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Lo specchio convesso | un racconto di Emil Brune

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Nel piazzale davanti al reparto di ostetricia non c’era anima viva. Regnava una calma inusuale. Quasi come se la città – o forse il mondo intero – si fossero fermati per ascoltare in silenzio il prodigio che stava per avvenire nel palazzone alle sue spalle. Karla, la sua unica figlia stava per spingere nel mondo il suo primo nipotino. Erano mesi che si preparava a quel giorno. Lo scorrere del tempo lo aveva rassicurato e agitato allo stesso tempo. Si era pian piano convinto che sarebbe riuscito ad affrontare quel momento con una maggior calma ma, quando tentò di accendere per la terza volta la sigaretta che gli penzolava tra le labbra, si rese conto di come i suoi buoni propositi fossero andati allegramente a farsi benedire.
“Nessuno ti prepara alla vita”, pensò. Ti ci ritrovi dentro, tuo malgrado, e provi a fare del tuo meglio. O il tuo peggio. Dipende dalle inclinazioni.
Le orme delle sue scarpe sulla neve rendevano il tratto di asfalto – che aveva designato di sua competenza -simile al manto di un dalmata. Continuò a girovagare come un detenuto durante l’ora d’aria finché non scese sua moglie a chiamarlo. Era nato. Piotrek aveva aperto gli occhi per la prima volta.

Quando lo prese tra le braccia, con quel visetto tutto deformato e rugoso per la lotta del parto, sentì il cuore esplodergli per la gioia. Anche se l’espressione non descrive con esattezza ciò che gli stava crescendo nel petto. Era un’euforia che non accennava ad abbandonarlo. Voleva ballare, cantare, fare le boccacce agli inservienti nei corridoi dell’ospedale. E lo fece. Con quell’esserino tra le braccia, incominciò a danzare cantando, ad ampi passi in giro per la nursery. Pianse e ringraziò un onnipotente in cui non credeva per quella creatura che stringeva tra le braccia.
Era una sensazione più grande di lui. Se quello non era il verbo di Dio, tramutato in un minuscolo fagottino rosa, allora Dio non aveva mai proferito parola. E mai lo avrebbe fatto.

Le settimane successive furono estenuanti, ma piene di allegria per tutti. Non c’era un solo membro della famiglia che non fosse stato travolto dalla potenza dell’avvenimento. Era come se un gigantesco e invisibile controllore avesse revocato loro la possibilità di avere una giornata storta o di provare anche il più minuscolo momento di infelicità.
Ebbe la sua generosa porzione di notti insonni, di pannolini da cambiare e rigurgiti sulle camicie da lavoro ma, in fondo, era come se non avesse mai desiderato altro.
Dopo due mesi imparò per l’ennesima volta l’importanza del rito. Ogni volta che andava a casa della figlia a trovare il nipote, appena un attimo prima di varcare la soglia, emetteva due fischi. Uno corto e uno più lungo, ravvicinato al precedente. E, appena entrato nell’appartamento, sapeva di aver già guadagnato il sorriso più dolce del creato. Senza colpo ferire.
Quando arrivava il momento del riposino ordinato dalla rigida tabella di marcia stabilita dalla madre, lo prendeva con sé e lo portava sul terrazzo. Appoggiava la piccola schiena contro il suo petto e gli mostrava le luci della città – mai doma – canticchiandogli Your song.
La sua mamma gli aveva trasmesso la passione per Elton John, che volete farci.
In quei momenti, il bambino cercava nell’aria il lobo del suo orecchio e glielo afferrava. Poi lo guardava. E il tempo sembrava fermarsi di fronte a quei due abissi color nocciola.
Subito dopo iniziavano le rugne di supplica per il lettino. Allora lo adagiava dolcemente fra le coperte dove, tra un gemito e l’altro, finiva per addormentarsi.
Il nonno materno ne approfittava per riposarsi in cucina di fronte a un caffè e allo sguardo della figlia che, solo allora, stava imparando a riconoscere come quello di una giovane madre.
Una lenta e straordinaria mutazione.

Il rumore e l’aroma del caffè che gorgogliavano fuori dalla caffettiera si diffondevano nella casa penetrando  nel sonno del bambino. Ne avvertiva il profumo nei suoi sogni di forme e colori indistinti. Una sensazione rassicurante che lo cullava, spingendolo a sorridere tra giraffe e orsi di peluches.

Passarono sei mesi, e l’entusiasmo che aveva regnato in precedenza era meno definito. Viveva più di fiammate che di un’estasi continua. Ovviamente questo non valeva per i genitori. Così come non valeva per il nonno, che continuava eroico nei suoi sforzi, tra le anonime ore di lavoro e l’amore che gli rubava quella piccola creatura.
Decise che voleva fare qualcosa di speciale. Qualcosa che sarebbe durato per sempre. Che non si sarebbe consumato con lo scorrere del tempo. Voleva una sensazione pura, nitida, che rimanesse incastrata per sempre nella coscienza del bimbo. Aggrappata all’uomo che sarebbe diventato. Come l’odore della minestra di verdure della nonna. O il latrato del cane alla vista dell’ombra dell’ennesima bicicletta vagante.
Una notte, dopo un pomeriggio da cancellare dal calendario con la dicitura ‘il peggior mal di denti del mondo’, Piotrek era finalmente a letto.
Dormiva spesso su un fianco. Per questo gli risultò particolarmente semplice posizionare uno specchio convesso sul bordo della culla, in modo che si potessero vedere vicendevolmente senza alcuna difficoltà. Infilò la testa dentro il box facendo sì che la superficie argentea avesse in un’estremità il suo volto, e dall’altra quella del suo piccolo gioiello. Lo stereo diffondeva una vecchia e malinconica melodia.
Le petite fille de la mer.
Avvenne esattamente quello che aveva sperato. Vide quegli occhietti – gonfi di sonno – spalancarsi di meraviglia. Attraverso lo specchio, i loro sguardi si scontrarono per un secondo che durò quanto la vita dell’universo. Il bambino sorrise. Lo stesso fece lui. La canzone era finita e Piotrek dormiva.
Fuori dalla porta trovò sua figlia che lo aspettava in vestaglia accompagnata da una tazza di caffè.
Lo sorprese con lo specchio ancora in mano.
Con un sorriso leggero e assonnato gli chiese: – Che stai facendo papà? –
– Creo un ricordo. Forse una sensazione – le rispose semplicemente sorridendole di rimando.
Ripeté il rito un gran numero di volte, fino al giorno in cui il bambino non fu troppo grande per dormire protetto da sbarre. Non ne parlò mai con nessuno: era geloso di quell’intimità.
Quei sorrisi nello specchio e quella musica erano solo loro. Di nessun’altro.

Mentre passeggiava nervosamente davanti al casermone color confetto cercò di accendere per tre volte una sigaretta che era ormai consumata. Aveva sempre una gran voglia di andare a trovarlo ma, puntualmente, quando parcheggiava il motorino davanti all’edificio provava solo nausea e l’impeto irrefrenabile di scappare lontano da quel posto.
“Ospizio”.
Che brutta parola.
– Si chiamano case di cura, Piotrek. Smettila di chiamarlo ‘Ospizio’. Gli ospizi hanno le blatte sotto i letti e disgustose cene liofilizzate. Non ho messo tuo nonno in una stamberga per moribondi rincoglioniti. Sta in una casa di riposo, seguito e curato come meglio non potrebbe – gli diceva la madre.
– Come vuoi ma’. Ospizio, casa di cura, chiamala come vuoi. La sostanza non cambia – le rispondeva con la vena polemica che solo un ragazzino di 17 anni può covare nella testa.
Entrò nel complesso residenziale. Ogni volta che attraversava quei corridoi perlacei – conditi da sguardi vitrei, fredde cataratte azzurrine e capelli furibondi – si sentiva smarrito. Nelle sue orecchie risuonava il rumore delle pantofole della vecchina della 209 che sfregavano sul pavimento.
Sembrava che volesse tirare a lucido la lingua verdastra che divideva le stanze degli ospiti (nella sua testa, in realtà, camminava ancora in casa sua, col marito morto e i due figli traditori).
Flebili cantilene arrivavano dalla zona ristoro, vacue e acute risatine riecheggiavano nel corridoio, mentre il ragazzo passava in rassegna le flebo e le lettighe prima di arrivare alla camera del nonno.
Era una sensazione estenuante. Come se ogni parte del corpo – persino i suoi pensieri – si gonfiasse di sabbia. E il peso di ogni granello lo trascinava sempre più a fondo mentre ribadiva a sé stesso – per la centesima volta – che quella non era altro che l’anticamera della morte.
Ogni volta che andava a trovarlo stava vicino al letto elettrico tenendogli la mano, accarezzandola con lentezza, percorrendo amorevolmente ogni scanalatura di quella pelle secca e fragile come carta velina.
Gli parlava di tutto. Della scuola, le prime scopate, delle serate passate con gli amici a suonare, ridere e bere. Gli raccontava dei capelli color rame di Alice. O del profumo della sua pelle. La nota sul registro perché aveva inneggiato all’anarchia davanti al professore. Le gite domenicali. Della sua giovanile voglia di rivalsa sul mondo. Il profumo dell’erba che aveva incontrato nei campeggi estivi. Gli raccontava, quasi come se non facesse parte di quel ricordo, di quando avevano marinato un giorno di scuola assieme solo un paio d’anni prima.  Dopo aver pranzato in un ristorante erano semplicemente evasi dal tavolo. Il tutto ridendo come ossessi mentre scappavano dal cameriere.
Una volta gli aveva persino confidato di essersi innamorato. Non lo aveva detto nessuno. Neanche a lei.
Non gli importava che il nonno non proferisse parola, o che il suo sguardo raramente si spostasse dalla sua innaturale fissità.
Quel giorno, invece, entrò in camera animato da uno spirito rivoluzionario. Quasi garibaldino. La sensazione di pesantezza dovuta alla consueta marcia nel corridoio della morte era già evaporata.
Si tolse la giacca, riscaldò col fiato le mani gelide e, con la cura che si offre solo a un neonato, girò il vecchio sul fianco. Poi gli mise un auricolare nell’orecchio.
Qualche ora prima aveva comprato uno ‘specchio convesso’. Così lo aveva chiamato il negoziante.
Lo tenne in mano mentre si ranicchiava nel letto all’altezza delle nodose ginocchia del nonno.
Lo posizionò nel punto giusto. Poi fece suonare ‘la piccola ragazza del mare’.
Con lo sguardo nello specchio, rivolto in alto, verso quel volto stanco e grigio, si sentì pienamente al sicuro dopo tanto tempo.
Era semplicemente…un attimo che durava quanto la vita dell’universo. Conteneva la stessa potenza. La stessa importanza.
Si perse nella musica e nelle immagini riflesse.
Per un attimo ebbe la fugace sensazione di sentire il suo sguardo ricambiato.
Di vedere un sottile incresparsi di labbra. Il sorriso di una frazione di secondo, perso nei ricordi di un bambino ormai uomo.

 

Emil Brune

BRUXISMO | Un racconto di Emil Brune

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La tapparella si alza di scatto con un fracasso da circo e la luce di una qualsiasi mattina inoltrata mi violenta le cornee. Strizzo tra le dita il piumone sbuffando incazzato.

– Alzati, coglione – sbraita Roberta uscendo dalla stanza

Senza preoccuparmi troppo di togliere la faccia dal cuscino le bofonchio di andare a farsi fottere. Speriamo che il suono si sia propagato comunque e l’abbia raggiunta.
“Se solo avessi la telepatia”.
Sciacqua faccia. Radi. Lava l’involucro. Dirigiti – velocità da crociera – verso la cucina per pasto frugale.
Pilota automatico: gran sballo.
Invado la zona fornelli e bacio mia madre

– Ave Mater
– Ave figlio. Frittata? – risponde alzando gli occhi cielo. Non lo ammetterà mai, ma la diverto un mondo. Sappiamo entrambi che è così.
– Mancata prole di pollame, perché no. Mettiamoci anche delle fette di suino, crepi l’avarizia. Un bell’eccidio multirazziale per cominciare l’uggioso giorno – declamo sorridendo.

Mentre si volta verso il frigo per prendere il necessario, abbasso i pantaloni del pigiama, guardo Roberta seduta al tavolo col naso tra i cereali, le mostro la schiena e sussurro un – baaaciamelo – porgendole le natiche nude. Mi guarda con aria divertita sventagliandomi in faccia il medio.
Dolce routine quotidiana. Anche se non sono rotto, mi accomodo a tavola e aspetto il lieto convivio. Con lo sguardo perso nel vuoto, ancora preda del torpore del sonno, avverto una vibrazione sottile che anima il pavimento. Percepisco un rumore in avvicinamento, senza riuscire ad identificarlo. A questo punto mia madre ha smesso di cucinare. Se ne sta lì, impietrita, col mestolo in mano, a guardare noi due.
Nessuno parla. Le uova carbonizzano nerastre.
Dalla porta a vetri della cucina ho una comoda visuale sulla strada. Vedo un’onda dirigersi verso di noi dall’orizzonte. La sento arrivare. Il rombo aumenta. Si espande in ogni direzione mentre segue il suo cammino verso casa nostra, inghiottendo ogni cosa. Bidoni dell’immondizia, pali, cassette delle lettere e passanti spariscono sotto la sua mole. Divora tutto e tutti.
La vedono anche Roberta e mamma. Urlano. Si urla sempre di fronte all’incomprensibile. Davanti all’orrore sfocato non si rinuncia mai a svuotare i polmoni.
Io no.
Resto lì, impalato. Non ho neppure il battito accelerato. Però…cazzo che male in bocca. Sento lo smalto liscio che sfrega.

Cani. Sono…cani. A centinaia, forse migliaia. Di qualsiasi foggia, razza e dimensione. Mastini con bocche ringhianti, Volpini caracollanti che finiscono per essere schiacciati dalla corsa dei Dobermann. Chiwawa rigurgitanti saliva cavalcano Pastori Maremmani come ussari alla carica. È un incendio di peli che nessun canadair potrà mai spegnere. La piena di un fiume pulcioso che, alla fine, si schianta contro la nostra vetrata.
Mia mamma grida di scappare. Di uscire di là. Roberta trema inerme. Io osservo interessato. Placido.
Ma la mandibola inferiore cozza e sfrega con quella di sopra.
“Fanculo che fastidio”.
Ho giusto il tempo di sentire lo schianto di cristalli in frantumi e vedere il volto di mia madre sparire tra le fauci di un Dogue De Bordeaux per poi ritrovarmi in strada.
Non ho idea di come ci sia arrivato. La torma di cani è un ricordo remoto, sfocato, come un sogno raccontatomi da un estraneo un’eternità fa. Mentre eravamo marci d’alcool, per giunta.
Strana sensazione.
Non dovrei essere nervoso, ma le ossa da grugno digrignano e cozzano fra loro. Le sento sbriciolarsi fino a raggiungere la polpa. Me ne rendo conto ma non posso fermarlo. Non sono io a tirare le redini.

Non avrò il controllo della bocca ma, a quanto pare, mi è ancora permesso avanzare. Quindi lo faccio. 
M’inoltro verso ovest sul vialetto ordinato. Dopo pochi passi incontro il vicino, il signor chisseloricorda, che innaffia il prato dietro il suo steccato color ‘celeste sogno di fata’.
Che nome stronzo.
– Ma buongiorno, mio giovane amico! – mi trombetta giulivo sotto i baffoni bianchi.
– ‘Giorno – rispondo vago mentre cerco di tirar dritto.
– Ma dove corre così veloce, caro ragazzo? Sì fermi per una tazza di tè…o per una limonata, se preferisce – mentre il suo pancione si svuota d’aria scorreggiando parole, ho l’impressione che qualcosa nella sua voce stia mutando innaturalmente.
– No, grazie, sono di fretta – butto lì allungando il passo.
– Ma lei ha appena avuto una forte scrollata canina presso il suo domicilio! Un’imponente precipitazione canide di livello otto –
Cazzo. Cazzo, merda, cazzo. Merda, cazzo e poi merda. La sua voce…è quella di una bambina. Come se parlasse in falsetto. Un maledetto eunuco da opera.
Per la seconda volta, il mio corpo reagisce alla paura in maniera scoordinata: niente palpitazioni o sudori.
Ma, in compenso, ricevo in premio una scarica di agonia sui quattro incisivi.
“Quasi mi mancava”, penso ironico mentre metto la mano sulla bocca, instupidito dal dolore.

– E poi… non vede che ha i denti a pezzi? Suvvia, sia ragionevole, e si accomodi nel mio domicilio. Da bravo, vedremo di contattare subito un dentista e, mentre aspettiamo, potrebbe bere una limonata ghiacciata seduto sulle mie ginocchia! Che ne dice? – miagola sornione con quella vocetta da bimbetta.

Subito dopo, giuro su dio, quel tricheco bastardo mi fa l’occhietto. Apro la bocca per dirgli che la limonata può infilarsela dove l’aria passa di rado ma, come spalanco le fauci, schegge perlacee e sangue vermiglio saettano ovunque.
Schizzi imporporati toccano il suolo mischiandosi alla polvere. Frammenti d’ebano decorano i ciuffi dell’erba ammaestrata dal flebile vento autunnale.
Urlo. Finalmente urlo.

Alzo il busto dal materasso che sto ancora gridando.
Madre e sorella frullano per la stanza come robottini impazziti chiedendomi se sto bene.
– Tutto okay. Solo uno strano incubo. Non ricordo granché – borbotto.
E vai col pilota automatico. Lava l’involucro. Sbarba le guance. Spazzola la dentatura indolenzita.
Poi, finalmente, l’itinerario prestabilito fino alle uova nel piatto.
Incomincio a carburare e riprendo energia. Lo strascico nerastro di quella follia notturna abbandona il mio cervello, così come il formicolio in bocca.
Mi scrollo di dosso i vaghi incubi della notte precedente, ricordando solo l’agonia dei denti spezzati.

Routine, dolce routine. Il percorso nel mondo degli automi, le lezioni e i caffè, le sigarette in compagnia di discorsi da sagra di quartiere e il chiacchiericcio di sottofondo. Il bla bla bla che arricchisce noi tutti, sfarzosi poveri di idiozia e noia.

Sono in uno stanzone piastrellato in bianco. La luce al neon sopra il tavolone di metallo si riflette sulle mattonelle delle pareti dando vita a un’atmosfera da fantascienza. Addosso ai muri si appoggiano mensole metalliche abitate da strumenti operatori. Storti arnesi da tortura si affacciano dagli scaffali. Becchi arcuati, pinze seghettate, vaschette metalliche e punteruoli mi osservano algidi.
Mia madre è appena uscita, lasciandomi solo con quel corpo livido: sul tavolaccio autoptico riposa quella che fino a dodici ore prima era mia nonna.
Mi avvicino a lei e sfioro appena quelle dita che non potranno più accarezzarmi. Guardandola, comincio a elencare mentalmente tutto ciò che mi è stato strappato via con la sua morte. Se ne vanno i ricordi, alcuni condivisi, altri, per me troppo lontani da raggiungere. Persi nella memoria del bambino che sono stato.
Se ne vanno assieme a questo corpo grigio e stanco.
Spariscono i racconti del passato e libri letti assieme. Non ci saranno più Sir Conan Doyle, Edmond Dàntes o Martin Eden. Le loro storie non prenderanno più forma attraverso la sua voce.
Ne resterà il ricordo, forse.
La realtà intorno a me è vacua e torbida. Confusa. Dentro quel corpo non c’è più nulla. Solo organi inerti, liquidi e gas che presto evaderanno dalle cavità senza alcuna cura o gentilezza: il dispetto finale.
Le accarezzo i capelli e – abituato come sono a vederglieli cadere sulle spalle in eleganti boccoli rossicci – mi fa strano sentirli passare fra le dita. Sono stopposi, sfilacciati e lisci.
Compiere quel gesto inusuale mi frantuma.
“Quale nipote accarezza i capelli della propria nonna?”
Non ha senso. Tutto questo è semplicemente…sbagliato.
“Non voglio che te ne vada”.
Il canino destro mi fulmina con un picco di agonia lancinante.
Per una frazione di secondo socchiudo gli occhi, in attesa che il dolore passi e, quando li riapro, la sua testa è piegata su un lato, verso di me. Mi osserva, silenziosa. La morsa d’acciaio dell’ansia stritola i miei polmoni. “Dev’essere un sogno. Deve esserlo”.
Poi, sorride. Stordito, le sorrido di rimando.

– Ma…che…ma che diavolo succede?
– Shh, da bravo. Fatti dare un’occhiata prima di andare.
– Ti voglio bene, nonna – sussurro con un alito di voce al cui interno c’è tutto me stesso.

Quegli occhi nocciola, che sono anche i miei, mi regalano un ultimo saluto. Nelle loro profondità c’è l’amore abissale, che non teme né le ingiurie del tempo né l’eternità della morte. Desidererei che potesse restare qui, per sempre, ma mentre rimette la testa in posizione e chiude gli occhi, so che non le è permesso. Deve rispondere – come tutti – al comando più grande. Così la lascio andare.
La luce del neon traballa mentre piango. Mi inginocchio continuando a stringere la sua mano gelida.
“Non andare. Non ora. Resta con me”.
Il neon smette di sfarfallare. Tra le lacrime che mi offuscano la vista, osservo il mio canino insanguinato sul pavimento.

Lanciando via le coperte sudate, sento ancora addosso il peso una tristezza ignobile. Di quella malinconia bastarda che si intorbidisce nel cuore. I miei denti sono in fiamme, poi, ricomincia lo show: via la barba, lava il sottobraccio, sciacqua il volto. Trascinati – come lo zombi che sei – verso tristi fiocchi d’avena.
Mentre mangio, guardo il muro, apparentemente disconnesso.

– Stanotte ho sognato nonna – annuncio cupo.
– Capita a tutti, credo – risponde Roberta senza alzare lo sguardo.

Stramaledetta routine. Perdi la cognizione del tempo e dello spazio. Stessi luoghi, stessi volti. Inabissati negli schermi sociali, perdi quotidianamente la dignità esibendoti come un pavone daltonico. Rinuncia a serenità e al desiderio di contatto. E allora vai, cammina tronfio, ostentando apparenza. Incazzati come un demonio quando la cassetta degli attrezzi non si chiude più. Cacciaviti, tenaglie e brugole non ritornano docilmente al loro posto, quasi fossero i pezzi sconnessi della tua vita.
Apro internet e navigo tra sogni di denti. Nulla di buono: lutto, mancanza, morte di persone care e via dicendo. “Ottimo. Non potevo desiderare di meglio”.
Denti. Denti. Denti.
Continuo coi miei sogni di dentina in frantumi e polpa esposta e sanguinante. Sento l’aria gelida scorrermi tra i tronconi dei cadaveri bianchi che ho in bocca. Notte dopo notte.

Sono in uno spazio buio. Passo la mano davanti agli occhi ma non riesco a vederla. Provo ad alzarmi, ma non ci riesco. C’è un muro a trenta centimetri dal mio corpo. Sono disteso fra due pareti d’acciaio.
Poi, cristo, una forza mostruosa mi scaraventa all’incazzata a destra e poi a sinistra, manco fossi in una centrifuga. Sento nuca e schiena sfregare sul pavimento mentre brandelli di carne prendono commiato dal mio corpo. Va avanti così per un tempo senza limite.
Dopo di che, pesanti – e colorate – forme geometriche cominciano a lampeggiare nell’oscurità. Mi vengono bruscamente incontro, per poi fermarsi immediatamente davanti agli occhi.
“Mi schiacceranno. Cazzo, mi spappoleranno al suolo. Mi disintegreranno”.
La bocca mi viene spalancata a forza. Qualcosa di cilindrico e zigrinato mi scava fra le labbra: ho decisamente un tubo tra i denti. Vengo sballottato così, senza sosta, a destra e sinistra. Il dolore è insensato. Sento i denti disintegrarsi per lo sfregamento abrasivo. Proprio quando penso di stare per morire dall’agonia, la forza si placa, lasciandomi sospeso in quell’incubo nero.
Respiro all’impazzata per lo shock. Nuove corone spuntano espellendo i monconi insanguinati. Poi ricomincia. Lancette invisibili scorrono incalcolabilmente durante la tortura. Svengo. Non sento più nulla.
Quando riprendo i sensi sono ancora avvolto dal buio. Vorrei urlare, ma non posso: i denti sono ormai troppo lunghi per permettere alla mascella di articolare qualsiasi movimento.

Mi sveglio e sono sereno. Tutto è passato non appena ho aperto gli occhi. Niente dolore sulle arcate, né ansia o preoccupazione alcuna.
Io sono lexotan.
Mi alzo a fatica, ma riesco comunque a mettermi seduto, nonostante le braccia mi strozzino il torace.
Non ci sono più quadretti con volti sorridenti alle pareti. Niente computer, bandiere, foto, boccali da birra o sorelle che mi svegliano scherzando. La luce dell’alba che filtra attraverso la grata della finestra illumina un paio di pantofole bianche e spente pareti grigiastre.
Nel mio abbraccio forzato, con le mani appena sotto le scapole, mi osservo allo specchio.
Le cinghie tintinnano.
Guardo le mie labbra distrutte, poi…spalanco. Scruto nelle ritmiche cavità, e mi dò il buongiorno col mio migliore – e roseo – sorriso.
Finalmente sono libero.

 

Emil Brune