L’uomo al buio. | artisti da vicoli | di Ferdinando de Martino |

Certe volte mi sento così spaventosamente vuoto da rischiare l’implosione. Capita a tutti probabilmente, come se anche le anime non riuscissero di tanto in tanto a pagare la bolletta della luce per tempo, gettando così l’umore nel buio più totale.

È proprio il buio il territorio della realtà. Il buio della nostra immaginazione notturna, il buio delle nostre ambizioni e il buio di ciò che desideriamo solamente lontani dall’illuminazione della parola.

Il buio di scena è spesso la partenza dell’atto migliore di un dramma teatrale. Spegnere le luci non è facile, esattamente come non è facile restarsene sempre al di sotto dei lampadari emotivi; è il limbo della penombra l’atmosfera che non sopporto.

Quando ti accorgi di odiare tutto e tutti, infilando anche te stesso all’interno di una guerra che non sei nemmeno disposto a combattere, ti ritrovi al capolinea della stazione fantasma, spettro di te stesso dentro gli occhi degli altri.

Le luci si possono spegnere con l’eroina. Le luci si possono spegnere in una stanza piena di puttane. Le luci si possono spegnere in culo ai lupi, in un rifugio di montagna, giocando a fare l’eremita in una partita a due con la tua solitudine. Le luci si possono spegnere con la vodka, con l’autostop, il tiro con l’arco. Le luci si possono spegnere con la codeina e coi cerotti alla morfina. Le luci si possono spegnere dopo un concerto. Il buio, quello vero, può arrivare mentre ti trovi in una donna.

Il buio lo puoi trovare ad un tavolo d’intellettuali alla “Lepre”, bevendo assenzio viola, parlando di collettivi artistico/cinematografici. In quell’ambiente ho sentito abusare del termine “poesia” milioni e milioni di volte. Sono tutti artisti, poeti, misantropi (solo alle feste e tra la gente), sono tutti tossici (senza crampi allo stomaco e dolori lancinanti alle giunture), sono tutti bohémienne (dopo aver ascoltato bohemian like you). Sono tutti così artisti da farmi odiare il termine ARTE. Molte ragazze sono lascive, perchè il termine puttana è fuori moda… pardon… non è cool.

Rollano le loro sigarette, discutendo di materie che non conoscono nemmeno lontanamente. Parlano, sbuffando fumo e niente. Il nulla più totale. Sono ribelli. Ribelli nei loro abiti logori/chic, ribelli nei modi effeminati alla Johnny Depp.

Chiunque non sia nella loro cerchia diviene un idiota, un non sofisticato; sono la versione sfigata degli sfigati che giocano a fare i fighi del liceo a trent’anni. Sono stupendi. Mentre si rollano le loro sigarette di Pueblo, bevendo cocktail annacquati, le  loro donne scopano con altra gente e in fin dei conti per quanto fiche possano essere, non scopano neanche bene. Sono belle ragazze, magroline e tette grosse, piene di ideali presi alla rinfusa da qualche libro che non mancano mai di far spuntare dalle loro borse, ma non c’è sostanza nell’atto. Manca l’impeto, la fame, la rabbia. È questo che manca a tutta quella gente… la rabbia. Le palle.

Stronzeggiano tutto il giorno accusando il loro spleen, quando dovrebbero accusare la loro mancanza di talento e dedizione. Hanno in mente idee geniali che rivoluzioneranno il mondo, come se il mondo accettasse di farsi rivoluzionare da una testa di cazzo qualsiasi, pronto a girare un corto a basso costo in una finta periferia o da uno scrittore che ambisce davvero, davvero, davvero ad arrivare al cuore della gente.  Hanno tutti il libro perfetto nella testa. Il film perfetto, l’angolatura perfetta, il quadro perfetto, mentre se si soffermassero a perfezionare un po’ di più la loro tecnica nel soddisfare le loro consorti farebbero realmente qualcosa di buono. Almeno per loro stessi.

Avanti con le crocifissioni di massa, ho le spalle larghe… lo posso sopportare. È una vita che combatto con questa gente, con queste persone che potrebbero uscire a cena col loro ego, per quanto sono dopati nel cervello.

La misantropia è un’arma a doppio taglio, ma anche uno scudo eccellente verso tutta questa voglia di sembrar migliori degli altri, questo parlare d’arte, arte e arte. Quando si ripete una parola per più di tre volte, questa finisce per perdere di significato e questa è una delle regole più maledettamente vere della letteratura contemporanea. tre