John wicker

JOHN WICKER | DREAM | presto su Amazon

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Stiamo lavorando agli ultimi ritocchi al nuovo romanzo di John Wicker “DREAM” e mi ritrovo qui, con questo romanzo tra le mani .

Partire con il progetto editoriale dell’Infernale è un piacere inimmaginabile.

Le uniche anticipazioni che possiamo darvi sono relative al genere: DREAM  è un misto tra la classica narrativa weird e l’horror grottesco.

Ho iniziato a leggere le prime pagine di questo romanzo e mi sono sentito subito trascinato in un mondo fatto di avventure in tinte cupe e vite normali, tramutate in qualcosa di estremamente prezioso.

Sono sicuro che avrete avuto il tempo di apprezzare questo scrittore sul nostro portale, leggendo i suoi racconti e se non l’avete ancora fatto… potete trovarli qui: http://linfernale.altervista.org/j-wicker/

Comprare un libro è un po’ come firmare un contratto con se stessi, una sorta di sfida contro il mondo esteriore pre accrescere quello interiore.

 

John Wicker è uno scrittore sensazionale, capace di commuovere ogni molecola del corpo del lettore.

A breve parleremo anche della trama del primo volume di questa trilogia.

Ah, è vero… mi ero dimenticato di dirvi che DREAM sarà una saga d’autore.

Un saluto a tutti i lettori del blog

 

Ferdinando de Martino.

SPAVENTACI | Sei un autore horror ? Dimostracelo con un racconto | Stiamo cercando te |

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Sei un autore horror? Credi di avere dei racconti validi?

Sei stanco delle case editrici che rifiutano i racconti? Forse facciamo al caso tuo.

Inviaci un racconto e noi dell’infernale lo leggeremo con attenzione, valutandolo minuziosamente per un’eventuale proposta di pubblicazione con la sezione editoriale del nostro blog.

Tu dacci una storia convincente e noi valuteremo un’intera raccolta.

Credere nel web e nell’editoria giovane e nuova è una ragione di vita.

SPAVENTACI è l’opportunità che stavi aspettando.

Invia una mail a ferdidioniso@gmail.com specificando SPAVENTACI come oggetto e verrete ricontattati  in ogni caso.

Fatevi avanti…

Ferdinando de Martino (Direttore editoriale)

 

L’INCONTRO INASPETTATO | di John Wicker | un racconto da incubo

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Elisa si trovava sul vecchio pontile dell’abitazione di montagna, appartenuta a sua nonna.
Quella casa aveva visto nascere suo padre. Probabilmente un piccolo Alberto Verni si era messo a correre proprio su quel pontile in costume da bagno, sorridente e spensierato.
Quando provava ad immaginare suo padre da bambino le veniva una fitta allo stomaco.
Era felice del fatto che quell’uomo avesse vissuto dei periodi felici prima dell’arrivo di Wall Street e di tutte quelle stronzate che gli avevano riempito la testa fino a fargli esplodere un aneurisma cerebrale.
C’era stato un tempo in cui suo padre era stato felice, ma lei non l’aveva vissuto.
Adesso si trovava in quella casa da cui lui era fuggito a sedici anni per andare a studiare a Torino, prima che una delle città più importanti del paese divenisse troppo provinciale per lui.
Un giorno, mentre ascoltava le notizie del telegiornale, lo vide alzarsi e dirigersi verso la finestra gigantesca del loro appartamento. Aveva in mente ogni dettaglio di quella giornata, quasi come se la stesse vivendo in quel preciso momento.
Suo padre si smarrì per un attimo, cosa più unica che rara per un uomo che non lasciava mai trasparire il mondo del di dentro, e disse ad alta voce -New York si sta trasformando in un paesino del cazzo.
Quello era suo padre. In quella frase c’era ogni aspetto ed ogni sfumatura dell’uomo che l’aveva cresciuta a pane e pragmatismo.
Una constatazione semplice è lineare: la grande mela sta diventando un paese.
Sua madre viveva a Roma e probabilmente l’avrebbe raggiunta dopo aver passato un po’ di tempo nella baita appena ereditata.
Non aveva idea di cosa fare con quel luogo. Poteva venderlo, affittarlo o addirittura andarci a vivere.
Si era laureata da poco e l’idea di starsene per un po’ di tempo in mezzo al verde la elettrizzava.
Molti penseranno che il termine “elettrizzante” poco si addica ad una circostanza come quella, ma dopo aver vissuto tra Roma e New York, la pace era un concetto da elettroshock per Elisa.
Si era laureata in legge ma non aveva nessuna voglia di proseguire quella strada e un qualsiasi lavoro l’avrebbe soddisfatta. Tra l’eredità paterna, il fondo fiduciario e tutto il resto, i soldi non erano di certo un suo problema.
Se si fosse trasferita lì, avrebbe dovuto prendere un cane. Non era abituata alla solitudine dei monti.
Il lago era molto romantico e lei era sola. Il momento era delicato e nessuno lo stava condividendo con lei. Era forte… l’avrebbe superata.
Accanto a sé aveva un libro che non aveva ancora iniziato. Leggere era uno degli obiettivi che si era prefissata.
Per via del suo percorso scolastico esemplare, si era gettata a capofitto in tomi e tomi di giurisdizione, tralasciando la narrativa che da ragazzina adorava tanto.
Adesso era arrivato il momento di staccarsi dalle serie televisive viste sul piccolo monitor del suo computer per dedicarsi agli autori che aveva trascurato per così tanto tempo.
Pensò quasi d’accendersi una sigaretta, nonostante il pensiero di smettere fosse molto forte nella sua psiche, minata dall’ipocondria generata dalla malattia del padre.
-Ciao.
Era convinta di essere sola.
-Dio… mi hai fatto venire un colpo.
-Io sono Marco. Abito dall’altra parte del lago.
-Io sono Elisa e… ho ereditato la casa qui sopra.
-Mi dispiace.
-Perchè… è una bella casa, dopotutto?
-Intendevo per la perdita.
-L’avevo capito; stavo solamente cercando di sdrammatizzare.- sorrise.
-Posso sedermi sul pontile?
-Certo.
-È bello che ci sia qualcuno qui. È una casa così triste e silenziosa. Il silenzio può essere molto pesante qualche volta.
-Non ti piace il silenzio?
-No… credo che non piaccia a nessuno. Forse qualcuno potrà anche mentire a riguardo, ma a nessuno piace. Ricorda troppo il nulla.
-Adesso so due cose di te: ti chiami Marco e odi il silenzio.
-È vero. Abito anche dall’altro lato del fiume, due case più in là.
-Io ho appena finito l’università. Tu cosa fai?
-Lavoro come aiuto meccanico giù all’autorimessa.
-Da Carlo?
-Esattamente.
-Non ci posso credere.
-Non avrei motivo di mentire a riguardo…
-Non intendevo in quel senso.
-L’avevo capita… questa volta.
-Anche mio padre lavorava in quell’autorimessa da ragazzino. Ha sempre descritto quel periodo della sua vita come uno dei più belli.
-Forte. Come si chiamava tuo padre? Se non sono indiscreto.
-Alberto.
-Anche noi abbiamo un Alberto. Comunque se vuoi posso chiedere se qualcuno si ricorda di lui.
-Ma sarà passata una vita. Comunque, avevo proprio bisogno di parlare con qualcuno in carne ed ossa. – sorrise Elisa.
-Mi fa piacere. Sai… mentirei se dicessi che qui passano tante ragazze bellissime con cui parlare.
-Hey, vacci piano… potrei essere tua zia.
-Zia… addirittura? Guarda che ho ventidue anni.- disse il ragazzo, accarezzandosi le guance come se sentisse una ricrescita improvvisa di barba.
-Ventidue?- rispose Elisa, maliziosa.
-Ok, bene… ho diciassette anni, ma a breve ne farò diciotto.
-Magari ci vediamo tra una decina d’anni…
-Quanti anni hai?
-Ne ho venticinque.
Marco sorrise, rimanendo muto.
-Ah… ti sei giocato la tua ultima possibilità, ragazzino… avresti potuto dire che ne dimostravo molti di meno.
-Non c’è n’è bisogno… sono sicuro che tu sappia di essere bella.
-Ok. Abbiamo appurato che ci sai fare con le ragazze. Potrei anche innamorarmi se continui così.
Stava scherzando, anche se il ragazzino che sedeva dall’altro lato del pontile era carino per l’età che aveva.
-Senti, ti chiedo scusa, ma devo rientrare perchè qui non c’è campo e devo proprio fare un giro di telefonate.- disse, guardando il suo iPhone.
-Cos’è quello?- chiese il ragazzo.
-È il mio telefono… ma non te lo do il numero… non ancora per il momento. Comunque se volessi cercarmi online, mi chiamo Elisa Verni.
-Non lo dimenticherò ho un amico che si chiama Verni ed Elisa è già diventato il mio nome preferito.
Le aveva fatto piacere chiacchierare con qualcuno, pensò, risalendo la collina.
Almeno qualcuno sotto i settant’anni era rimasto in paese e magari avrebbe incontrato anche gente della sua età, per bere una birra e fare due chiacchiere. Non sentiva la necessità d’instaurare rapporti interpersonali, ma non ne disdegnava comunque l’ipotesi.
Si voltò verso il lago non appena arrivò in veranda, ma Marco era sparito. Avrebbe voluto chiamarlo per invitarlo a bere una limonata o qualcosa di analogo. Volatilizzato.
Era giovane e i giovani sparivano sempre.
Dopo aver sbrigato le telefonate, Elisa decise di entrare in casa.
Le sarebbe decisamente piaciuto crescere in una casa col camino, pensò, trovandosi davanti a quello dell’abitazione che aveva dato i natali alla sua famiglia.
Il calore non faceva parte dell’universo di suo padre; era sempre stata sua madre quella eccessiva nelle manifestazioni d’affetto.
Accese il vecchio televisore a tubo catodico, collegato ad un decoder che doveva aver visto tempi migliori. Stavano dando la sesta puntata di un telefilm che lei aveva terminato di vedere quattro anni prima, approfittando dei siti che propinavano lo streaming gratuito dei network americani, dando il colpo di grazia alle produzioni di qualità.
C’era un qualcosa di estremamente tranquillo nel guardare dei personaggi che avevano, perlomeno nella sua testa, un percorso già definito. Si appisolò così davanti a quella trasmissione.
Quando venne svegliata dalla frastornante musica di una pubblicità scritta con l’intento di promuovere un rivoluzionario sistema di filtraggio dell’acqua, si accorse di avere lo stomaco completamente vuoto.
Aveva comperato lo stretto necessario per passare la prima notte, consapevole che anche in quel luogo sperduto erano presenti dei supermercati.
Pop-corn glassati al cioccolato e gelato al caramello. La perfetta alimentazione di una ragazza americana post-disturbo alimentare.
Prima d’iniziare a portar il cibo alla bocca, tirò fuori il suo computer portatile, impegnandosi nella ricerca di un qualcosa di vagamente decente da poter guardare mangiando i suoi snack-cena.
Era costretta ad utilizzare il credito del suo cellulare per poter usufruire del segnale internet, il che rendeva abbastanza difficoltà la visione della serie che aveva scelto per la sua cena.
-Ma come cazzo si fa a non avere campo. Uno più va in alto e più dovrebbe essere vicino al segnale, no? E che cazzo!
Il televisore era ancora lì e magari con un po’ di fortuna avrebbe trovato qualche programma interessante.
Come cambiava il mondo. L’Italia era indietro anni luce. Lo stato di New York cominciava a mancarle. Dopo qualche minuto trovò un programma simil reality con cui intrattenersi, ingurgitando schifezze.
Il problema cena era stato risolto.
Cosa rimaneva di suo padre? Dei suoi nonni? Forse quello non era un buon periodo per starsene tutta sola in un luogo desolato, ma doveva in qualche modo prendersi del tempo per lei, prima che la vita le spezzasse le ali impedendone il volo.
Le paranoie notturne abbandonarono completamente il suoi pensieri non appena il sole entrò nella sala.
Si era addormentata sul divano, poco dopo aver spento la televisione.
La fame iniziò a farsi sentire nuovamente, ma questa volta sarebbe stata costretta a scendere in paese per comprare qualcosa da mettere sotto ai denti.
Una svelta lavata di faccia e via, verso la macchina che sua madre le aveva prestato per il viaggio.
Quella era un’altra nota positiva dell’essersi allontanata dalla grande mela… per un po’ non sarebbe stata costretta a truccarsi per trentacinque minuti ogni mattina prima d’uscire di casa. Lo standard di quel paesino era decisamente basso e finalmente poteva smetterla con tutta quella routine proto-consumistica dettata dalle pubblicità di moda che cercavano di venderti soluzioni colorate per vite funeree.
Finalmente poteva dedicarsi alla flanella e ai capelli legati.
Era davvero un bel posto. Tutto quel verde non faceva che risplendere al sole, come se tutte le brutture dell’universo potessero essere annientate dal canto di un uccellino.
Non l’avrebbe mai detto ad alta voce, perchè la sua reputazione da cinica doveva essere difesa in qualche modo, ma lo stava pensando realmente.
Il supermercato si trovava allo svincolo successivo, tuttavia Elisa decise di girare prima, dirigendosi verso l’autofficina.
Avrebbe salutato il suo amico adolescente, chiedendogli magari di passare da lei più tardi per fare due chiacchiere. La solitudine poteva essere difficoltosa da quelle parti.
Era incredibile; la maggior parte delle persone in quel posto sembrava uscita da una reunion del cast di “Hazzard”.
Scese dall’auto e, dopo aver parcheggiato, chiese ad un uomo di Marco.
-Marco, Marco… qui non lavora nessun Marco.- rispose, aspirando lentamente dalla sua sigaretta.
-Guardi, mi dispiace ma è semplicemente impossibile… io ho parlato ieri con lui e mi ha detto che lavora qui.- sorrise, trattandolo un po’ come se si trovasse davanti allo scemo del villaggio.
-Guardi, io sono il capo qui e questa è l’unica autofficina del paese, quindi… le posso assicurare che non troverà nessun Marco né qui, né altrove.
Era stato conciso, ma alquanto scortese. C’era un qualcosa che non le piaceva nella voce di quell’uomo.
-Aspetti… in effetti un Marco c’è, non lavora qui, ma ci consegna i bulloni. Se vuole posso darle il suo numero di telefono.
-Ero sicura di quello che dicevo, ma non volevo risultare maleducata.
-Si figuri… non mi è venuto in mente perchè il vecchio Marco non parla mai con nessuno e non l’avrei mai collegato ad una ragazza giovane come lei.
-Scusi, ma quanti anni ha questo Marco?
-Almeno settantadue.
-Allora è un Marco differente dal mio.
D’un tratto lo sguardo della ragazza venne rapita da un immagine attaccata al muro. Proprio a fianco al vecchio calendario di ragazze svestite notò una foto in cui compariva suo padre.
-Cristo santo, quello è… è mio padre.- disse, accorgendosi di sembrare pazza.
Si asciugò furtivamente una lacrima dal viso.
-Mi scusi, mio padre è mancato da poco e quello lì e lui… beh, lui da ragazzino.
-Che mi prenda un colpo, tu sei la figlia dell’Alberto? L’Albertino che è andato in America.
-Sì.
-Sapessi quanto m’è dispiaciuto per il tuo papà. Certo che ha lavorato qui da ragazzino. Lo conoscevo bene, abbiamo lavorato insieme… poi lui l’ha capita e s’è levato dalle balle. L’Albertino, ma pensa un po’. Che bella figlia che ha tirato su.
-Grazie.- rispose, mentre il suo sguardo veniva catturato da un altro particolare, notato all’interno di quella fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo.
Si avvicinò con fare interrogativo.
-Se stai cercando me, lì non mi troverai… non c’ero quel giorno.- disse l’uomo, asciugandosi le mani sporche d’olio motore.
-Ma questo qui…
-Quello si chiamava Marco, come il tuo amico. Non ha fatto una bella fine. È morto poco prima della partenza di tuo padre. Se l’è portato via una macchina bastarda. pace all’anima sua… era un ragazzo così simpatico. Se gli davi da parlare, parlava anche con le pietre.
-Mi creda, questo è esattamente il ragazzo che ho conosciuto ieri. Aveva gli stessi identici vestiti.
-È impossibile tesoro, ti stai confondendo. Quel ragazzo lì è morto proprio di fronte a casa di tuo padre. La macchina se l’è portato via in prossimità del pontile. Abitava…
-Dall’altro lato del fiume… due case più in là.- concluse la ragazza, impedendo all’uomo di continuare.
-E tu come fai a saperlo?
Un brivido le percorse la schiena.

 

 

J. Wicker

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di JOHN WICKER

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Sharon se ne stava accasciata a terra, tenendo suo fratello in braccio. Il coltello da carne penzolava pericolosamente vicino al viso piangente del piccolo Bruce.
Lo sguardo della ragazza era assente, quasi come se avesse visto negli occhi il reale volto del male.
Jack Milton si svegliò di soprassalto in un bagno di sudore. Succedeva ogni notte.
-Tutto bene, tesoro?- chiese, ancora assonnata, Darline.
-Tranquilla cara… tranquilla.
Era passato un mese, ma Jack non era ancora riuscito a dimenticare ciò che era successo in quella casa.
Anche Darline faticava molto a prendere sonno, ma non le capitava mai di svegliarsi nel cuore della notte, in preda ad attacchi di terrore notturno come succedeva a lui.
Andavano a trovare Sharon ogni due giorni, nella clinica privata che l’aveva presa in cura. Schizofrenia. La diagnosi parlava chiaro.
La loro primogenita di diciassette anni era schizofrenica ed era monitorata ventiquattr’ore su ventiquattro.
Jack sognava quel momento in continuazione, ponendosi sempre la stessa domanda: cosa sarebbe successo se lui non fosse entrato in tempo in quella stanza?
Sharon avrebbe brutalmente ucciso il suo piccolo fratellino? Sarebbe realmente stata in grado di fare del male ad una creatura così piccola ed indifesa?
Come avevano potuto non accorgersi dei sintomi della malattia mentale della loro primogenita?
Lui passava molto tempo a lavoro, ma aveva sempre avuto un rapporto splendido con Sharon. Lei gli aveva sempre detto che lo considerava più un amico che un padre.
Quando era piccola, lui era solito guardarla intensamente prima di rimboccarle le coperte e dirle -La principessa di papà ha bisogno di un bacio scaccia mostri?
Lei rispondeva sempre -Facciamo due.- e scoppiavano entrambi a ridere.
Il tempo delle risate era finito. La sua principessa era costretta in un lettino, imbottita di psicofarmaci per impedirle di fare del male a qualcuno o addirittura a se stessa.
Si alzò per andare a prendere un bicchiere d’acqua in cucina. Lungo il tragitto si fermò davanti alla camera di Bruce. Era tutto a posto. Non avrebbe più permesso a niente e nessuno di fare del male alla sua famiglia.
Una volta in cucina, aprì il rubinetto e si riempì un bel bicchiere d’acqua. Probabilmente l’avrebbe aiutato a dormire.
Quasi senza un reale motivo, decise di andare in bagno, nonostante non sentisse nessun impulso fisiologico.
Voleva guardarsi in faccia. Voleva ricordare a se stesso che dietro quel volto c’era ancora un uomo in grado di difendere la sua famiglia.
Non accese nessuna luce, perchè la porta a vetro della camera da letto di lui e sua moglie si trovava nella traiettoria del bagno e non voleva svegliare Darline una seconda volta.
Il turno di mattina la stava uccidendo di stanchezza e le sue crisi notturne non l’aiutavano di certo.
Doveva ritrovare la sua tranquillità in un modo o nell’altro. Quell’instabilità interiore finiva per ripercuotersi anche sul suo lavoro. Era sempre stanco e assonnato e quando i musicisti gli domandavano come fossero andate le registrazioni, lui rispondeva senza aver realmente ascoltato il lavoro appena inciso.
Le orecchie andavano ancora bene, ma il cervello era proprio da un’altra parte.
Gli affari al suo studio di registrazione andavano alla grande, ma da lì a perdere tutti i loro clienti per negligenza, era un niente.
Si sciacquò il volto con dell’acqua ghiacciata e sollevò il suo sguardo nello specchio. Nel bagno c’era qualcuno assieme a lui. Un riflesso distinto di un uomo sulla quarantina, sporco e arruffato era apparso nello specchio.
Un grido sovrumano uscì dalla gola di Jack che crollò a terra, terrorizzato.
Non c’era nessuno dietro di lui. Il bagno era vuoto.
Cosa diavolo era stato? Un’allucinazione? La mancanza del sonno? Forse stava impazzendo. Prima sua figlia e adesso lui.
Uscì dal bagno ancora in stato di shock. La luce dalla camera da letto sua e di Darline era accesa. Probabilmente sua moglie aveva sentito le grida e si era alzata per l’ennesima volta.
Non era un’allucinazione. L’uomo che aveva visto in bagno era entrato dentro la camera del piccolo Bruce.
Nessuno avrebbe più fatto del male alla sua famiglia. Non faceva altro che ripetere mentalmente quella frase, dall’incidente avvenuto il mese precedente. Adesso era arrivato il momento di dimostrare a tutti che era un uomo perfettamente in grado di difendere la sua progenie.
Correndo come un forsennato verso la stanza del figlio, afferrò il suo ferro numero quattro dalla sacca da golf che teneva sempre nell’ingresso, per mostrare a tutti che era un golfista sempre pronto al gioco ed entrò nella cameretta.
L’uomo se ne stava accanto alla culla.
Con un fendente, Jack cercò di colpire l’oscura presenza per poi afferrare Bruce e portarlo al sicuro.
-Che diavolo succede?- gridò Darline, entrando nella stanza.
-Ci sono io. Ci sono io. Vattene.
-Che cazzo stai facendo?
-Vai via… scappa.
Darline si accorse immediatamente che c’era qualcosa che stava spaventando a morte suo marito, ma doveva assolutamente prendere il piccolo Bruce, prima di occuparsi dell’uomo.
-Senti, adesso devi darmi Bruce, ok?- disse, cercando di rimanere calma, mentre i demoni della rabbia non facevano altro che impadronirsi del suo corpo.
-Non posso. Vai via…
-Perchè hai una mazza da golf in mano?
-Tu non l’hai visto.
-Dammi il bambino, Jack.
-No. Non te lo permetterò. Stammi lontana. Io… io devo proteggerlo.
-Ok. Ok. Bene. Ma dimmi solo da cosa devi proteggere Bruce, così posso darti una mano.
-Era… era… oh mio Dio, Sharon aveva ragione.
Un vaso s’infranse sulla testa dell’uomo e il buio spense il ragionamento.
La madre di Darline si trasferì da lei, subito dopo gli avvenimenti che distrussero definitivamente quello che restava della sua famiglia. Erano entrambi schizofrenici, suo marito e la sua primogenita.
Qualcuno doveva averle lanciato addosso un malocchio grande come una casa.
Bruce era tutto quello che le rimaneva. Non riusciva proprio a capire perchè la pazzia di Sharon e Jack aveva dovuto abbattersi sul piccolo bambino che stringeva tra le mani in quel momento.
Oramai Bruce dormiva assieme a lei, in quella che un tempo era stata la camera da letto che condivideva con il suo amato marito, al momento ricoverato all’interno della stessa struttura che aveva in cura anche la giovane Sharon.
Quella notte avrebbe voluto chiudere gli occhi e risvegliarsi indietro nel tempo; precisamente quando la sua vita era ancora degna d’essere vissuta.
Adesso era tutto relativamente facile. Bruce non faceva alcun tipo di domanda, si limitava a poppare, fare dei gran ruttini e nulla di più. Un giorno, nemmeno poi tanto lontano, le avrebbe sicuramente chiesto dove si trovasse suo padre e chi fosse sua sorella e Darline non avrebbe saputo cosa rispondere.
Tempo al tempo… era solamente un neonato.
Sharon si alzò e andò in bagno, cercando di fare meno rumore possibile per non svegliare sua madre, donna dal sonno estremamente leggero.
Fece pipì e iniziò a riflettere sugli avvenimenti che avevano distrutto la sua vita. Non aveva notato nessun sintomo di squilibrio in Sharon, prima che questi si manifestassero tutti in una volta, esattamente come era successo con Jack.
Dal nulla, entrambi si erano scagliati con enfasi sul più piccolo della famiglia.
Sharon aveva cercato di ucciderlo con un coltello, mentre Jack aveva optato per una mazza da golf.
Cos’era successo alla sua famiglia? Cosa poteva aver distrutto il cervello delle persone che più amava al mondo? La pazzia? Il demonio? Non sapeva più a chi chiedere aiuto, ora che anche la preghiera le sembrava un inutile passatempo, privo di ogni tangibile riscontro.
Forse lei era stata scelta da Dio per vegliare sul piccolo ed indifeso Bruce. Poteva essere un’ipotesi, esattamente come poteva essere solamente un modo d’interpretare una realtà orribilmente grottesca.
L’acqua fredda sulle mani le restituì un po’ di colore in viso. Da quando erano successi quegli avvenimenti, la sua pelle aveva perso un paio di tonalità, regredendo dal rosa acceso, fino ad arrivare ad un bianco tendente al blu acceso.
Le occhiaie le circondavano gli occhi, quasi come se volessero proteggerla dal senso della vista, creando un fossato attorno alle sue pupille.
Prese l’asciugamano tra le mani e alzando lo sguardo verso lo specchio, vide un riflesso di terrore su quella superficie che aveva già condannato altri due esponenti del suo nucleo familiare.
Un grido gelido interruppe il sonno di Eleonor, sua madre, che svegliandosi di soprassalto, vide sua figlia correre in camera da letto, con un coltello da macellaio serrato nel pugno chiuso.

J. Wicker

I racconti di John Wicker li potete trovare anche sul vostro Kindle store. Il terrore è portata di click.

IL RIFLESSO DELLA PAURA | un racconto di John Wicker | l’Infernale edizioni

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Da oggi è disponibile su Amazon il nuovo racconto di John Wicker, lo scrittore del brivido già autore dell’acclamato “L’urlo del bosco”, pubblicato sempre da l’Infernale edizioni sul Kindle store.

In questo nuovo racconto, seguiremo la tragica avventura di una famiglia distrutta e tormentata da una presenza oscura.

“Il riflesso della paura” è un racconto in tinte horror che attinge all’immaginario collettivo del terrore, mantenendo la linearità di un racconto d’autore. Lo stesso Wicker ha affermato più volte di non volersi scrollare da dosso l’etichetta della letteratura di genere, in quanto si ritiene uno scrittore horror, prima di uno scrittore.

L’obiettivo finale di Wicker è sempre lo stesso: spaventarvi.

Per ottenere nella vostra libreria digitale “Il riflesso della paura” sui vostri dispositivi elettronici, dai tablet ai lettori e-reader, basta cliccare il banner sottostante.

Buona lettura.

 

Ferdinando de Martino.

 

Dello stesso autore, leggi anche:        

John Wicker | lo scrittore del mistero | un talento da brivido.

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A breve uscirà il nuovo racconto della serie “I racconti del terrore di John Wicker”, un autore sensazionale.

Ma chi è John Wicker?

È bastato mettere online il suo primo racconto per scatenare l’interesse dei lettori che hanno, giustamente, riconosciuto in lui un talento innato.

John Wicker (1967) è uno scrittore italo-americano, nato da padre italiano e madre americana. È cresciuto nel Jersey, per poi trasferirsi in Piemonte, alla ricerca delle sue origini italiane.

Sicuramente il suo background letterario è prettamente americano, anche se il suo libro preferito è il capolavoro del nostro compianto Italo Calvino “Le Cosmicomiche”.

Ma cosa mi ha spinto ad intraprendere un percorso editoriale con questo autore, iniziando a pubblicare i suoi racconti?

Wicker leggeva i racconti del mio blog e rispose ad un mio vecchio annuncio, inviandomi il manoscritto “L’urlo del bosco”, chiedendomi un semplice giudizio.

Dopo aver letto le prime pagine, mi sono trovato davanti ad una sensazione che non sentivo dai tempi dei racconti di Poe. Non per similitudini o cose del genere, ma semplicemente perchè la forma estremamente diretta di questo scrittore riesce a trasportare il lettore all’interno della storia.

Non sono mai stato un fan della letteratura di genere, ma al posto del giudizio che mi era stato richiesto, dissi a John che secondo me quella roba doveva essere pubblicata subito.

Per questioni ovvie, iniziammo a sentirci frequentemente, ma John non ha Facebook ed è una delle persone meno tecnologiche del pianeta. Ha un computer e una mail. Stop.

Leggendo i suoi nuovi racconti, per l’editing e la creazione delle copertine, ho iniziato a notare una vena nostalgica nelle sue parole e gli ho chiesto di parlarmi del suo passato e della sua vita, anche per la bio da inserire nel blog, ma lui, sfuggente come al solito, ha iniziato a divagare, virando la conversazione su dei nuovi soggetti a cui stava lavorando.

Solamente qualche giorno fa, John ha iniziato a raccontare qualcosa di più sulla sua vita, rispondendo alla domanda: perchè hai iniziato a scrivere?

John ha iniziato a scrivere dopo aver perso sua moglie in un incidente stradale. Un evento tragico che ha fortemente influenzato quello che un giorno sarebbe diventato il suo stile.

Jennifer, sua moglie, era un’appassionata della letteratura di genere, mentre lui amava generi completamente differenti tra loro. La notte, prima di addormentarsi, erano soliti inventare storie dell’orrore che finivano sempre con catastrofi e finali terribili. Era il loro modo di scherzare.

Proprio per esorcizzare il finale terribile della sua storia con Jennifer, ha iniziato a scrivere, rielaborando su carta le sue sensazioni.

Detto questo, John è una delle persone più simpatiche con cui abbia mai avuto a che fare. La battuta pronta e un’ironia affilata come la lama di una spada ne contraddistingue la struttura dei suoi dialoghi, non solo nei racconti, ma anche nelle mail.

Vi consiglio vivamente di leggere sul vostro kindle, iPad, iPhone, computer e quant’altro, “L’urlo del bosco” disponibile in versione e-Book, perchè sono sicuro che questo autore riuscirà ad imporsi nell’immaginario dell’orrore con uno stile moderno ed estremamente incisivo.

A breve uscirà il suo secondo racconto per “l’Infernale edizioni” (realtà editoriale del blog).

Spero che questo autore possa terrorizzare anche voi.

Fatemi sapere cosa ne pensate.

Tutto sarà riferito a John in persona, quando si degnerà di connettersi alla sua casella mail… maledetto a-tecnologico bastardo.

 

Ferdinando de Martino.