La parata degli elefanti | di Emil Brune

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Avvicinando la sedia al confine – poco più che immaginario – che divide il palco dal pubblico, osservo la sagoma di Nicolò al di sotto dei riflettori che, pian piano, vanno sfumando. È sudato e provato per lo spettacolo appena concluso. Poco distante da lui, un ‘ragazzetto’ biondo e soddisfatto abbandona la sua postazione alla batteria ancora carico come una molla per l’adrenalina dello show.
Non ho mai capito come facciano i musicisti a resistere per ore sotto quei bat-segnali. Io, probabilmente, sarei liquefatto al quarto pezzo, in preda a convulsioni e bassa pressione.
Nic mi osserva trascinare la sedia. Il suo braccio sinistro è steso – pigro – sulla tastiera mentre sorseggia placido dal bicchiere.
È la prima volta che parlo con lui. Dieci minuti fa, dopo essermi presentato, gli ho chiesto se fosse stato disposto a fare due chiacchiere non appena il pubblico e i ragazzi del gruppo avessero smobilitato. Nel rispondermi affermativamente, aveva in dotazione un’espressione che poteva essere un misto tra la curiosità e il divertito. Almeno credo.
Pur essendoci appena conosciuti, nei mesi passati avevamo avuto delle lunghe conversazioni, io e lui. Il suo LP, volteggiando sul mio giradischi, aveva generato il peso di centinaia di elefanti. Forse migliaia. L’immensa mole di una musica che mi costringeva al dialogo. Era qualcosa che andava al di là di melodie spumose e sensuali, capacità tecniche importanti, o testi che offrivano una visione del mondo tagliente e poetica. Ma, del resto, questo è solo il pensiero di un modesto ascoltatore. Non sono un critico.
Mai stato, grazie al cielo.
“Un uomo diventa un critico quando non può essere un artista, così come un uomo diventa un traditore quando non può essere un soldato”, giusto?
Ma persino un profano è in grado di intuire quanto Niccolò abbia la capacità di parlare all’anima di chi sa ascoltare realmente. È una qualità che possedevano i grandi musicisti del passato. E chissà che pure lui non possa arrivare ad esserlo. Per questo motivo avevo deciso di ascoltarlo dal vivo e, se possibile, scambiarci quattro parole. Per questo sono qui davanti a lui adesso.

Finisce di bere, mi sorride, aspettando che io dica qualcosa. Forse ha pietà di me e del mio imbarazzo (maledetto, pensavo di averti lasciato a casa), e ci fa la cortesia di rompere il ghiaccio.
– Allora…piaciuto il concerto?
– Un casino. Davvero un casino. Siete stati grandi. Il pubblico respirava a tempo con voi – rispondo piuttosto goffamente.
– Bene, sono contento – dice sincero – Simpatica l’idea di far salire tutti i ‘colleghi’ sul palco a cantare, no?
– Molto.
– Ottimo. Ottimo davvero. Sono felice se qualcuno si è divertito. Ma ora…parla! Cosa volevi dirmi?

“Bioparco. Mi ha colto alla sprovvista”.
Quindi gli butto là un – Beh, ecco. Io…volevo solo ringraziarti –

Dopo questa maldestra – e buffa – dichiarazione, la sua faccia si fa dubbiosa. Non intuisce dove voglio andare a parare, immagino.

– E per cosa?

A questo punto lascio che sia il mio stomaco a esprimersi. Lo annaffio con tutto ciò che mi è fermentato nel cervello da un po’ di tempo a questa parte.

– Per la tua musica. Per il tuo modo di esprimere quello che ti si agita dentro. Che raspa – ruvidamente – dentro molti di noi. Non è una cosa particolarmente comune da trovare. Riesci a parlare – qui calco a dovere – davvero al tuo ascoltatore. Come Alice, del resto. È stato forte il vostro pezzo assieme. Quindi grazie. Grazie davvero.
Okay. Ora è davvero a disagio. Dopo che gli sbrodolo in grembo questa manciata di duodeni zuccherosi è decisamente spiazzato. Ci sta, è comprensibile.
Nel frattempo, il mio amico di prima – il signor imbarazzo – se ne è andato affanculo. Non c’è più. È stato come una scarica di mal di pancia: vai al bagno e la spari via.
Datemi un ‘amen’ fratelli.

Niccolò mi guarda con l’aria di uno che sta pensando a cosa cazzo rispondermi, quasi avesse l’imbarazzo della scelta tra le frecce con cui auto-schernirsi. Devo dire che se la cava egregiamente.

– Cavoli…grazie! Sai, non è comune neppure sentirsi fare un complimento del genere. Pensa che l’ultima volta che una ragazza mi ha fermato dopo un concerto, a Volterra, mi fa: “Sei un grande! Non hai capito quanto mi strapiace la tua musica! Pensa che ti ho messo pure in playlist su Spotify!” – dice con un gran sorriso.
– Ahi! Vabbè, sarà stata piccina, dai. Quanti anni aveva?
– Non meno di venticinque, – risponde secco. Ride.
– Ah beh. Non proprio bene, allora!
– No, dai, non la vedo tutta a senso unico. Non sarebbe giusto. Cerco di non catalogare le persone solo dopo una prima impressione, senza sapere chi sono davvero. Sono sicuro che, per lei, quello era un gran complimento. Voleva essere carina.
– Ma avresti preferito una bella considerazione su Milano Est, nè? – gli faccio, ironico, spezzando il filo emotivo della discussione.
– Che ha che non va Milano Est? – risponde falsamente stizzito.
Un sorriso gli brilla negli occhi. Ma è una recita simpatica. Sto al gioco che io stesso ho cominciato.
– Nulla! Così come non c’è nulla che non va in Lambrate. Tranquillo. Non te la offendo la tua madonnina. È solo che giusto tu, il “prof”, e pochi altri, riuscite a dissertare poeticamente di nebbia, grigiore e della stazione centrale. O delle gite sulle grazielle lungo i Navigli. Facendocele ‘sentire’ davvero. Annusarle, toccarle. È un complimento!
Ride di nuovo.
– La nebbia è bellissima, dai. C’è leggerezza nella nebbia. C’è nostalgia, mistero. Non c’è nulla di brutto nella nebbia.
– Toh! E io che pensavo che la bellezza fosse un tramonto sul mare visto dal monumento dei mille. Ma magari sbaglio – lo pungo.
– Ah ah. Allora avevo colto bene l’accento.

Il sudore gli fa scivolare gli occhiali lungo il naso. Se li risistema con l’indice ridacchiando.

– Sei un bel soggetto tu. Vai a ruota libera, mi par di capire.
– Solo con chi mi sembra disposto ad accettarlo e a fare altrettanto. Con i colleghi che, di tanto in tanto, fanno a baruffa col mondo – rispondo.
– Beh, prego! Vadi, vadi pure, se le va. Prosegua!
– Se mi inviti a farlo, non vedo perché no…vuoi sapere perché la tua musica funziona, al di là di ritmi talmente dolci, puliti ed efficaci da diventare orecchiabili? O di pensieri che valgono tanto?
– Spara
– Perché riesci ad accontentare tutti. Ti apprezza il coglione, che neanche capisce di cosa diavolo tu stia parlando quando sei davanti a un microfono. Mentre pigi sui nerobianchi.
Ti canticchierà la mattina mentre caga, o accendendo lo schermo per guardare la finale di Grande Fratello Vip. Lo farà. Davvero! Lo sai anche tu che è così. E, allo stesso tempo, ti apprezza chi riesce ad avvertire le vibrazioni che arrivano dai tuoi testi o all’inclinazione che prende – a seconda del caso – la tua voce.
La tua musica funziona perché è polivalente: piace a chi soffre insieme a te in ‘Blacky’, così come a chi è arido come la figa di una puttana della maddalena. La può amare sia chi è intelligente, sia chi ha la prontezza di pensiero di un rafano.
Per la seconda volta, mi guarda sorridendo, senza dire nulla, evidentemente in imbarazzo.
– …e anche perché canti degli astronauti, certo. – smorzo – Perché, nonostante la sensazione di pesantezza del mondo che ci schiaccia, sei in grado di riderci sopra. Di scherzarci, cantando anche di ciò che c’è ancora di bello e colorato. Perché hai il fegato di guardare – e cantare – del buco del culo delle cose.
– Ora però, franandomi addosso così, a valanga, mi destabilizzi un po’, ragazzo.
– Dico solo quello che penso, come hai già intuito –
– E dimmi, mio caro fan – sorride a cinquantotto denti – cosa sai di me, effettivamente?
– Un cazzo. Conosco il tuo nome. E quello che di te metti in musica. Tanto basta.
– E tu?
– Io che?
– Tu chi sei? Cosa fai?
– È davvero importante? Non roviniamo un discorso interessante con l’anagrafica. Sono uno che apprezza il tuo lavoro: questo è il focus di serata. Non divaghiamo.
– Propongo un patto, allora: non si divaga in maniera classica.
– Andata.
– Mmh. Cosa ti fa paura? – domanda.
– L’assenza di curiosità. Una nazione più preoccupata del ‘closing’ di Berlusconi coi cinesi che del risultato di un referendum. La pagina bianca. La gente con lo sguardo incastrato nei quotidiani mentre passa il vecchio in pantofole che fa l’elemosina nel vagone della metro. E altre cazzate. A te?
– Il mondo degli automi. Quelli che girano per la strada. Videopoker, distributori e tram. Tutti quelli che non ricordano di essere venuti dal profondo del nero – risponde con un gran sorriso.
– Dai. Sii serio.
– Lo sono! Va bene, abbandoniamo l’auto-citazionismo sennò sembro davvero un artista.
– ‘E non chiamarmi artista, ma cazzaro’. Ochei, citiamo altri, va meglio? – lo accontento.
– Sempre. ‘Cazzaro alla radice’ – risponde a tono con quel ghigno che, ormai, pare essere perpetuo.
– Ho paura del protagonismo esasperato delle persone. Quella volontà granitica di dire sempre la cosa più intelligente, simpatica e brillante di tutti. Il prima possibile. Mi spaventano quelli che vogliono ‘essere qualcuno’.
– Ti riferisci ai colleghi della scena musicale attuale?
– Non solo loro. È un discorso che vale per molti. Tanti. Tantissimi. Basta aprire un qualsiasi social, cazzo. Tu ce l’hai Facebook? Instagram? Non capita anche a te? Tutti fotografi, scrittori, opinionisti politici, statistici. Il mondo dei supereroi della tastiera.
– Sì, certo, lo vedo anch’io. E tu?
– Io cosa?
– Non vuoi fare strada? Assieme alla tua musica. Trasformarsi in ‘qualcuno’ è così orribile? In ogni sua forma o modalità?
– Sinceramente, la cosa che mi preoccupa maggiormente, è quella di tentare di essere una versione decente di me stesso.
– Belin, che frase ad effetto. Posso rivendermela? Scherzo, so che è vero. Ma la domanda resta: non vorresti che la tua musica arrivi a più persone? Voglio dire, cazzo: se cerco i tuoi testi su internet, il massimo che posso ottenere è qualche passaggio da “Il sentiero dei nidi di ragno”. È una maledetta baggianata. Non ha senso.
– Il sentiero dei nidi di ragno?
– No! Dai che hai capito, per Dio!
– Sì, avevo intuito che non ce l’avevi con il buon Italo. Certo che mi piacerebbe. Ma arrivandoci pian piano. Me lo devo guadagnare pezzo dopo pezzo: solo così saprò che se arriverò a quel punto, sarà perché ho convinto le persone. Perché riesco a dire loro qualcosa, come succede con te. E questo si collega a una delle cose che più mi spaventano in questo mondo.
– E sarebbe?
– La gente che canta davanti a quattro poltrone girate di schiena. Ho paura dei pulsanti e di applauditori che pilotano le ovazioni del pubblico. Le finali mi terrorizzano. Mi fanno paura i ‘pressure test’ e le eliminazioni. Che cazzo ci sarà da eliminare dalla musica, poi?

È modesto e gentile. Questa volta è il mio turno di sorridere. Ho ottenuto quello che volevo e non ho per l’anima di bloccarlo lì tutta la notte.
Lo ringrazio, gli stringo la mano e faccio per andarmene.
Sulla soglia del locale, mi volto, e lo vedo ancora lì, sotto la luce rossastra, intento a trapanandosi materia grigia con chissà quale pensiero bislacco.
– Ehi, cantautore! – lo chiamo – a te piace perdere il controllo, giusto?
– Sempre. Mai cedere a un sistema di blocco prestabilito. Qualunque esso sia. Sociale, emozionale o qualsiasi altra stronzata. Perché?
– Allora dimmi qual è il tuo sogno. Uno dei tuoi desideri per il genio della lampada – gli chiedo con la mano sulla porta aperta a metà.

Ci perde sopra almeno una ventina secondi. Dall’esterno, Milano cerca di entrare a forza soffiando gelide correnti scombinacapelli.
Poi il suo volto si illumina.
– Vorrei una parata di elefanti colorati che scorre per corso Buenos Aires di sabato pomeriggio.
Grossi, enormi elefanti di ogni colore più stupido: gialli, verdi, fucsia e ramati. Vorrei osservare la gente che guarda felice, senza neanche un telefono che rubi quello spettacolo assurdo e perfetto.
Sento il cuore sorridergli ampiamente.
– Sei proprio un sognatore del cazzo – gli dico ridendo forte. – Vai a un talent, va’, Niccolò!
– Sé! Ci vediamo là! – risponde mentre sparisco dietro la porta.

 

Emil Brune.