Martino

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Molto spesso le metafore sportive e belliche sono l’escamotage più veloce per arrivare al concetto di una spiegazione.

Questa è una regola che si può tranquillamente applicare  a molte discipline, anche differenti dalla scrittura creativa.

Scrivere è una guerra. Una guerra con noi stessi, contro gli altri e soprattutto per gli altri. Questa è una cosa che non bisogna mai dimenticare in letteratura: il dualismo è efficace solamente se bilanciato.
Per ogni schiaffo morale che infliggeremo al lettore, dovremo essere in grado di restituirgli anche una carezza. Tutto questo perchè dalla narrativa non s’impara nessuna lezione, al massimo si deduce e per dedurre un qualcosa, bisogna sentirsi parte integrante di quello che si sta leggendo.
Quindi, porsi come un figlio di puttana davanti a chi spende dei soldi e del tempo per leggere un manoscritto, sarebbe proprio da stronzi.
Nel gesto dello scrivere verrebbe da pensare che l’autore si debba porre come una sorta di generale, nei confronti d’una storia.
Un generale vive la guerra, ma allo stesso tempo si pone ad essa da una prospettiva diversa, se vogliamo più lontana, da quella di un soldato che affronta la guerra con un fucile tra le mani ed il nemico e la morte a pochi metri.
C’è una sorta di distanza che rende la guerra più “tollerabile” e poetica dal punto di vista di un generale, ma quello non è il ruolo dello scrittore.
Un generale sarà effettivamente lontano dalla guerra, ma in un certo senso sarà anche dentro alla battaglia e, sebbene non viva la paura in maniera vivida e viscerale, se il suo operato non sarà perfetto, prima o poi la guerra arriverà a davanti a lui. La distanza, insomma, c’è… ma è poca.
Lo scrittore deve porsi nei confronti d’una storia, come un reduce.
Il reduce è stato in guerra. Il reduce conosce l’orrore e la paura; è stato dentro, lontano e fuori.
Il reduce guarda la guerra dall’esterno e non da lontano, come un generale. Il suo punto di vista è freddo, proprio perchè pur conoscendo esattamente quel delirio dall’interno, si trova distaccato da esso a tal punto da provare un senso di disprezzo per la tranquillità che le immagini di una guerra non vissuta in prima persona provocano in lui.
Quando il punto di vista è lontano e dentro ad una storia, allora e solamente allora, bisognerà iniziare a battere i tasti della tastiera del computer.
Prendere le distanze dalle proprie storie è difficile, ma diventa un gesto spontaneo quando s’inizia a scrivere in continuazione. Probabilmente questo accade per molti altri lavori, ma io posso parlare solamente di quello che conosco.
Un esercizio fantastico per diventare dei reduci è quello di provare a riscrivere una pagina di un libro scritto da un altro autore, decidendo di adattare a quella storia il vostro stile e non viceversa.
Molto spesso è il punto di vista e l’attenzione di un autore a decretare la fluidità del suo stile.
Facciamo un breve esempio:

Will Graham fece sedere Crafword al tavolo da picnic tra la casa e la riva dell’oceano e gli posò davanti un bicchiere di tè ghiacciato.

Questo è l’incipit di Red Dragon di Thomas Harris, autore della saga dedicata ad Hannibal Lecter. La scrittura è incisiva, esplicativa e mirata a far capire al lettore che un tale Will Graham non lavora più, per via del tavolo da picnic davanti all’oceano e capiamo a anche che Crafword vuole qualcosa.
Due righe. Due sole righe: perfetto.

Ora proviamo a scriverlo in maniera non esplicativa, magari più descrittiva.

L’oceano s’infrangeva sulla sabbia della costa ovest come ogni mattina, quando Crafword si mise a sedere davanti a Will Graham, immortalato con un bicchiere di tè ghiacciato tra le mani. L’alone condensato sul tavolo da picnic rifletteva il sole, frastagliandone i contorni.

Il punto di vista è differente, ma la storia è la stessa.
Questo trucco può aiutare lo stile ad uscire dalla penna in maniera fluida e lineare, maturando una maggiore consapevolezza della propria voce cartacea.

Ferdinando de Martino.