Lo specchio convesso | un racconto di Emil Brune

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Nel piazzale davanti al reparto di ostetricia non c’era anima viva. Regnava una calma inusuale. Quasi come se la città – o forse il mondo intero – si fossero fermati per ascoltare in silenzio il prodigio che stava per avvenire nel palazzone alle sue spalle. Karla, la sua unica figlia stava per spingere nel mondo il suo primo nipotino. Erano mesi che si preparava a quel giorno. Lo scorrere del tempo lo aveva rassicurato e agitato allo stesso tempo. Si era pian piano convinto che sarebbe riuscito ad affrontare quel momento con una maggior calma ma, quando tentò di accendere per la terza volta la sigaretta che gli penzolava tra le labbra, si rese conto di come i suoi buoni propositi fossero andati allegramente a farsi benedire.
“Nessuno ti prepara alla vita”, pensò. Ti ci ritrovi dentro, tuo malgrado, e provi a fare del tuo meglio. O il tuo peggio. Dipende dalle inclinazioni.
Le orme delle sue scarpe sulla neve rendevano il tratto di asfalto – che aveva designato di sua competenza -simile al manto di un dalmata. Continuò a girovagare come un detenuto durante l’ora d’aria finché non scese sua moglie a chiamarlo. Era nato. Piotrek aveva aperto gli occhi per la prima volta.

Quando lo prese tra le braccia, con quel visetto tutto deformato e rugoso per la lotta del parto, sentì il cuore esplodergli per la gioia. Anche se l’espressione non descrive con esattezza ciò che gli stava crescendo nel petto. Era un’euforia che non accennava ad abbandonarlo. Voleva ballare, cantare, fare le boccacce agli inservienti nei corridoi dell’ospedale. E lo fece. Con quell’esserino tra le braccia, incominciò a danzare cantando, ad ampi passi in giro per la nursery. Pianse e ringraziò un onnipotente in cui non credeva per quella creatura che stringeva tra le braccia.
Era una sensazione più grande di lui. Se quello non era il verbo di Dio, tramutato in un minuscolo fagottino rosa, allora Dio non aveva mai proferito parola. E mai lo avrebbe fatto.

Le settimane successive furono estenuanti, ma piene di allegria per tutti. Non c’era un solo membro della famiglia che non fosse stato travolto dalla potenza dell’avvenimento. Era come se un gigantesco e invisibile controllore avesse revocato loro la possibilità di avere una giornata storta o di provare anche il più minuscolo momento di infelicità.
Ebbe la sua generosa porzione di notti insonni, di pannolini da cambiare e rigurgiti sulle camicie da lavoro ma, in fondo, era come se non avesse mai desiderato altro.
Dopo due mesi imparò per l’ennesima volta l’importanza del rito. Ogni volta che andava a casa della figlia a trovare il nipote, appena un attimo prima di varcare la soglia, emetteva due fischi. Uno corto e uno più lungo, ravvicinato al precedente. E, appena entrato nell’appartamento, sapeva di aver già guadagnato il sorriso più dolce del creato. Senza colpo ferire.
Quando arrivava il momento del riposino ordinato dalla rigida tabella di marcia stabilita dalla madre, lo prendeva con sé e lo portava sul terrazzo. Appoggiava la piccola schiena contro il suo petto e gli mostrava le luci della città – mai doma – canticchiandogli Your song.
La sua mamma gli aveva trasmesso la passione per Elton John, che volete farci.
In quei momenti, il bambino cercava nell’aria il lobo del suo orecchio e glielo afferrava. Poi lo guardava. E il tempo sembrava fermarsi di fronte a quei due abissi color nocciola.
Subito dopo iniziavano le rugne di supplica per il lettino. Allora lo adagiava dolcemente fra le coperte dove, tra un gemito e l’altro, finiva per addormentarsi.
Il nonno materno ne approfittava per riposarsi in cucina di fronte a un caffè e allo sguardo della figlia che, solo allora, stava imparando a riconoscere come quello di una giovane madre.
Una lenta e straordinaria mutazione.

Il rumore e l’aroma del caffè che gorgogliavano fuori dalla caffettiera si diffondevano nella casa penetrando  nel sonno del bambino. Ne avvertiva il profumo nei suoi sogni di forme e colori indistinti. Una sensazione rassicurante che lo cullava, spingendolo a sorridere tra giraffe e orsi di peluches.

Passarono sei mesi, e l’entusiasmo che aveva regnato in precedenza era meno definito. Viveva più di fiammate che di un’estasi continua. Ovviamente questo non valeva per i genitori. Così come non valeva per il nonno, che continuava eroico nei suoi sforzi, tra le anonime ore di lavoro e l’amore che gli rubava quella piccola creatura.
Decise che voleva fare qualcosa di speciale. Qualcosa che sarebbe durato per sempre. Che non si sarebbe consumato con lo scorrere del tempo. Voleva una sensazione pura, nitida, che rimanesse incastrata per sempre nella coscienza del bimbo. Aggrappata all’uomo che sarebbe diventato. Come l’odore della minestra di verdure della nonna. O il latrato del cane alla vista dell’ombra dell’ennesima bicicletta vagante.
Una notte, dopo un pomeriggio da cancellare dal calendario con la dicitura ‘il peggior mal di denti del mondo’, Piotrek era finalmente a letto.
Dormiva spesso su un fianco. Per questo gli risultò particolarmente semplice posizionare uno specchio convesso sul bordo della culla, in modo che si potessero vedere vicendevolmente senza alcuna difficoltà. Infilò la testa dentro il box facendo sì che la superficie argentea avesse in un’estremità il suo volto, e dall’altra quella del suo piccolo gioiello. Lo stereo diffondeva una vecchia e malinconica melodia.
Le petite fille de la mer.
Avvenne esattamente quello che aveva sperato. Vide quegli occhietti – gonfi di sonno – spalancarsi di meraviglia. Attraverso lo specchio, i loro sguardi si scontrarono per un secondo che durò quanto la vita dell’universo. Il bambino sorrise. Lo stesso fece lui. La canzone era finita e Piotrek dormiva.
Fuori dalla porta trovò sua figlia che lo aspettava in vestaglia accompagnata da una tazza di caffè.
Lo sorprese con lo specchio ancora in mano.
Con un sorriso leggero e assonnato gli chiese: – Che stai facendo papà? –
– Creo un ricordo. Forse una sensazione – le rispose semplicemente sorridendole di rimando.
Ripeté il rito un gran numero di volte, fino al giorno in cui il bambino non fu troppo grande per dormire protetto da sbarre. Non ne parlò mai con nessuno: era geloso di quell’intimità.
Quei sorrisi nello specchio e quella musica erano solo loro. Di nessun’altro.

Mentre passeggiava nervosamente davanti al casermone color confetto cercò di accendere per tre volte una sigaretta che era ormai consumata. Aveva sempre una gran voglia di andare a trovarlo ma, puntualmente, quando parcheggiava il motorino davanti all’edificio provava solo nausea e l’impeto irrefrenabile di scappare lontano da quel posto.
“Ospizio”.
Che brutta parola.
– Si chiamano case di cura, Piotrek. Smettila di chiamarlo ‘Ospizio’. Gli ospizi hanno le blatte sotto i letti e disgustose cene liofilizzate. Non ho messo tuo nonno in una stamberga per moribondi rincoglioniti. Sta in una casa di riposo, seguito e curato come meglio non potrebbe – gli diceva la madre.
– Come vuoi ma’. Ospizio, casa di cura, chiamala come vuoi. La sostanza non cambia – le rispondeva con la vena polemica che solo un ragazzino di 17 anni può covare nella testa.
Entrò nel complesso residenziale. Ogni volta che attraversava quei corridoi perlacei – conditi da sguardi vitrei, fredde cataratte azzurrine e capelli furibondi – si sentiva smarrito. Nelle sue orecchie risuonava il rumore delle pantofole della vecchina della 209 che sfregavano sul pavimento.
Sembrava che volesse tirare a lucido la lingua verdastra che divideva le stanze degli ospiti (nella sua testa, in realtà, camminava ancora in casa sua, col marito morto e i due figli traditori).
Flebili cantilene arrivavano dalla zona ristoro, vacue e acute risatine riecheggiavano nel corridoio, mentre il ragazzo passava in rassegna le flebo e le lettighe prima di arrivare alla camera del nonno.
Era una sensazione estenuante. Come se ogni parte del corpo – persino i suoi pensieri – si gonfiasse di sabbia. E il peso di ogni granello lo trascinava sempre più a fondo mentre ribadiva a sé stesso – per la centesima volta – che quella non era altro che l’anticamera della morte.
Ogni volta che andava a trovarlo stava vicino al letto elettrico tenendogli la mano, accarezzandola con lentezza, percorrendo amorevolmente ogni scanalatura di quella pelle secca e fragile come carta velina.
Gli parlava di tutto. Della scuola, le prime scopate, delle serate passate con gli amici a suonare, ridere e bere. Gli raccontava dei capelli color rame di Alice. O del profumo della sua pelle. La nota sul registro perché aveva inneggiato all’anarchia davanti al professore. Le gite domenicali. Della sua giovanile voglia di rivalsa sul mondo. Il profumo dell’erba che aveva incontrato nei campeggi estivi. Gli raccontava, quasi come se non facesse parte di quel ricordo, di quando avevano marinato un giorno di scuola assieme solo un paio d’anni prima.  Dopo aver pranzato in un ristorante erano semplicemente evasi dal tavolo. Il tutto ridendo come ossessi mentre scappavano dal cameriere.
Una volta gli aveva persino confidato di essersi innamorato. Non lo aveva detto nessuno. Neanche a lei.
Non gli importava che il nonno non proferisse parola, o che il suo sguardo raramente si spostasse dalla sua innaturale fissità.
Quel giorno, invece, entrò in camera animato da uno spirito rivoluzionario. Quasi garibaldino. La sensazione di pesantezza dovuta alla consueta marcia nel corridoio della morte era già evaporata.
Si tolse la giacca, riscaldò col fiato le mani gelide e, con la cura che si offre solo a un neonato, girò il vecchio sul fianco. Poi gli mise un auricolare nell’orecchio.
Qualche ora prima aveva comprato uno ‘specchio convesso’. Così lo aveva chiamato il negoziante.
Lo tenne in mano mentre si ranicchiava nel letto all’altezza delle nodose ginocchia del nonno.
Lo posizionò nel punto giusto. Poi fece suonare ‘la piccola ragazza del mare’.
Con lo sguardo nello specchio, rivolto in alto, verso quel volto stanco e grigio, si sentì pienamente al sicuro dopo tanto tempo.
Era semplicemente…un attimo che durava quanto la vita dell’universo. Conteneva la stessa potenza. La stessa importanza.
Si perse nella musica e nelle immagini riflesse.
Per un attimo ebbe la fugace sensazione di sentire il suo sguardo ricambiato.
Di vedere un sottile incresparsi di labbra. Il sorriso di una frazione di secondo, perso nei ricordi di un bambino ormai uomo.

 

Emil Brune