After Life – La serie evento – recensione di Ferdinando de Martino

Prendere un personaggio conosciuto e mediatamente controverso è un’arma a doppio taglio quando si lavora ad un progetto d’intrattenimento. In questo caso la scelta, dell’emittente mediatica più lungimirante del momento (Netflix),  di produrre una serie televisiva creata, diretta e prodotta dal poliedrico Ricky Gervais è stato un vero e proprio azzardo.

L’idea di affrontare due temi drammatici quali malattia fisica e patologia mentale è non solo coraggiosa, ma a tratti folle e ipoteticamente fallimentare. Tuttavia Netflix ha dalla sua parte un enorme vantaggio, correlato alla nuova metodologia di fruizione dei contenuti. La possibilità d’immergersi in una maratona, guardando un’intera stagione nel giro di due o tre giorni, rende molto semplice il linguaggio narrativo. Per i profani del mondo delle sceneggiature, mi soffermerò meglio su questo particolare.

La prima puntata di After Life è eccezionale, ma non avrebbe assolutamente funzionato in un contesto televisivo. Dopo aver guardato l’episodio pilota, la settimana successiva, la maggior parte del pubblico non si sarebbe sintonizzato sulla seconda puntata. Non è una questione di qualità, bensì di metodologia d’assunzione.

Quando si produce il primo episodio di una serie televisiva, l’obbiettivo è quello di infilarci una ricca presentazione dei personaggi e un colpo di scena atto a incuriosire lo spettatore, portandolo ad aspettare la puntata successiva. Stiamo parlando di un mero ragionamento commerciale.

Gli utenti Netflix, avendo già pagato per usufruire della piattaforma, non sono costretti ad attendere settimane per guardare un episodio, questo gioca a favore dei prodotti targati Netflix, perché essendo forti di questa dinamica anti-commerciale, possono permettersi di creare un prodotto d’autore, senza snaturare la trama nativa, evitando di trasformare il primo episodio in un grosso spot pubblicitario dell’intera opera.

Questa motivazione, strettamente settoriale, rende After Life un prodotto tecnicamente ottimo.

Ma veniamo al reale motivo che mi ha spinto a scrivere una recensione: si può uscire dalla depressione?

Questa è la grande domanda attorno alla quale ruota la vita del protagonista. Non è la risposta onnisciente ad essere importante, quanto più quella che lo stesso Gervise riserva al suo personaggio, ovvero: no.

Così, dare ad un tossico i soldi per comprare un’overdose finale diventa una scelta comandata, perché se da quel tunnel buio non si può uscire, è inutile tentare la corsa.

Tuttavia facendo gli stronzi spesso si finisce per imparare che il genere umano non è altro che lo specchio dei nostri stessi atteggiamenti e che la persona che abbiamo davanti non è che un essere vivente con un suo bagaglio emotivo e un caleidoscopio di demoni.

After Life è il prodotto di uno dei migliori sceneggiatori del nuovo millennio e come al solito noi europei riusciamo a creare una tipologia d’intrattenimento che gli americani possono solamente sognare.

 

 

Ferdinando de Martino