The end of the tour | David Foster Wallace

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Ieri notte ho visto “The end of the tour” di James Ponsoldt, basato sul libro di David Lipsky “Come diventare se stessi”.

Ovviamente non posso esimermi dallo scrivere una mia opinione su questo film, dedicato a quello che da tempo è diventato il mio autore preferito, rubando la staffetta a Tolstoj.

L’avrei davvero odiato se fosse stato un film terribile, ma non lo è. Sicuramente non sarebbe piaciuto a Wallace e questo credo che sia del tutto comprensibile, ma il film in sé è un prodotto davvero interessante.

Senza soffermarci su fotografia e stronzate del genere (adoro la fotografia e tutte le varie sottigliezze cinematografiche, ma qui stiamo parlando di Wallace, quindi tanto vale soffermarci sulla sceneggiatura), potremmo passare direttamente al contenuto viscerale dei dialoghi.

Il film mette in luce una linearità di fondo che non credevo fosse possibile rappresentare in un contesto wallaciano. Probabilmente immaginavo di dovermi iscrivere a dei corsi propedeutici alla visione per vedere questo film senza strapparmi il cervello dalle tempie, invece il lungometraggio è riuscito in un intento molto particolare: mi ha dato una chiave di lettura estremamente semplice su David Foster Wallace e, in particolar modo, su “Infinite Jest”.

Durante la fine del tour promozionale di “Infinite jest”, David Lipsky ottiene la possibilità di seguire Wallace per un’intera settimana, per la realizzazione di un’intervista per il mensile Rolling-Stone. Wallace aveva appena partorito il suo romanzo fiume, destinato a diventare “l’Ulisse” della generazione x e il mondo guardava al suo talento con una punta di invidia e l’unico modo per concepire il suo genio era quello di svilire il personaggio, rendendolo un’icona alla Kurt Cobain.

Il motivo è molto semplice: le icone sono facili da capire, mentre “Infinite jest”, per quanto mi riguarda, è il libro più complicato della narrativa occidentale.

L’obbiettivo di fare di Wallace un martire, sfruttando le sue debolezze, in modo da trasformarlo in un prodotto da vendere ai più, non era una strategia di mercato, quanto più l’unico modo che gli americani hanno di relazionarsi al genio.

Quando ci si trova davanti ad “Infinite jest” si possono cogliere centinaia e centinaia di differenti interpretazioni e questo fa di quel libro un’opera estremamente complessa. Chiunque riesca a portare a termine la lettura di “Infinite jest” (e non è per niente semplice) non potrà che ricordare quel libro per il resto dei suoi giorni, come un capolavoro assoluto di empatia verso il concetto stesso di empatia.

Personalmente il libro in questione è il mio preferito e, quindi, posso sembrare di parte, ma credetemi quando dico che “Infinte jest” non finirà mai, almeno nella vostra testa.

Tornando al film. Due cose sono molto importanti all’interno del lungometraggio: il rapporto coi media e il peso delle parole.

Questi due fattori sono estremamente legati tra loro.

Quando si ascoltano i ragionamenti di persone del calibro di David Foster Wallace, si tende ad ascoltare in maniera superficiale ogni parola, cercando di collegare i pezzi dell’intero contesto. Questo è anche il motivo per cui in pochi riescono a portare a termine “Infinite jest”. In realtà le parole di Wallace, nelle interviste e nei libri, avevano un reale peso all’interno di un discorso. In pratica la gravità delle parole, rendevano realmente importante il concetto.

Un esempio azzeccato potrebbe essere la risposta di D.F.W. alla domanda -Hai la televisione?-, a cui l’autore risponde dicendo -No. Se ne avessi una non smetterei mai di guardarla o, semplicemente, rimarrebbe sempre accesa, come un sottofondo.

Si accolgono frasi del genere un po’ come se fossero delle massime gettate a caso, atte a costruire la retorica di un individuo e così è lo stesso Lipsky ad accogliere queste parole da inserire in un articolo.

Il colpo al cuore arriva quando ci si accorge che quella frase detta in una discussione svolazzante, corrisponde alla realtà. Ce ne accorgiamo quando vediamo per la prima volta Wallace davanti ad un televisore, totalmente incapace di staccarsi da quelle immagini così ammalianti nella loro dozzinale  concezione mediatica.

Capiamo allora che quello che abbiamo sentito corrisponde alla verità e finiamo per riflettere su tutto ciò che è stato detto durante il film, ma questa volta con una chiave di lettura diversa: Wallace non mente.

Avrà detto la verità anche sulla tecnologia e sul progredire di internet nel 1996? Forse tutto ciò è correlato col senso di solitudine e oppressione che si portava appresso?

Il colpo finale arriva quando Wallace pronuncia una frase molto particolare, dopo aver/ci ripetuto diverse volte all’interno del film -Tu non credi a quello che dico.-.

La frase in questione è -Da piccolo la mia dipendenza è stata la televisione. Lo so che ci sono dipendenze più seducenti, ma la mia è stata quella.

Questa cosa mi ha fatto riflettere su molte cose, dandomi finalmente una chiave di lettura molto intensa per capire meglio “Infinite jest”.

Wallace sembra entrare così bene nei suoi personaggi, perchè tutti i personaggi di quel libro sono spudoratamente David Foster Wallace.

Hal gioca a tennis, come molti dei personaggi e come il nostro Wallace. Joelle ha un velo, Wallace ha una bandana. James si suicida, Wallace si suicida. Tutti i personaggi che hanno guardato l’Intrattenimento, finiscono lobotomizzati dal teleputer, esattamente come Wallace nella realtà, quando la televisione riesce ad ipnotizzarlo.

È come se Wallace avesse cercato disperatamente di spiegare una dipendenza estremamente particolare, creando un intero universo basto sulle dipendenze stesse. Universo che riesce a controllare ogni dipendenza, eccezion fatta per l’Intrattenimento (trasposizione freudiana della dipendenza di Wallace).

Abbiamo poi un ulteriore richiamo wallaciano tra film e libro, ovvero quello in cui Wallace non ammette un problema di alcolismo, quanto più un’attitudine a bere ogni cosa. Questa malattia ha un nome ben preciso: dipsomania.

James soffriva di dipsomania in “Infinite jest”.

È come se l’uomo dietro le parole fosse una creatura dotata di una cultura onnivora, costruita per dare un nome più complesso a cose semplici e terrorizzanti.

-Continui a non credere alle mie parole.- ripete sempre Seghel (nel ruolo di Wallace) e questo ci aiuta a capire la profondità dell’autore che continua a dirci: guardate che parlo seriamente.

Gli attori sono stati molto bravi, ma davanti ad una sceneggiatura così interessante, non me la sento proprio di spendere giudizi sulle capacità degli interpreti.

Passo e chiudo.

 

 

Ferdinando de Martino.